[Pagina precedente]... una specie di sonnolenza e di sbalordimento, pensando a lei, a che cosa stesse facendo, a che cosa fosse accaduto, al perché gli ordinasse di non vederla sino all'indomani, al come ella potesse aspettare sino a questo domani senza soffrire al par di lui. Trasaliva al ricordarsi con miracolosa precisione le parole di lei, il tono della sua voce, il profumo dei suoi capelli; stava guardando il lago, quel medesimo lago che cominciava a farsi bruno, e su cui le stelle cominciavano a scintillare. Fra il disordine delle sue idee ce n'era una piú insistente delle altre: perché ella gli avesse fatto promettere di buttarsi nel lago, e perché poi non gliel'avesse ordinato. Sapeva che non l'avrebbe obbedita, e che quel tale amore lo rendeva vile?
Il giorno dopo, avviandosi verso le quattro alla villa Armandi, incontrò la signora Rigalli che andava ad imbarcarsi insieme ad un'allegra brigata.
«Non va dalla contessa Armandi?» le domandò con un po' di sorpresa.
«No. L'Emilia doveva anzi venire con noi, ma stamane m'ha scritto che ha cambiato idea. Vuol essere dei nostri?»
«Grazie, non posso»; e si allontanò almanaccando perché l'Armandi in un biglietto di tre righe ci avesse cacciato anche la musica e la signora Rigalli.
Trovò la contessa nel suo salotto, sul suo canapè, circondata dai suoi amici e dalle sue amiche; fu accolto col miglior sorriso, e fu presentato agli altri senza il menomo imbarazzo. Ella era perfettamente padrona di sé, piena di brio e disinvoltura - scherzò anzi coll'aria un po' stralunata di lui - parlò di corse sul lago, di partite di piacere, delle avventure dei bagni. Un tale domandò del conte Armandi, ch'era ancora a Torino, sebbene la sessione fosse chiusa da un pezzo.
«Verrà quanto prima,» rispose la contessa «appena terminati non so quali lavori di non so qual commissione parlamentare; e rivolgendosi alla signora che aveva al fianco aggiunse sorridendo: «Quella benedetta politica è una rivale pericolosa.»
Alberto ascoltava la sua voce, e guardava le sue belle mani, ornate di larghi manichini di trina, che ella tirava in sú allorché le cadevano lungo il braccio. Alle ultime parole di lei la fissò in viso; poscia arrossí, senza saper perché, distolse gli occhi, e prese parte alla conversazione con vivacità nervosa, a sbalzi, con lunghe interruzioni che avrebbero grandemente sorpreso tutti coloro che erano presenti se non fossero stati tutti perfettamente ben educati.
«Non va colla signora Rigalli?» domandò ad un tratto.
La contessa gli rivolse un'occhiata tranquilla e rispose:
«No.»
«Mi disse però che contava su di lei...»
«Souvent femme varie!» rispose l'Armandi colla massima disinvoltura, e sorridendo un po'.
XXXII
Infine i visitatori se ne andarono a poco a poco. Alberti e l'Armandi rimasero soli, seduti l'uno accanto all'altra, e, per alcuni istanti, silenziosi.
La contessa s'alzò all'improvviso, si allontanò bruscamente da lui, diede un'occhiata incerta all'intorno, poi gli venne incontro risolutamente facendo frusciare i lembi del vestito con un sibilo di serpente irritato, e gli si piantò in faccia.
«Cosa avete? Dite infine! parlate!» esclamò corrucciata.
«Nulla, cosa volete che abbia?» rispose egli con durezza.
Le labbra della donna tremarono convulsamente, e s'agitarono due o tre volte come per parlare. Ma ad un tratto scoppiò in un accento indescrivibile, coprendosi il viso colle mani:
«Ah! come mi punite!»
Ei s'alzò, le prese le mani che gli sfuggirono, e rimase alcun tempo senza trovar parola. «Che vi ho fatto?» balbettò infine.
«Nulla m'avete fatto!» esclamò l'Armandi sdegnosamente.
Alberto le prese nuovamente la mano. Stavolta ella gliel'abbandonò senza accorgersene; teneva gli occhi fitti sul tappeto, torva, accigliata. Tutt'a un tratto gli disse con voce breve e concitata, fissandogli in faccia uno sguardo lucido e freddo come l'acciaio:
«Perché siete venuto? Cinque minuti prima di legarmi a voi mi sarei piuttosto buttata nel lago se avessi potuto immaginarlo! Ora avete il diritto di dubitarne!»
