[Pagina precedente]...della ragazza ch'era pallida come un cencio. Ella avea rivolto un'occhiata rapida e penetrante su di Velleda, e s'era scusata alla meglio.
«Qualcosa troverò» disse la Manfredini dopo aver saettato alla sfuggita uno sguardo acuto sulla figliuola.
«Andrò io, mamma!» esclamò costei, di cui l'angoscia acuta tradivasi nell'accento. Ma prima che ella potesse gettarsi dinanzi all'uscio, la madre era entrata precipitosamente.
L'Armandi prese la mano della fanciulla, per ringraziarla, senza distogliere gli occhi da quelli di lei.
La contessa Manfredini ritornò quasi subito, perfettamente calma, tenendo in mano una boccettina che faceva odorare alla contessa. La madre e la figlia non si rivolsero uno sguardo.
Il rimedio parve giovare immensamente alla contessa, e dopo cinque minuti ella ritornava in sala al braccio della signora Manfredini. Velleda si fermò ancora un po' dinanzi allo specchio per aggiustare qualche piccolo disordine della sua toeletta, senza neppur volgere gli occhi sullo specchio. Ella accompagnò con un lungo sguardo attraverso lo specchio le due signore, e allorché fu certa di essere sola, si precipitò nella sua camera, e la scorse in una sola occhiata. Non c'era nessuno. Corse alla finestra, alta un primo piano dal suolo, e la trovò socchiusa, soffocò un grido, e cadde sui ginocchi.
Il giorno dopo, alle quattro, il marchese Alberti presentavasi alla contessa Manfredini, e le chiedeva la mano di madamigella Velleda.
XXV
Il marchese era un orso campagnuolo, avea trentaduemila lire di entrata, e il matrimonio fu presto combinato.
«Lo sapevo!» esclamò l'Armandi, con un sorriso mordente, quando le diedero la notizia.
E soggiunse, forse per addolcire o spiegare quell'affermazione singolare:
«Quel giovane ha la bosse del matrimonio.»
La sera stessa, mentre stava per andarsene, disse ad Alberto:
«Ve l'avevo detto che avreste finito per sposarla voi. Siete fatti l'uno per l'altra.»
E gli volse le spalle. Partendo non si accorse del saluto di lui, e non gli rispose; ad un tratto, tornando indietro, e stendendogli la mano:
«A proposito, le mie felicitazioni» gli disse.
Velleda amava moltissimo il suo fidanzato; ma l'amava com'ella poteva amare, con molta riservatezza, e un po' freddamente in apparenza. Alberto invidiava a lei l'inalterabile disinvoltura e il dominio di sé stessa. L'elettricità di cui era carica l'anima ardente di lei, celavasi sotto un esteriore glaciale, e scoppiettava solamente in qualche lampo degli occhi, o nella reticenza di un sorriso, o in una stretta di mano piú lunga del solito, mentre si separavano sull'uscio: che metteva nel giardino. Quel pudore elegante aveva la sua leggiadrÃa.
La signora Manfredini sembrava la vera amante di Alberti; lo lisciava, lo carezzava, lo adulava, se lo teneva attaccato ai panni, e gli accordava l'onore di offrirle il braccio molto spesso, assai piú spesso ch'egli non avrebbe desiderato. Qualcheduno degli amici di casa avea domandato quale delle due Manfredini sposasse il marchese Alberti.
Il matrimonio era stato fissato pel settembre. Le signore Manfredini sarebbero andate in giugno a Livorno, e Alberti dovea andare a raggiungerle, dopo aver fatto una corsa pei suoi poderi, e date le disposizioni per certi restauri che occorrevano ad una villetta sul lago di Como, che lo zio Bartolomeo avea salvato dal naufragio delle sostanze paterne, e nella quale gli sposi dovevano andare a passare l'autunno.
