[Pagina precedente]...dovette subirsi la mamma, e vide la sua fidanzata sempre a distanza che si abbandonava con radiosa spensieratezza al piacere di esser corteggiata! Ei procurò di avvicinarsi alla contessa Armandi, per non rimaner né solo né colla suocera; ma anche la contessa gli volse le spalle - però senza che se ne fosse accorta, di certo - poiché incontrandolo poco dopo si mostrò amabilissima, prese il braccio di lui, e si mise a girare per le sale.
Dopo aver chiacchierato un bel pezzo d'argomenti diversi gli domandò con accento singolare:
«Si diverte?»
La domanda era semplicissima, ma Alberto si trovò imbarazzato a rispondere: «M'accorgo» disse alfine «che non son fatto per cotesti divertimenti.»
«Cosa vuole! Qualche volta bisogna sacrificarsi per gli altri. Velleda ci si diverte tanto! cotesto non è un piacere per lei?»
«Sû rispose egli secco secco.
La contessa ebbe uno di quegli scoppi di ilarità che la rendevano formidabile; sicché Alberto si fece di porpora. Ma tosto ella, per dimostrargli in certo modo la vera causa di quel riso a doppio indirizzo, soggiunse:
«Quel povero Metelliani m'ha l'aria di un rajà indiano, cosà camuffato e carico di brillanti.»
Alberto saettò sul rajà romano uno sguardo che l'Armandi sorprese.
«Senza adulazione, sa ch'è un bel trionfo il suo?» gli disse. «Non dipenderebbe che da Velleda di vedersi deporre ai piedi tutti quei ninnoli, e di aversi la corona di principessa allo sportello della carrozza!...»
«Se le fossi grato di una simile preferenza mi parrebbe di insultare la mia fidanzata» rispose Alberto, cercando di adattarsi all'aria scherzosa dell'Armandi, ma con troppa vivacità .
La contessa gli piantò in viso uno sguardo acuto e un sorriso incredulo, e gli disse tranquillamente:
«Ella è geloso!»
«Io?... di colui!...»
«Superbo!...»
E si mise a solfeggiare col ventaglio la musica che suonavasi. «Ta... ta... ta... Vogliamo sederci qui?»
Cambiò discorso e si misero a guardare il via vai della folla.
Poco dopo passavano la contessina Manfredini e il principe Metelliani. L'Armandi non aveva detto una sola parola, ma troncò a mezzo la frase incominciata, e li seguà semplicemente collo sguardo. Velleda rivolse loro da lungi un grazioso cenno del capo.
«Verrà anche lei a Livorno?» domandò l'Armandi al principe.
«SÃ.»
«Ma la Toscana se lo ruba addirittura!»
«Non domando di meglio che d'essere rubato, bella con tessa.»
Ella scoppiò a ridere ironicamente, ma si fece rossa. «S'accomodi!» gli disse, volgendo a mezzo le spalle.
Anche Alberto s'era fatto di fiamma in viso; lanciò a Don Ferdinando uno sguardo provocatore, e gli disse colla voce leggermente tremante:
«È singolare però che ella cerchi da un pezzo!»
Velleda si morse le labbra, e colse il primo pretesto per allontanarsi.
«Cosa avete fatto, malaccorto!» esclamò l'Armandi allorché furono soli. «Vi siete perduto!»
«Come?... Perché?...»
«Avete fornito a Velleda le armi che ella cercava!... Lasciamoci, lasciamoci!»
Le signore Manfredini partirono com'erano venute, insieme ad Alberti. Velleda parlò poco, e smontando di carrozza gli porse la mano come al solito. Ei la lasciò un po' bruscamente.
Il giorno dopo, andando al villino Flora, gli fu detto che le signore erano in giardino; ma ci trovò soltanto Velleda, che stava passando in rivista i suoi fiori. La ragazza lo salutò freddamente, continuò a discorrere per un cinque minuti col giardiniere di cardenie e di magnolie, rispondendo con monosillabi alle domande di Alberto, e poscia s'incamminò lentamente verso casa, precedendolo, di qualche passo. Prima di giungere all'uscio, si fermò su due piedi, e gli disse, voltandosi verso di lui:
«Alberti, vi prego di ripigliarvi la vostra parola.»
Egli rimase un istante sbalordito. «Perché?» balbettò.
«Non ci abbassiamo entrambi con spiegazioni superflue, voi sapete il perché assai meglio di me. Siete liberissimo di seguire le vostre inclinazioni, ma vi prego di rispettarmi tanto da non farmene spettatrice. Lasciamoci tranquillamente, da gente ammodo, da buoni amici, sinché vi è tempo.
