[Pagina precedente]...mi che divaghiamo!» disse Alberti con una sfumatura d'ironia provocante.
Marteni conservò la piú perfetta calma.
«Scusi, avrei dovuto incominciare da un'altra domanda: Ella crede che io le debba qualche cosa... perché sono il suo... successore?»
«Signore!...»
«Caro marchese, sono ufficiale nei carabinieri, e come tale un po' soldato, e un po' legale; ragioniamo adunque, poiché a bucarsi la pelle c'è sempre tempo. Se lei è convinto che io le debba una riparazione soltanto perché son venuto dopo di lei, vorrei sapere chi di noi due avrebbe piú diritto di sfidar l'altro? Ella, perché io sono arrivato ultimo, oppure io perché lei mi ha preceduto?»
«Cotesto è invertire singolarmente la quistione.»
«Semplifichi, rettifichi pure; son qui ad ascoltare.»
«Non son venuto a dirle, né ho bisogno di dirle, quali siano le mie opinioni su quella signora; e sembrami che non occorrano tante parole fra due gentiluomini per bucarsi la pelle, come lei dice.»
«Caro marchese, non ha rettificato nulla, e si aggrappa alla provocazione come uno che non abbia migliori ragioni da metter fuori. Ma io ho piú anni di lei, sono soldato, ho due medaglie, di quelle che danno il diritto di esser sempre calmo, e posso permettermi di credere che occorrano proprio tutte le possibili spiegazioni fra due uomini di cuore, prima di mettere mano ai ferri, soprattutto allorché sono seduti, come noi, dinanzi ad una buona tavola. Ella viene a sfidarmi per amor proprio, per dispetto, piuttosto che per gelosia; senza pensare che colloca il suo amor proprio prima del mio, che avrei lo stesso diritto. Le parlo da uomo di cuore e da uomo d'onore - come le propongo di stringere la mano che stendo. Ora, se coteste ragioni non le bastano, e cerca proprio un pretesto, mi dica che questo bicchier di vino che le offro è cattivo, e io le getto la bottiglia alla testa e mi metto a sua disposizione.»
Alberti alzò lentamente il bicchiere, e bevve.
«Bravo cosÃ!» esclamò Marteni stringendogli calorosamente la mano.
«Un'ultima parola, colonnello... Da quanto tempo... Ella è il mio successore?...»
«Ah! Questo poi....»
«Era per farci su le mie riflessioni» rispose Alberti con un amaro sorriso. «Senza implicarci menomanente quella signora, in parola d'onore!»
«Le ho detto già troppo, perché ella è molto giovane... Ma mi lasci il mio segreto... professionale» finà Marteni ridendo.
«Grazie!» rispose Alberto dopo un po' di esitazione.
XXXIX
Erano trascorsi parecchi anni, ed Alberti aveva ricominciato a far la vita di prima, peggio di prima, abusando di tutto, esagerando il male, che cercava egli medesimo, calunniando il bene che non poteva raggiungere per fiacchezza di carattere, incallendosi in uno scetticismo di parata perché non conosceva altre donne all'infuori di quelle che alimentavano la sua vanità o i suoi piaceri - vanitose e capricciose come lui - e perché non aveva altri amici, all'infuori di quelli coi quali s'era battuto per un'amante o per una partita di giuoco. Possedeva tutte le disgrazie: l'immaginazione calda, l'indole fiacca, il cuore sensibilissimo, ma non temprato da affetti domestici, ed una certa agiatezza che gli permetteva di vedere la vita da un lato solo. Cotesta vita era stata occupata soltanto d'ozio, e faticosa di piaceri. A ventott'anni sentivasi isolato, stanco, senza scopo, senza emozioni che non fossero malsane, senza entusiasmo, senza domani. Provava momenti di debolezza e di scoraggiamento indicibili; ma si vergognava di confessarli. Nel baccano di una festa o di un bagordo pensava con abbattimento che il giorno dopo si sarebbe divertito al modo istesso. Spesso, la notte, ritornando stanco a casa, invidiava il suo cocchiere o il suo cameriere che stavano ad aspettarlo, pur non sapendo farsi idea del come si potesse vivere nella loro condizione.
