[Pagina precedente]...rai però?»
«Tutt'altro.»
Al concerto c'era tutto il mondo elegante, all'infuori della principessa Metelliani. Marito e moglie erano rientrati in casa verso le sei, quando si udà nel corridoio che separava il loro appartamento da quello dei Metelliani il fruscÃo dell'amazzone della principessa che ritornava dalla sua passeggiata.
A pranzo Alberti fu un po' distratto, e faceva degli sforzi visibili per non lasciar scorgere la sua preoccupazione; quando fu l'ora d'andare al ballo pregò la moglie che lo dispensasse d'accompagnarla.
«Perché non vieni?»
«Sono stanco, ho qualche lettera da scrivere, e del resto sai che non mi diverto molto.»
«Ci rinunzierei anch'io, se non mi fossi impegnata ad andare colla Lina.»
«No, vai, divertiti pure, anche un poco per me.»
La marchesa partÃ; un quarto d'ora dopo si udà anche la carrozza della Metelliani che andava. Allora Alberti respirò liberamente.
Passò nel suo stanzino da studio e si mise a leggere per ingannare il tempo, aspettando la moglie, ed anche per distrarsi alquanto.
A misura che andava calmandosi quello stato d'agitazione in cui era stato tutto il giorno, dopo la prima vertigine, attraverso le idee che andavagli suscitando la lettura, ritornava con una strana intermittenza, il pensiero che lo preoccupava dippiú. In certi momenti chiudeva gli occhi, e scorgeva Velleda come l'avea vista il mattino.
Tutt'a un tratto udà un passo rapido e leggiero nel salotto, l'uscio fu aperto bruscamente, ed entrò la principessa.
Era in abito da ballo, avvolta in una leggiera mantellina, splendida di bellezza.
«Vostra moglie vi ha proibito di venire?» domandò con un sardonico sorriso.
Alberto la guardava ancora sorpreso, senza rispondere.
«Vi siete pentito, dite?»
«SÃ.»
«Alla buon'ora!»
La principessa non osservava che Alberti s'era bensà levato in piedi, ma non l'invitava a sedere. Andò risolutamente verso la poltrona ch'egli aveva lasciato, e vi si adagiò da padrona.
«Perché non siete venuto neppure al ballo? Per timore d'incontrarmi?»
E siccome egli non rispondeva, soggiunse:
«Avete fatto una bella cosa, marchese Alberti!»
Dopo un istante di lotta penosa ei disse risolutamente:
«Io vi ho perdonato... perdonatemi!»
«Ah! m'avete perdonato? Che cosa, di grazia?»
«Lo sconvolgimento che avete gettato nella mia mente, il turbamento che m'avete fatto provare accanto a mia moglie... il rossore che son costretto a subire dinanzi a voi. Tutto ciò non vi pare abbastanza?»
«No!» esclamò dessa con accento indefinibile. «C'è qualcosa di piú... o di peggio, come volete... che io mi sia gettata alla vostra testa, che voi ne abbiate forse riso con vostra moglie, e che io sia qui!... Cosa vi sembra di cotesto, marchese?»
Ei guardava stupefatto quella bellezza imperiosa, fremente di corruccio e di civetteria dispettosa di cui le braccia nude spiccavano a loro insaputa sul bruno velluto della poltrona.
«Cosa credete che possa fare una donna in tali condizioni»
Alberto chinò gli occhi dinanzi a quegli occhi sfolgoranti.
«Per fortuna che sono una donna di spirito, - avete detto, - e anche voi... - e non ho bisogno di domandarvi se siete certo che il vostro amor proprio non v'abbia giocato un brutto tiro. - Addio, Alberto; giacché volete il mio perdono, ve lo do con tutt'e due le mani. Non dite nulla a vostra moglie. Che cosa penserebbe se sapesse che sono stata qui, proprio qui, dopo la mezzanotte, io, la vostra antica amante?... Poiché ci siamo amati, non è cos� - Ma, davvero!... avrebbe torto, davvero!»
S'era rizzata in tutta la bellezza della sua elegante persona, ironica, provocante, motteggevole, colle spalle marmoree, e il seno superbo, la veste sinuosa, come cosa animata anch'essa è seduttrice e stava per andarsene. - Egli che non avea detto piú una parola, le prese con impeto una mano, poi l'altra. Ella, afferrata da quella stretta, gittò indietro tutta la sua persona fremente.