Alberto non diceva una parola, e rimaneva come di sasso; fissando lei che giocherellava in aria distratta coi fiori che aveva colto. «Sentite, Velleda!» esclamò quindi con uno slancio d'affetto; «vorrei poter baciare la sabbia che calpestate!... Grazie!...»
La contessina lo guardò attonita. «Di che?...»
«Siete gelosa!... Dunque mi amate ancora!»
Velleda aggrottò il sopracciglio e parve un istante turbata ed esitante. «Chi v'ha detto ch'io sia gelosa?» rispose poscia alteramente.
«Ma dunque?... Ma perché?... Ma allora perché volete lasciarmi?»
Dopo alcuni istanti la giovanetta rialzò il capo che teneva chino, e rispose lentamente:
«Perché non ci conveniamo... Ci siamo sbagliati. Rimediamoci, finché siamo in tempo.»
«E il rimediarci non vi costerà nulla?» domandò Alberto pallido come cera.
«Nulla!» diss'ella dopo alcuni istanti.
«Rimediamoci allora!»
Fecero alcuni passi in silenzio.
«Noi partiremo doman l'altro per Livorno» riprese Velleda con voce calma. «Questa sera andremo in casa Armandi e domani faremo le ultime visite di congedo; quindi saremo occupatissime sino al momento della partenza; cosà potremo far tacere le ciarle degli indiscreti, per adesso. Durante la stagione dei bagni avremo poi tutto il tempo per disporre le cose nel modo piú conveniente...»
Alberto s'inchinò in silenzio.
«È inutile che riveda vostra madre?» le domandò.
«È inutile; sa tutto.»
Ella gli stese mollemente la mano, sfiorò appena quella di lui, ed entrò in casa.
«Povera Adele!» mormorò Alberto, come se allora soltanto indovinasse quel che avea dovuto soffrire la povera cugina, quando il piú acuto dolore della vita l'aveva addentata.
XXVII
Il marchese Alberti trovò a casa sua un biglietto di partecipazione delle prossime nozze dell'amico Gemmati colla cugina Forlani.
"Alcune volte il caso ha una logica singolare!" egli pensò
Il suo vecchio domestico venne a recargli il lume verso le otto, quantunque egli non l'avesse domandato, e gli chiese discretamente se si sentisse male, e se volesse desinare in casa.
«No» rispose Alberto. «Sai, Toni? l'Adele si marita! Sposa Gemmati!»
La contessa Armandi abitava un bellissimo appartamento a Porta San Gallo e siccome ci aveva un giardino annesso, riceveva ancora, malgrado che la stagione fosse inoltrata di molto. Alberto verso le dieci andò a Porta San Gallo, e fece rimettere il suo biglietto di visita alla contessa.
Ella venne ad incontrarlo all'uscio della sala. Era troppo gran dama per fargli nessuna domanda; ma era troppo donna per resistere alla tentazione di lanciargli la sua unghiata.
«Che fortuna!... finalmente!» gli disse stendendogli la mano.
Alberto sembrava calmo, ed aveva un sorriso nervoso che poteva passare per disinvolto. Sedendole accanto sul canapè, la ringraziò di aver tolto la consegna che gli vietava di passare la porta di lei.
«Non mi ringrazi, ché non ci ho nessun merito...» rispose l'Armandi piantandogli in volto come punti interrogativi gli occhi e il sorriso.
Era ancor troppo presto, e la contessa ed Alberti stettero soli una mezz'ora a discorrere di cose indifferenti.
«E le signore Manfredini?» domandò sbadatamente l'Armandi.
«Verranno piú tardi... probabilmente.»
La contessa lasciò passare quel probabilmente, e cambiò discorso.
A poco a poco incominciarono a venire gli amici di casa, e l'Armandi presentava il marchese Alberti come se fosse arrivato dall'Australia. La conversazione si fece generale. Verso le undici entrarono le Manfredini coll'inseparabile Don Ferdinando. La contessa, alzandosi per andarle a ricevere, strinse furtivamente la mano ad Alberto, e gli sussurrò sottovoce queste parole:
«Giudizio, mi raccomando!»