Del resto faceva la vita che facevano gli altri, beveva, giuocava, schermiva e fumava piú degli altri. Era un po' pallido la mattina, e avea il polso un po' agitato la sera; nulla di piú. Di tanto in tanto i ricordi della sua prima giovinezza, che sembravagli tanto lontana, gli alitavano sul cuore, come i soffi della brezza marina in una calda notte d'estate; ei li assaporava tacitamente, coll'occhio socchiuso e il sigaro in bocca, vi lasciava vagare il pensiero e riposare il cuore, e allorché scuotevasi di soprassalto, anche un po' vergognoso, il mondo che piú lo sorprendeva, che sembravagli piú falso, era quello in cui viveva.
In una di coteste situazioni di spirito, Selene gli s'era trovata fra i piedi, o fra le braccia. Ei le avea proposto di andare a vivere assieme in campagna, come se ella avesse potuto ridargli il vergine trasporto con cui s'era innamorato persin di una ballerina; le propose sul serio una capanna e il suo cuore. La ragazza, che si rammentava di qual fibra fosse quel cuore, rispose cu-cu! Egli soggiunse che la capanna sarebbe stata tappezzata di seta, e la rapà all'impresario e ad una mezza dozzina d'amanti, ancora vestita da baiadera. I loro amici dissero ch'erano ubbriachi tutt'e due. Giunti, mandò un biglietto di condoglianza.
«Mio caro,» gli disse Alberti la prima volta che lo rivide, «se quella ragazza mi piace, perché non dovrei amarla? Credi che valga di piú la tua marchesa sol perché è ricca? Selene non possiede che le sue scarpette di raso, ed ha bisogno di quattrini come una bella damigella ha bisogno di uno sposo, o una bella dama ha bisogno di un amante nulla piú, nulla meno - ella non è né signorina, né marchesa, non è altro che bella, ed è quindi naturalissimo che io gliene dia dei quattrini.»
«Tutto ciò va benissimo; non è di cotesto che intendo parlare. Fai quel che vuoi, rovinati pure, nessuno troverà a ridire; ma lasciala al suo posto, o piuttosto mettila al posto in cui deve stare. Compra per lei dei cavalli, dei gioielli, ma non andare a farti ridicolo coll'amore campestre! Che diavolo! sei uomo di spirito. Cosa vuoi fare colla Selene per tutto il santo giorno, dopo che le avrai detto in tutti i toni che le vuoi bene?»
«La vita che faccio mi stanca... mi annoia mortalmente... Voglio cambiare...»
«Povera Selene!» borbottò Giunti.
La povera Selene amava il bel biondino come poteva, quanto poteva; ma era abituata a ridere e a folleggiare, e quell'amante che la teneva a distanza, e che cercava l'x dell'amore, le rendeva l'orizzonte piú uggioso delle grigie nubi d'inverno. Il marchese Alberti avea perduto il suo vecchio Toni, ed avea per cameriere un giovanotto. Qualche tempo dopo s'accorse che era anche un bel giovanotto, scoprendo che gli faceva l'onore di essergli rivale fortunato. Allorché ne ebbe le prove incontestabili, chiamò la Selene e le disse:
«Di' un po', ti piace Cesare? Non starmi ad arrossire, bambina! qui non siamo sul teatro. È un bell'uomo, me ne sono accorto e non ti do torto, no, in parola d'onore... fosse biondo come me... tanto tanto!... potrei forse avere il diritto d'essere geloso... Ma che diavolo! avresti dovuto prevenirmi! Potevo correre il rischio di prendere a calci il mio rivale. Vuoi sposarlo, di'? Non mi far la grulla. Non sono in collera, ti dico, ma capisci che non posso fare le spese del mio rivale, né lasciarti sulla strada. Ti do in dote quel che avevo promesso di darti in cambio del tuo amor fido, ma ti condanno a sposarlo e perdonami se mi troverai severo.»
Dopo questa tirata partà per un lungo viaggio, recando seco le sue malsane abitudini, ed i germi funesti di uno scetticismo che, in mezzo a gente la quale si occupava di lui soltanto per vendergli dei piaceri, lontano dai luoghi cari per memorie, non poteva far altro che peggiorare. Invecchiò precocemente, correndo pel mondo come l'Ebreo Errante, spinto da non so quale inquietudine fatale che l'incalzava sempre dappertutto, non vedendo e non cercando altro dei diversi costumi che il lato peggiore. Visse tanti lunghissimi anni senza alcun sentimento schietto, senza alcuno degli affetti piú intimi, che si abituò a credere fosse un disgraziato privilegio quel cuore che sentivasi battere in petto alle lontane reminiscenze.