In quel tempo a Firenze non si parlava che di un gran signore romano, giunto di fresco, il quale s'era fatto vedere alle Cascine in un superbo equipaggio. Il principe Don Ferdinando Metelliani era un omiciattolo dieci o dodici volte milionario, che troneggiava dai quattro cuscini del suo phaéton come un Apollo brutto. La folla agitavasi al suo passaggio come uno sciame di formiche sorprese dal piede di un villano, lo invidiava, lo ammirava, lo derideva, lo deificava; tutti gli occhi volgevansi verso il suo cocchio lucente; il nome di lui, la sua ricchezza, la sua età , i suoi vizi, correvano sulle bocche di tutti; le piú belle e le piú schive guardavano con maggior attenzione che non sogliono accordare ad un semplice mortale, cotesto scimmiotto che le fissava insolentemente, e buffava loro il fumo in viso del suo avana, e lo trovavano schicche perché spingeva i suoi quattro cavalli sulla folla come se si sentisse abbastanza ricco per pagare le ossa che avrebbe rotto. Il principe discendeva da quel patriziato romano che aveva cinque secoli di esistenza allorquando la piú antica nobiltà d'Europa arava la terra o serviva nelle sue legioni; era ufficiale delle Guardie Nobili, e cotesto soldato, discendente da una famiglia che aveva condotto alla vittoria parecchie generazioni dei padroni del mondo, s'era rifiutato a battersi in duello; avea quarant'anni, e avea sciupati tutti i godimenti della vita; ascoltava messa tutti i giorni, si comunicava due volte al mese, gettava l'oro sotto le ciabatte delle cortigiane, e avea fatto rinchiudere la sua unica sorella in un monastero per non darle una dote. - Sopra tutto ciò due milioni di scudi.
Il principe Metelliani frequentava la migliore società di Firenze, e avea conosciuto la signora Manfredini all'Ambasciata di Napoli; l'altera bellezza di Velleda avea colpito
il dissoluto patrizio, e soltanto dinanzi a lei, che non gli volgeva uno sguardo, egli aveva chinato la testa pelata e superba; s'era incaponito con ostinazione da uomo onnipotente a far la corte alla sola donna che non la facesse a lui. La signorina Manfredini era troppo orgogliosa per accorgersene, e allorché vide la prima nube sulla fronte di Alberto, ella aggrottò il sopracciglio. - Una volta che il principe s'era mostrato piú galante del consueto, ella, con un cenno impercettibile, chiamò il suo fidanzato, che ronzava là presso, e lo presentò a Don Ferdinando. Quei due uomini si scambiarono un saluto d'antipatia cordiale.
Ma la contessa Manfredini civettava col Metelliani in luogo della figliuola. Allorché entrava in una sala al braccio di lui, o allorquando poteva presentarlo alle sue amiche, sembrava raggiante, ed era arrivata a chiamarlo semplicemente Don Ferdinando. - Don Ferdinando lasciava fare graziosamente. La figliuola al contrario conservava una serenità olimpica; soltanto allorché le donne piú nobili, piú belle, piú eleganti, si abbassavano a mendicare l'attenzione di quell'omiciattolo, che non sembrava curarsi d'altri all'infuori di lei, le sue rosee narici si gonfiavano appena. Di tanto in tanto era distratta, o pensierosa; qualche volta Alberto la sorprendeva fissando su di lui uno strano sguardo, come se lo vedesse per la prima volta, e stesse esaminandolo tacitamente. Essa non avea mai voluto dirgliene il perché, e finiva sempre motteggiandolo.
Gli amici di casa Manfredini avevano combinato una gita, e naturalmente la madre e la figlia erano della partita; siccome Alberti, vivendo ancora da scapolo, non avea che due cavalli, dei quali uno da sella, il principe Metelliani avea messo la sua carrozza a disposizione delle signore Manfredini. Questa circostanza avea fatto nascere un piccolo diverbio con Alberto che era un po' geloso del principe, senza che volesse confessarlo; ma la contessa avea spiegato nella lotta tutta la sua vanità di mondana, tutta la sua prepotenza di suocera, e avea vinto. Velleda s'era acconciata alla vittoria colla superba indifferenza che le era particolare. Al ritorno la lunga fila delle carrozze, con in testa la sfolgorante daumont delle Manfredini, avea fatto un giro per le Cascine, e allo svoltar del piazzone il principe era venuto loro incontro a cavallo. Allorché Velleda, distesa mollemente nella superba calèche, volse uno sguardo su quell'immensa piazza affollata, e vide tutti gli occhi fissarsi sui magnifici cavalli, sulle ricche livree di quell'uomo che stava dinanzi a lei col cappello in mano, il seno le si gonfiò con violenza.
Alberti ebbe il torto di congedarsi un po' bruscamente quella sera. Velleda gli aveva detto, piú freddamente del solito:
«Avete un carattere singolare davvero!»