Velleda possedeva una perfetta disinvoltura, e sebbene la presenza inaspettata di Alberti in casa Armandi dovesse sorprenderla, non ne mostrò nulla. Metelliani sembrava raggiante; la contessa Manfredini era maestosa. Alcuni si erano messi a giocare; una bella signora bionda canticchiava, provando della musica al piano, sottovoce; il crocchio principale era fra le due finestre della sala, presso il canapè, dove si trovarono l'Armandi, le due Manfredini, Don Ferdinando ed Alberto. Si facevano molte parole, perché quasi tutti gli attori di quella scena avevano una preoccupazione da nascondere. Alberto faceva pompa di una gaiezza febbrile che scoppiettava in paradossi e in epigrammi. Velleda, dopo avergli lanciato di nascosto due o tre occhiate fra sorpresa e curiosa, avea preso parte alla conversazione col brio che le era solito. L'Armandi, a guisa di abile capo d'orchestra, dirigeva la rappresentazione, e dava il tono alla conversazione generale.
In quel tempo non facevasi che parlare a Firenze di una povera ragazza, la quale si era asfissiata col carbone, perché volevano costringerla a sposare un tale, mentre amava un altro. La novità di quel genere di morte, la morte dei poveri di borsa e d'animo, avea messo in moda quell'argomento: nei saloni aristocratici se ne discorreva molto, e le signore vi sciorinavano sopra il loro sentimentalismo profumato. La sola Armandi avea indovinato esser quello un argomento scabroso, e cercava di cambiar discorso; ma Alberto vi si attaccava con avida ostinazione, come se si sentisse forte su quel terreno, e sfoggiava a proposito un cinismo provocante.
«Scommetto che il fidanzato proposto a questa ragazza non era ricco» diss'egli.
«Perché?» domandò imprudentemente la signora Manfredini.
«Perché se fosse stato ricco la ragazza si sarebbe rassegnata a sposarlo, invece di suicidarsi.»
«Che orrore!» esclamarono le signore agitando il ventaglio.
«Signore mie, noi non possiamo giudicare su di ciò colle idee nostre. Quella era una povera popolana...»
«E per questo?... Non poteva amare?...» interruppe Don Ferdinando, che trovavasi nel quarto d'ora di tenerezza.
Alberto gli rise in faccia insolentemente.
«O che ci ha a fare l'amore con cotesto?...»
Le signore erano imbarazzate, compresa l'Armandi, che non sapeva qual contegno prendere. La signora Manfredini s'era fatta rossa come un tacchino; ma la figliuola era rimasta perfettamente padrona di sé, facendosi vento però con un poco d'animazione. Ella sola ebbe il coraggio di lottare colle medesime armi, contro quel disperato che ubbriacavasi di epigrammi.
«Ha notizia di sua cugina Adele?» gli domandò tranquillamente, come per sviare il discorso.
«Mia cugina sta benissimo, e sposa il mio amico Gemmati» rispose Alberti collo stesso tono.
«Ella dunque non crede all'amore!» insisté Metelliani con cocciutaggine presuntuosa e cercando di comprometterlo agli occhi di Velleda, poiché anch'egli era geloso di Alberto.
Questi gli piantò gli occhi negli occhi; e rispose ironicamente:
«L'argomento comincia ad annoiare coteste signore. Vogliamo fare una partita a carte piuttosto?»
Il principe parve esitare: ma infine inchinò il capo e lo precedette al tavolino. Mentre Alberti lo seguiva l'Armandi gli disse piano:
«Alberto!»
Egli non s'avvide dell'accento turbato e della parola confidenziale; la rassicurò con un sorriso stentato, e passò nell'altra sala.
I due giuocatori sedettero di faccia. L'Armandi, inquieta, venne ad appoggiarsi alla spalliera di una seggiola, mostrando prendere un grande interesse alla partita. Velleda non si tradiva; ma era inquieta anch'essa, e ronzava per la sala da gioco con un'irrequietezza che non sapeva padroneggiare. I due avversari, seduti in modo che quasi si toccavano, non alzavano gli occhi dalle carte; si mostravano completamente assorti nel giuoco, e al lume delle candele sembravano pallidi.
Alberti giocava come un uomo che ha la febbre, o che perde sulla parola. I suoi occhi fissavansi di tanto in tanto scintillanti sul volto del principe, che rimaneva impassibile, e all'ombra della ventola pareva di marmo. Metelliani era troppo uomo di mondo per dare ad Alberti il menomo pretesto ad una provocazione. Giuocava freddamente, da gran signore, ed era fortunato come un milionario. Tutt'e due non dicevano che le sole parole indispensabili, il principe con la sua flemma inalterabile. ...
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