La principessa aprà l'uscio con un colpo secco e nervoso; gettò ad Alberto una stretta di mano senza voltarsi, ed attraversò il salotto rapidamente. Alberto ritornando dall'accompagnarla ancora confuso e sossopra, vide del lume in camera della moglie. Rimase un istante ritto in mezzo al salotto, turbato, sorpreso, esitante, poscia picchiò timidamente all'uscio ch'era soltanto socchiuso. Trovò Adele dinanzi allo specchio, in atto di disfarsi i capelli senza l'aiuto della cameriera, pallida, turbata anch'essa. - Udendo entrare Alberto si volse trasalendo.
«Sei tornata... diggià !...» diss'egli evitando di guardarla.
Chinò gli occhi anche lei.
«Sû rispose dolcemente.
«Da quanto?»
«Da poco... da mezz'ora...»
Egli fece qualche passo per la camera.
«Volete che partiamo domani?» domandò poscia.
Ella chinò il capo. Il marito uscÃ.
XLVII
Qual notte terribile per la povera Adele! Non solo avea ricevuto una acerba ferita al cuore ed all'amor proprio, ma tutto l'edificio della sua felicità crollava; quell'uomo ch'era tutto per lei le sfuggiva, travolto nel turbine di quelle passioni ch'erano state cosà formidabili per lui, e che lo rendevano formidabile agli altri.
Ella non avea pianto, non s'era lamentata; il domani s'era levata com'era andata a letto la sera senza chiuder occhio, pallida, febbricitante, e avea fatto con calma i preparativi per la partenza.
Lungo il viaggio scambiarono una dozzina di parole, parole indifferenti, dette con accento pacato, evitando di guardarsi, parole di ghiaccio che mettevano del ghiaccio tra di loro. Ella sentivasi stringere il cuore, e procurava di metterci almeno una certa dolcezza; quella dignitosa rassegnazione sembrava che andasse a colpire in faccia Alberto, il quale sentiva l'abisso sprofondarsi gradatamente fra di loro: lo sentiva alla sua propria freddezza, a quel non so che d'impacciato, di timido ed altero che c'era, a sua insaputa, nelle sue stesse parole.
Cento volte, in quella notte dolorosa anche per lui, era stato sul punto di correre a buttarsi ai piedi di Adele, e chiederle perdono; ma gliene era mancato il coraggio per una fatale delicatezza, per un falso pudore, per una singolare rettitudine della colpa. Domandarle perdono di che? Di averla tradita vilmente per una donna che non stimava punto? Di aver dimenticato in un istante l'amore di lei, la fiducia ch'ella aveva in lui, il loro passato, i giorni, i mesi interi d'intimità , di casto abbandono, d'espansione, d'identificazione completa d'idee, di sentimenti? Di essersi posto sotto i piedi tutto ciò per dei capelli biondi e delle spalle che gli si erano gettate alla faccia? Di averla insultata volgarmente all'uscio istesso delle sue stanze? Ma il domandarle cotesto perdono non sarebbe stato un altro insulto? Non sarebbe stato come domandarle una sanzione disonorevole per entrambi, un confessarsi piú basso della colpa? D'ora innanzi avrebbe potuto piú dirle che l'amava tuttora, che non avea mai cessato d'amarla - ed era vero - senza sentirsi montare i rossori al viso? E avrebbe potuto credere ch'ella avesse obbliato, e l'amasse ancora, senza dubitare che mentisse anche lei? Quando si cade bisogna almeno aver la forza di non dare del viso nel fango.
Giunti a Firenze, mise in campo degli affari, e partà per la campagna. Cosà toglievasi pel momento al supplizio di comparirle dinanzi in quelle ore che solevano passare insieme. Ella sentiva un gran dolore, una gran timidezza di fronte a quell'uomo, un gran timore di contrariarlo, e non fece la menoma osservazione.
Alberti avea detto che sarebbe mancato una settimana o due, e mancò tre mesi. In questo tempo Adele s'era ammalata, assai piú gravemente di quel che sospettasse ella medesima, e gliene aveva scritto come di una passeggiera indisposizione. Egli informavasi di lei tutti i giorni per telegrafo, ma non ritornava. Del resto le notizie che riceveva erano sempre piú rassicuranti: la marchesa sembrava intieramente guarita.