Alberto si fece rosso e pallido.
«Non mi amate?» le disse allentando la mano.
«Che cosa pensereste adesso di me se non vi amassi?» gli rispose sorridendo di un riso che faceva rilevare il labbro superiore con un'espressione d'amarezza intraducibile. «Ma non avrei voluto essere vostra amante... Ve lo giuro per mia figlia... per mia figlia!» replicò con forza, guardandolo alteramente negli occhi, e scuotendogli la mano, nell'osservare un impenetrabile movimento di lui. «Voi m'avete preferito a un'altra donna, ed io ero orgogliosa...» E chinando il capo con sarcastica e fiera rassegnazione: «Adesso vedete che non lo sono piú».
Si abbandonò sulla poltrona e nascose il viso nel fazzoletto, senza muoversi piú, senza dire una parola, cosí altera e sdegnosa che Alberto non osò scostare una punta di quel fazzoletto.
«Cosa v'ho fatto?» replicò alfine giungendo le mani «Non vedete come soffro? come vi amo? come ho sofferto per non avervi potuto vedere?... Avete letto il mio biglietto?»
«Sí... e la mia cameriera prima di me.»
«Ho scritto per questo in inglese...»
«Avreste dovuto scrivere in camaldolese: sarebbe stato meno sospetto, e meno compromettente.»
Ella parlava piano, con calma, con accento di rassegnazione ironica, col viso dimesso, e le mani incrociate sulle ginocchia.
«Ho avuto torto!» rispose Alberto alquanto indispettito, «perdonatemi. Vi amavo, avevo perduto la testa Non pensavo alle convenienze, al mondo, ai domestici... Avevo bisogno di pensare a voi.... di fare qualche cosa per voi... Non avevo altro da dirvi...»
«Nemmeno che avreste fatto della musica colla signora Rigalli, onde non compromettervi col vostro scritto... Non è cosí?» interruppe la donna.
«Oh!»
«Perché arrossite d'avermelo rimproverato mezz'ora fa: Avevate ragione!» riprese ella colla medesima calma nella parola, nell'accento, nella fisonomia e nell'atteggiamento. «Il vostro amore è schietto, franco, e sincero. Io ho parlato dinanzi a voi di mio marito, e non ho arrossito In presenza di coloro che mi ascoltavano. Ho mentito l'indifferenza e la disinvoltura, ho mentito verso di voi, verso i miei doveri, e verso il mondo; avete il diritto di pensare che vi abbia mentito anche quando vi ho detto che vi amo! Mezz'ora fa mi avete guardata in faccia stupefatto due o tre volte, e avete arrossito per me, vi ho visto. Voi non ci avete colpa. Son moglie, son madre, ho dei doveri sociali e son la vostra amante: è impossibile conciliare tutto quello che ci è di contraddittorio nel mio stato senza mentire. Io mi sono umiliata ai vostri occhi facendo il sacrificio del mio orgoglio e della mia delicatezza dinanzi a voi, per voi. Non vi faccio un rimprovero. È colpa vostra se avete tutto per voi, la franchezza, la lealtà, la delicatezza l'onore, e, a salvaguardia di tutto ciò, la vostra spada? Voi avete tutto quello che io mi son messo sotto i piedi... per voi.»
A queste ultime parole il sarcasmo scoppiò nell'accento vibrato, sibilante, nel sorriso amaro e nelle calde lagrime che ella asciugava dispettosamente prima ancora che spuntassero sull'orbita. Ciascuna di quelle parole, ciascuno di quegli accenti andavano a colpire sul viso Alberti, il quale stava zitto, immobile, arrossendo e impallidendo a vicenda come se si sentisse schiaffeggiare dalla propria coscienza.
«Perché m'avete amato?» domandò alfine con voce fremente e soffocata.
L'Armandi alzò su di lui gli occhi ardenti di lagrime e di collera, come smemorata, e non rispose.
«Perché non mi scacciate?» replicò Alberti.
Un'espressione indefinibile, un non so che di attonito, d'ansioso, d'irato, di vendicativo, d'innamorato e di pauroso, lampeggiò nello sguardo della contessa. Ella stette alcun tempo senza dir nulla; poi arrovesciò il capo all'indietro sulla spalliera della poltrona, con un movimento felino, e colle mani intrecciate dietro la nuca, colle larghe maniche cadenti per le candide braccia, rispose mollemente, guardando il soffitto:
«Avete ragione. Il meglio sarà non vederci piú.»
