[Pagina precedente]...alle memorie che turbavano la mente del marito, come poteva mettergli le mani sugli occhi se voleva, per impedirgli di vedere le belle donne delle quali era gelosa - e poi per una tal superbietta di donna, ed anche per ambizioncella di moglie, avrebbe voluto scaricare su qualcuno, un caro qualcuno di là da venire, la responsabilità di quella missione. «Se avessimo un bimbo!» gli diceva sottovoce, e celandogli in seno il viso infuocato.
Ei chinava il capo e stava zitto; una volta rispose con quel sorriso tutto suo:
«Hai voluto tentare il cielo, lo vedi, Adele mia!»
In quel tempo Gemmati era ritornato a Firenze da un lungo viaggio scientifico, e Adele avea dato scherzando al marito quella notizia raccolta nelle conversazioni dove si facevano le lodi del giovane scienziato.
«Bisogna scappar via da Firenze adesso?» domandò ridendo.
«Bisogna invitarlo a pranzo domani, e farmi perdonare i torti che ho verso di lui.»
Gemmati avea perdonato quei torti, noti oppur no, con una di quelle strette di mano che armonizzavano col suo viso aperto e leale. Avea riveduto Adele senza finta semplicità , senza riserbatezza affettata. Dopo la prima stretta di mano, tutti tre sentirono che non avevano piú nulla a nascondersi, nulla a rimproverarsi, e respirarono liberamente.
«Sai che sono stato geloso di te!» gli disse Alberto allorché furono soli un momento.
«Non sarebbe stata la prima volta» rispose Gemmati ridendo. «Ti rammenti della figliuola del barbiere a Prato? e adesso, alla fine dei conti, mi tocca d'esser geloso io di te! Sei felice?» aggiunse vedendo rientrare la marchesa.
«Sû rispose Alberto con una certa vivacità .
Gemmati avea mille cose da raccontare dei suoi viaggi, e il suo dire era pieno di brio e d'interesse. La sera trascorse come un lampo, in una dolce e tranquilla intimità , e fece venire nel discorso il ricordo delle piú belle sere di Belmonte. Gemmati s'era fatto un bell'uomo, dai lineamenti energici e virili; sembrava avesse acquistato in una vita attiva ed operosa tutto quello che Alberti aveva sciupato nella sua molle e tempestosa. Il marchese l'avea forse contemplato con cotesto sentimento, mentre Gemmati discorreva con sua moglie, e quando se ne fu andato, Adele disse:
«È sempre giovane, n'è vero, Alberto?»
La salute della marchesa Alberti era sempre delicata, in estate i medici le prescrivevano di fuggire Firenze. Ella soleva andare a Montecatini, a Viareggio, o a Livorno.
Quell'anno fu scelto Livorno.
«Vieni anche tu?» aveva domandato Alberto a Gemmati.
«Non posso. Ho speso tutto il mio poco avere nei viaggi, e adesso bisogna che metta giudizio. Comincio a farmi una discreta clientela. Sai come siamo noi altri medici, specialmente in principio di carriera? Non potrei lasciar Firenze per una settimana, senza mandare a monte quel che ho fatto sinora.»
Livorno quell'anno era una stazione alla moda. Gli alberghi e le ville rigurgitavano di forestieri. Giammai l'Ardenza e i Cavalleggeri erano stati piú affollati di equipaggi eleganti. Il giorno stesso che la marchesa Alberti prendeva stanza nell'appartamento fissato preventivamente per telegrafo all'albergo della Gran Brettagna, giungeva da Berna nell'albergo istesso una di quelle coppie di zingari del gran mondo che scorazzavano per tutte le stazioni d'Europa segnate dalla moda - il principe e la principessa Metelliani.