D'allora in poi il marchese scriveva spesso alla moglie, e spesso riceveva sue lettere. Per lo piú erano lettere insignificanti - o significanti troppo - non contenenti altro che le fredde formule della cortesia coniugale, rispettose e asciutte da parte di lui, timide e riservate da parte di lei. Di tanto in tanto un pensiero serpeggiava (è questa la parola adatta, poiché era un serpe) per la mente di Alberto. Che cosa sarebbe divenuto di quel tesoro di affetto che c'era nella sua Adele, adesso che per sua colpa era stato distolto violentemente da lui? Dove sarebbesi rivolto, su chi e in qual modo? Allora arrischiavasi ad insinuare nelle lettere qualche frase che prestavasi ad un'interpretazione affettuosa, e cercava nelle risposte di Adele il riflesso del sentimento che provava.
Gemmati, avendo saputo che la marchesa Alberti era ritornata da Livorno, sebben non si fosse fatta viva, era andato a farle visita, ed era rimasto colpito dall'alterazione profonda che scorgevasi nell'aspetto di lei. Dopo alcuni giorni Adele s'era ammalata davvero, Gemmati l'avea assistita come sorella o come una figlia, e, pur dissimulando la gravità del male, aveva insistito perché ne fosse informato Alberto. I pretesti dapprima, e poi le ripulse ostinate della marchesa, l'avevano sorpreso, e non avea tardato ad accorgersi che qualcosa di grosso doveva esserci stato. Conoscendo Alberto intimamente, egli fu sgomentato piú di quanto lo fosse Adele istessa.
Prima di cedere al gran bisogno che sentiva di sfogarsi, di esser confortata, di appoggiarsi ad una mano amica, Adele avea molto combattuto, per delicatezza, per un sentimento di dignità , di rispetto e di amore verso il marito; ma a poco a poco qualcosa erale sfuggita lentamente. Gemmati avea capito il resto, e d'allora in poi erasi mostrato piú riservato, e piú discretamente affettuoso. Andava a trovarla di sovente, poiché sentiva che il darle occasione di parlar di lui le faceva bene, e che quel povero cuore tremante e malato aveva bisogno di esser rinfrancato da una voce amica. Le diceva poche parole, di quelle che sapeva giovarle, o stava zitto, ascoltando pazientemente i suoi discorsi scuciti e febbrili, o il suo silenzio eloquente. Ella avea finito per fargli leggere le lettere di Alberto, cosà fredde, cosà compassate, e gli dimandava dei consigli o delle lusinghe. Mostravasi cosà contenta allorché Gemmati dicevale che Alberto sarebbe ritornato ad amarla, ch'egli ripetevale spesso. L'amico le faceva piú bene del medico. Ella guarà infatti, o sembrò esser guarita.
Finalmente una sera piovosa, verso gli ultimi di ottobre, Alberto ritornò a Firenze, e arrivò a casa sua quasi all'improvviso.
Al suo annunzio Adele s'era rizzata di botto in piedi; tutto il sangue le era corso al viso, e vedendolo entrare era ricaduta tremante sulla poltrona, mentre il rossore e il pallore si alternavano rapidamente sulle sue guancie. Gemmati osservava con occhio inquieto cotesti sintomi, e rimaneva preoccupato. Alberti fu sorpreso dall'accoglienza che gli faceva, e parve arrestarsi un istante sull'uscio, e saettare uno sguardo rapido e profondo sulla moglie e su Gemmati. Poi era andato a stringerle la mano, l'aveva stretta anche al suo amico e s'era messo a sedere e a discorrere di quel che avea fatto e di cose indifferenti con aria distratta. Anche Gemmati erasi mostrato un po' freddo verso l'amico, di cui il suo leale carattere non poteva scusare la condotta. L'arrivo di Alberto evidentemente avea gettato del ghiaccio nel discorso, che andava scucito e alla meglio. Dopo circa un quarto d'ora Alberto protestò una grande stanchezza e si ritirò.
L'indomani andò a trovare la moglie, e s'informò piú minutamente della salute di lei.
«E Gemmati .. lo vedi spesso?»
«SÃ.»
«Ah!» e parlò d'altro.
Le disse della ubertosa vendemmia, e della Sassosa, la famosa Sassosa, e dei miglioramenti fatti, delle disposizioni date, delle occupazioni piacevoli che avea trovato in campagna.
«E tu?» le domandò. «Come hai passato il tuo tempo?»
«Ma... bene.»
«Sei molto pallida, sai! Devi esser stata piú male di quel che m'hai scritto.»
«Adesso sto meglio.»
«E Gemmati è il tuo medico?»
«SÃ.»
«Dicono che sia un bravo medico. È stato ...
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