In questo tempo lo zio Forlani era morto, lasciando Adele orfana e sola. Costei, per accondiscendere all'insistente desiderio del padre, il quale le proponeva di sposar Gemmati, avea detto di sÃ; ma all'ultimo momento, con la lealtà che formava il fondo del suo carattere, era scesa un bel mattino a trovar Gemmati che passeggiava in giardino, e gli avea detto:
«Amico mio, io ho amato mio cugino Alberto, lo sapete; che cosa pensereste di me se vi sposassi?»
Gemmati tacque un momento.
«L'amate ancora?» le dimandò poi.
«...SÃ.»
«Anch'io v'amavo, perché voi siete un angelo!» esclamò tristamente Gemmati; «e rinunziare a voi è dura cosa!... Ma è necessario, non è vero?»
Ella chinò il capo.
«Come meritate di esser felice! Se quello sciagurato avesse un carattere meno fiacco!...»
Cosà s'erano lasciati, stringendosi la mano, come due cuori onesti e leali che s'intendono in una sola parola. Egli non le aveva detto quanto gli costasse il sacrificio che dovea fare ed avea accettato un posto di medico a bordo di un bastimento che faceva lunghi viaggi di circumnavigazione.
Il signor Forlani avea lasciato la figliuola ricchissima, e le amiche di lei non si davano pace vedendo che essa, cosà ricca e bella, rifiutava tutti i partiti che facevano la caccia a lei e alla sua dote. Adele portava il lutto del suo cuore nobilmente e fieramente, senza una debolezza e senza un lamento. Del cugino, che non si curava menomamente di lei, avea saputo vita e miracoli, ma non avea detto una parola, ed era rimasta pallida e muta. S'era informata spesso di lui dalle amiche piú discrete, con pudica e delicata riserbatezza, e quando non ne avea avuto piú notizie, s'era chiusa dignitosamente nella sua tristezza, senza farne trapelar nulla al di fuori.
La sua bellezza intanto s'era sviluppata: era un genere di bellezza fantastica, delicata, flessuosa, elegante, alquanto pallida e diafana, con magnifici capelli neri, mani candide su cui il guanto adattavasi con certe pieghe e certo garbo aristocratico, e grand'occhi turchini, un poco incavati, accerchiati da un solco color perla, scintillanti di tal luce che avrebbe potuto dirsi fatale, se giammai fosse stata destinata ad incontrarsi con Alberto. Ella portava alta la testa leggiadra nei saloni fiorentini, e con un sorriso distratto e uno sguardo profondo che l'avevano fatta soprannominare Elisabetta d'Inghilterra.
XL
Dopo vent'anni che non s'erano piú visti Alberto e sua cugina s'incontrarono a Firenze, spinti dal turbine della fatalità .
Era il primo giorno delle corse. Le Cascine brulicavano di spettatori; il cielo era azzurro, il sole frastagliavasi fra i rami; i veli, le ciarpe, le piume svolazzavano; il prato stendevasi come un'immensa tavola di bigliardo, screziato dai vivi colori dei fantini che caracollavano; i cavalli nitrivano, si udivano gai accenti in tutti i dialetti d'Italia, si vedevano dei fiori dappertutto, ai cappelli, sui vestiti, nelle carrozze, alle testiere dei cavalli - c'era un profumo di giovinezza, di festa, e di primavera che inebbriava.
Adele era a cavallo presso la calèche di una sua amica di Viareggio, la Rigalli, e rispondeva al saluto delle sue numerose conoscenze inchinando graziosamente il capo; mentre discorreva passava il guanto sulla criniera della sua cavalla; cosà com'era, col suo amazzone nero, e nel suo grazioso atteggiamento, era assai leggiadra; la calèche era ovattata, riboccante di fiori, coi jockey ricamati e incipriati, immobili come statue, i cavalli irrequieti, dall'occhio e dal garretto teso. Una folla di curiosi s'era fermata vicino a quel bel gruppo.
«Oh, chi vedo!» esclamò tutt'a un tratto la signora Rigalli «non è il marchese Alberti quel laggiú, che ci arriva dall'India a cavallo del suo baio?»
Adele si volse di soprassalto, e divenne bianca come il suo colletto di tela.
Alberti si avanzava al passo. Il cavallo era impaziente, colle narici rosse, sbuffava, mordeva il freno bianco di schiuma, e lo scuoteva con bruschi movimenti. Il cavaliere era c...
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