La principessa era abituata ad arrivar da per tutto come una regina, ed a stendere senza contrasto il suo ventaglio come uno scettro. Ella fu dunque ferita nel piú vivo dell'amor proprio incontrando a Livorno una rivale preferita, incensata, corteggiata piú di lei, e che per giunta non sembrava curarsi del suo trionfo, o godevaselo disinvoltamente, come cosa dovutale naturalmente - e chi poi? quella medesima donnina che ella aveva sempre eclissato col solo riflesso dei suoi biondi capelli! - quella figurina pallida, magra, tutta occhi, la quale non aveva cotesti occhi che per suo marito, e che tutti quegli imbecilli dell'Ardenza e dei Cavalleggieri adoravano da lontano come tanti Don Chisciotti. - Quel cencio stesso di marito glielo aveva lasciato lei, quando non avea saputo piú che farsene. Se non si fosse trattato che di lui, ella avrebbe continuato ad essere la migliore amica di Adele, e del resto - a parte il principe, che nell'esistenza di Velleda non avea giammai contato altro che come principe - l'antico suo amante era davvero divenuto un cencio d'uomo. Ma adesso gliene voleva anche perché quel tal marito cencio o no, che essa le aveva regalato, il quale l'avea tanto amata, lei, la bella Manfredini! che anch'essa avea forse amato - forse - si fosse consolato proprio con quella Adele! si fosse consolato talmente da non caderle ai piedi la prima volta che l'avea riveduta da Pancaldi! - lei, la superba beltà che portava una corona di principessa! Se Adele le avesse rubato quella corona, non le avrebbe fatto maggior dispetto. L'indispettiva anche l'indifferenza serena di quella rivale innamorata soltanto del marito - fierezza, noncuranza, civetteria che fossero, irritavano, ferivano, umiliavano il suo orgoglio, la sua vanità , la sua civetteria. Se ci avesse pensato, avrebbe voluto colpire quella rivale nel solo lato che mostrava vulnerabile, in quel tal cencio di marito che ella - la vinta d'oggi - le avea buttato fra i piedi come una limosina.
Del resto coteste due rivali appartenevano alla medesima società , erano state amiche, sapevano vivere abbastanza per non dar spettacolo dei loro intimi sentimenti ai curiosi, agli invidiosi, alla folla, e per stringersi la mano, sin dalla prima volta, col piú grazioso sorriso. Velleda e Alberto s'incontrarono, si salutarono, si rivolsero la parola al modo stesso, colla medesima disinvoltura. Ella disse che avevano finito come avevano incominciato - e realmente non era malcontenta che avessero finito a quel modo.
Le due amiche e rivali dimoravano nello stesso albergo, al medesimo piano, uscio contro uscio, si vedevano sovente, s'incontravano tutti i giorni alla medesima passeggiata e agli stessi ritrovi. Una sera che da Pancaldi s'era organizzata in parecchi una gran cena, alla quale Adele aveva brillato piú del solito, e la principessa era stata piú del solito uggita, mentre l'allegra comitiva usciva in massa a fare una passeggiata al chiaro di luna, Velleda, senza saper come, s'era trovata l'ultima e vicina ad Alberti. Essa gli rivolse un'occhiata singolare, e quindi gli disse mettendoglisi risolutamente al lato:
«Alla fin fine... davvero... perché non mi dareste il braccio?»
E avevano incominciato a discorrere di questo o di quello; poi nel separarsi gli avea detto con quel medesimo tono:
«Vedete che noi si sta meglio in questo modo... che in quell'altro.»
E da quel giorno s'era messa a far la corte ad Alberto.
Alberto se n'era avvisto, e ne provava una segreta soddisfazione, un po' per istinto di vecchio leone che vuol provare ancora le zanne, ma principalmente per uno strano sentimento che riferivasi a sua moglie. Era geloso senza osare di confessarlo all'Adele e a sé stesso, e provava una singolare civetteria mascolina a far intravvedere alla moglie, e a provar a sé medesimo, che egli era sempre preferito a tutti quei ganimedi che gli davano uggia. Non gli dispiaceva anche che sua moglie temesse un pochino per lui, giacché egli temeva per lei, e voleva metterle ai piedi anche lui qualcosa, una di quelle preferenze che lusingano tanto l'amor proprio di una donna.
Adele avea cominciato ad accorgersi anch'essa del tiro che intendeva giocarle la Metelliani; ma rifuggiva dai lamenti, dalle osservazioni, dalle scene, per alterezza naturale, o per timore di quel marito che le imponeva soggezione, e s'era chiusa nella sua dignità di moglie con tal dispettuccio che sembrava disinvoltura.
Intanto le cose andavano perché la Metelliani le spingeva, perché Alberto, senza dare positivamente una mano, chiudeva gli occhi e lasciava andare - e lasciava andare anche per un falso timore di sembrare ridicolo se avesse fatto il puritano - e andavano infine perché Adele non faceva nulla perché non andassero.
Un giorno Alberti, arrivando un po' tardi allo stabilimento dei bagni, incontrò la principessa.