Alberto rimase immobile, guardandola. Ad un tratto si precipitò su di lei come un leone innamorato, l'afferrò per la vita, senza dire una parola, e la sollevò sulle braccia. Ella piantò gli occhi scintillanti come armi omicide in quel viso pallido e stravolto, tenendosi discosta da lui con tutta la forza della sue braccia irrigidite, e all'improvviso gli si avventò al collo, e lo baciò rabbiosamente.
XXXIII
A Bellagio il marchese Alberti aveva la riputazione d'essere alquanto originale, e infatti menava tal vita da giustificare cotesta riputazione. Non si faceva vedere da nessuno per delle settimane intiere, e poi tutt'a un tratto mischiavasi a tutti i crocchi, prendeva parte a ogni divertimento, mostravasi assetato di piaceri, montava spesso a cavallo, faceva delle corse da numida, o dormiva per ventiquattr'ore, e lo s'incontrava a scorrazzare per i sentieruoli piú deserti ad ore da poeti, o passava le notti ad un giuoco d'inferno, perdendo delle grosse somme, colla stessa indifferenza con cui vinceva. Le signore chiudevano un occhio sulle stranezze di lui perché egli li aveva molto belli tutt'e due, era giovane e ricco, e qualche volta anche grazioso ed amabile. Quel po' di corteccia ruvida che gli rimaneva attaccata, e di cui s'ingegnavano a gara di mondarlo, davagli anch'essa una certa agreste attrattiva - dicevano. Egli aveva i migliori cavalli, gli amici piú simpatici, ed una volta pregò due di costoro d'andare a sfidare un tale, il quale aveagli detto che aveva anche la piú bella amante. I due amici cominciarono dal ridere, ma per rabbonirlo dovettero finire col dirgli che non era proprio il caso di prendere in mala parte un complimento di cui molti altri sarebbero stati lusingatissimi. Alberto erasi incaponito che quel complimento fosse ingiurioso per la riputazione della dama. Il piú intimo dei due, quegli che desinava piú spesso con lui e che gli doveva di piú, lo tirò alquanto in disparte e gli disse:
«Caro mio, sei ben sicuro d'essere stato il primo amante di quella dama?... Be'... Non c'è di che arrossire... Lasciamola lí piuttosto. Un duello la comprometterebbe infinitamente dippiú. Andiamo a cena e dormiamoci sopra.»
La contessa riceveva Alberti frequentemente di giorno, anche quando non c'era per tutti gli altri, e di sera, allorché faceva della musica: il marchese era distinto pianista e l'Armandi amava la musica appassionatamente - ognuno lo sapeva. Alberti la vedeva in tutte le riunioni, in tutte le partite di campagna, e in tutte le traversate sul lago; era con lei sovente a cavallo o in carrozza, da solo o in numerosa compagnia, stava con disinvoltura nel salotto di lei, l'accompagnava al piano, e faceva il galante colle amiche di lei; sapeva condursi con garbo, rispettava le esigenze sociali, e piegava il capo con grazia alle piccole ipocrisie. Ella invece stava in mezzo a questi scogli colla testa alta, con aristocratica disinvoltura, dominando tutto ciò che non poteva elevare sino a lei; ingentiliva Alberto, lo perfezionava, stava a discorrere con lui accanto al piano, o presso il tavolino da lavoro, o si faceva accompagnare in giardino, dandogli l'ombrellino da portarle, e si lasciava baciare il guanto - sicché tutte le volte che gli permetteva di strapparle quel guanto, o lo precedeva sotto i folti alberi del boschetto, sorridente, esitante, guardandosi intorno nel raccogliere le pieghe del vestito, e camminando in punta di piedi, a lui sembrava che il cielo si spalancasse a due battenti. - Giammai non aveva voluto piú andare una sola volta sul lago con lui.
Si approssimava il ritorno del conte Armandi; Alberti lo sapeva vagamente, ma non aveva mai osato domandarne alla contessa, ed ella non gliene avea mai parlato. Un venerdí ch'era andato da lei per combinare una gita sul lago, e gli avevano detto che sarebbe ritornata a momenti, s'era messo al piano per ingannare il tempo, e scorreva della musica che la sera innanzi le avea mandato egli stesso. Infatti udí aprir l'uscio del salotto, e si alzò credendo fosse lei. Invece era la...
[Pagina successiva]