Quand'egli si allontano, l'accompagnò con uno sguardo carico di pensieri; poi alzò leggermente le spalle.
Il domani stavano per uscire in carrozza - carrozza da rimessa - e vedendo il suo fidanzato ancora imbronciato, Velleda gli disse ridendo, mentre si abbottonava il guanto:
«Orsú!... Sareste capace d'ingelosirvi del Metelliani?»
«No!» rispose Alberto con un po' di superbietta appunto da geloso.
«Alla buon'ora!» diss'ella; ma non rise piú.
XXVI
Al cominciar della primavera la contessa Armandi era partita per la campagna, e non s'era piú fatta vedere in casa Manfredini; soltanto era ritornata in giugno per due o tre giorni a Firenze, prima di andare ai bagni; ma il caso avea fatto sà che non si fosse piú incontrata con Alberto.
La signora Manfredini, senza saper perché, avea rimandato alla seconda quindicina del mese la partenza per Livorno, e perciò anche Alberti avea rimandato la sua. Velleda non faceva la menoma osservazione, però era divenuta bisbetica, capricciosa, lunatica, e qualche volta anche dura ed ingiusta verso il suo fidanzato. La madre prendeva le parti della figliuola, e faceva prevedere una suocera coi fiocchi, o piuttosto con gli artigli. Allora Velleda avea dei momenti di affezione piú espansiva del solito, quasi dei pentimenti, che col suo carattere sembravano piú straordinari.
Alberto avea tal'altra idea di Velleda, che avrebbe creduto oltraggiarla mortalmente se avesse confessato gli ingiustificabili ma invincibili assalti di gelosia che l'assalivano di tanto in tanto. Il Metelliani era cosà attempato, e cosà poco seducente, che egli non avrebbe giammai creduto possibile un pensiero di Velleda per quell'uomo. Don Ferdinando era divenuto intanto uno dei piú assidui frequentatori del villino Flora. La signora Manfredini trovava sempre modo di far cadere nel discorso questo fatto, e Velleda non poteva fare a meno di esserne lusingata internamente, poiché Don Ferdinando era l'idolo della società , e le piú nobili dame erano gelose di cotesta preferenza. Metelliani possedeva quella disinvoltura da gran signore, che adattasi egualmente alla impertinenza e alle belle maniere; l'omaggio rispettoso di quell'uomo superbo e sprezzante verso tutti gli altri, dovea lusingare enormemente l'amor proprio della fanciulla vanitosa; ella avea finito per ringraziarnelo con una parola graziosa, con un sorriso, con un'occhiata, sempre però accompagnati da quell'ombrosa riservatezza che era la sua piú bella attrattiva. Alberti soffriva come un dannato, arrossiva e indispettivasi contro sé stesso, ma senza potersi vincere. Volere o non volere, era lui solo che in mezzo a tanti sorrisi rappresentasse la parte di uggioso, e la mamma Manfredini glielo faceva intendere in tutti i modi; la figliuola, ch'era superbetta, si mordeva le labbra senza dir nulla.
«Vi sareste pentito d'avermi data la vostra parola?» gli domandò un giorno, smettendo di giocare colla cagnetta.
«Io!... come?.. Ma perché mi dite ciò?...» Velleda si mise ad inseguire cosà pazzamente Gemma pei viali del giardino che Alberto non poté aggiungere altro, e non osò buttarsi ai piedi di lei.
Siccome il Metelliani non trascurava occasione per dimostrare la sua premurosa amicizia verso le signore Manfredini, avea insistito per avere l'onore di accompagnarle all'ultima festa a Pitti. Le signore avevano accettato. Passando in mezzo a quella folla di uniformi, di decorazioni, di grandezze mondane, appoggiata al braccio di quell'uomo di cui il nome correva sulle bocche di tutti, che portava la testa alta nella casa del Granduca, Velleda sentà qualche cosa di mai provato, che le fece rialzare il capo con un impercettibile movimento, come se avesse voluto gettarsi sulle spalle a guisa di manto reale il ricco volume dei suoi capelli. Ella volse sul principe un'occhiata rapida e sfolgorante, nella quale sembrarono riflettersi lo scintillÃo delle decorazioni e dei ricami dell'uniforme di lui.
Che brutta sera pel povero Alberti, il quale ...
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