«Vostra moglie è lû gli disse lei con una lieve tinta di motteggio, indicando sul mare una barchetta carica di ombrellini di paglia e di veli svolazzanti. «Volete che andiamo a raggiungerla?»
Il marchese rispose qualche parola a caso, e le sedette accanto. Dopo alcuni momenti le domandò perché non fosse andata anche lei.
«Potrei dirvi perché vi aspettavo, ma non voglio lusingarvi. Ho corso tanto sui piroscafi, che il mare mi fa uggia persin dalla barchetta. Anche voi avete molto viaggiato, so.»
E si misero a parlar di viaggi.
«Chi ce l'avrebbe detto che dovevamo correr tanto per riunirci... da Pancaldi!» diss'ella ridendo.
Gli aveva detto codesto in un certo modo, e con tale accento da ricordargli perfettamente il punto dal quale erano pur partiti per correre - e gliel'aveva fatto rivedere in cosifatta maniera, che Alberto era rimasto taciturno.
«Non promettevate di riescir cosà buon marito, davvero!» gli disse poco dopo con uno sbalzo capriccioso del pensiero.
Alberto rispose al complimento ironico con un ironico chinar di capo.
«Schiettamente... senz'ombra di lusinga... se avessi potuto prevederlo... non mi chiamerei forse Metelliani.»
«Vedete che qualche volta torna meglio non prevedere!»
«Marchesa Alberti è un bel nome anch'esso. E poi tutti vi chiamano il marito modello. Non ve l'abbiate a male: è una bellissima cosa essere innamorato della propria moglie.. È vero che siete innamorato di vostra moglie? Sapete che avrei quasi il diritto di essere gelosa io? Vediamo, Alberto, cosa direste se fossi gelosa di vostra moglie?»
Alberto si dibatteva ancora contro il fascino di lei.
«Vi direi che avete torto» rispose freddamente e alteramente.
Ella si levò da sedere. «Francamente, se non fossi quella che sono vorrei essere... M'accompagnate sino alla mia carrozza?»
Alberti s'inchinò, le porse il braccio, e s'avviarono. Dopo alcuni passi: «Verrete al ballo di stasera?» domandò la principessa.
«Non so.»
«Ci sarà anche la vostra Adele.»
«In tal caso verrò per accompagnarvi lei» rispose egli con calma, e senza mostrare di aver sentito la puntura.
«Andrete pure al concerto delle quattro? Lei non manca mai.»
«Essa sa che fuggo i concerti, e me ne dispenserà .»
La principessa rizzò il capo, e fissò gli occhi nel vuoto corrugando le ciglia.
«Sicché alle quattro sarete libero?» domandò dopo un istante, con quel medesimo sorriso.
«Liberissimo.»
«Ho intenzione di fare una gita sino a Montenero» riprese ella con vivacità . «La giornata è freschissima. Volete venire con me alle quattro? Andremo a cavallo. Domandatene il permesso a vostra moglie. Volete che glielo domandi io?»
«Mia moglie sarà lietissima.»
Ella si fermò, gli lanciò uno sguardo, scosse i capelli ancora profumati dal bagno con un brusco movimento del capo, e con intonazione singolare:
«Davvero? Dunque verrete?»
«Ma sÃ.»
«Non avete paura?»
«Paura di che?»
«Ma... che so io?...»
E lo fissò in viso ridendo stranamente.
«Proprio? Non temete che... la fatalità ... È singolare!»
«Io sono incredulo.»
«Ah! Venite dunque ad incontrarmi alle quattro ai Cavalleggieri.»
Egli s'inchinò senza rispondere.
«Proprio? Verrete?»
«Certo.»
«È che temevo... Scusate: non ce l'avete piú con me?»
«Non ce l'ho avuta mai.»
«Mai?»
«Mai.»
«Arrivederci dunque.»
XLVI
Alberto rimase tutto sconvolto, col capo vertiginoso, con degli ardori improvvisi che gli scorrevano per le vene, ed evitò gli sguardi della moglie quand'ella saltò dalla barca appoggiandosi alla mano di lui.
Il marchese avea ordinato il suo cavallo per le tre e mezzo. Verso quell'ora Adele, dopo essersi abbigliata, usciva per andare al concerto, e incontrò il marito nel salotto - la camera e lo spogliatoio della marchesa erano separati dalle stanze del marito da quel salotto. - Alberto leggeva o fingeva di leggere.
«Oh, non sei andato?» gli disse.
«No, vengo con te. Vuoi?»
«Volentieri. Non ti annoie...
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