DE ICIARCHIA, di Leon Battista Alberti - pagina 2
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E queste copie della fortuna, molti cavalli, bella famiglia, suntuoso vestire, vivere lauto e splendido, la casa magnifica, ben parata, molti salutatori, qual tutte ancora cose si fanno a' privati conviti nuziali, non vi niego sono ornamento della dignità.
Ma io in altro credo che consista la maiestà e celsitudine del vero essere principe e del principato.
E sarammi più facile qui testé negare che simili dette delizie e superfluità siano el summo e primario bene a' principi, che non sarebbe facile esplicare quale i' credo che sia e in che e' consista, s'i' prima non intendessi da' suoi veri principi che differenza abbi in sé uno privato buon cittadino da un re.
PAULO.
Se mai altra differenza non vi fusse, eccone una molto grande: el principe comanda ed è obbedito; e' sudditi cittadini fanno e seguono quanto el principe comandò.
BATTISTA.
Comandò? Ora sono io in maior dubbio.
PAULO.
E che ti può venire in mente da dubitarne?
BATTISTA.
Vorrei meglio intendere questo nome comandare quello che egli importi.
Pregovi non mi reputiate più acuto ch'io mi sia.
Dirovvi quello che mi move, se prima sentirò da te, Paulo, questo che tu chiami comandare quale e' sia in sé e come fatto.
PAULO.
Rido! Ma diglielo tu, Niccolò.
Insegna qui a Battista quello che e' non sa.
NICCOLÒ.
Rido anch'io! Pur per satisfarli dirò quel ch'io ne sento.
Quando omo dice: «fa qui testé tal cosa, poi farai quell'altra; non fare così», e simile, costui...
che dico Paulo?
PAULO.
Certo sì, comanda.
BATTISTA.
Questa risposta mi satisfa, ma non in tutto.
Ecco il comito della galea tua dicea: «dà mano alla poggia, carica quella orza»; e simile el pedagogo a' fanciugli, la madre di casa alle fanti dicono: «fa e non fare».
Diremo noi per questo che costoro siano principi?
NICCOLÒ.
Chiunche comanda, ben sai, si è superiore a chi l'ubidisce.
BATTISTA.
Principe adunque s'interpetra superiore non comandatore, e questo di cui mi pare che tu rispondi, non sarà per sé vero comandatore se non arà chi l'ubidisca.
E così affermano tutti i savi antiqui scrittori passati a' quali io molto credo, e mostrano come costui si debbe reputare vero principe, qual sia superiore in cose non lieve e fragili, ma stabili di sua natura ed etterne, e nulla subiette alla volubilità e temerità della fortuna, per qual cosa e' sia bene atto a comandare e meriti essere ubbidito.
E questo chi dubita sarà la virtù, la bontà, la perizia di cose degne e utilissime a sé, a' suoi, alla patria? Questi altri chiamati dal vulgo principi, sono non per sé principi, ma per la summissione di chi l'ubidisce, e sono ministri adiudicati a susservire alla republica, in quale numero sono tutti gli altri etiam minimi magistrati.
Così sequita che il principato non concede arbitrio d'imponere nuova servitù agli altri, ma impone a chi lo regge necessità civile di conservare libertà e dignità alla patria e quiete a' privati cittadini.
Forse non potendo il conditore delle leggi provedere a tutte le cose particulari, dede ad alcuni come al duttor dello essercito, al prefetto navale, così al principe, a' minor magistrati qualche arbitrio di provedere al ben publico secondo che i subiti casi e tempo richiedesse.
Sarà e' però quinci che costoro per lo officio loro possino sopra gli altri quanto e' vogliono all'imporre loro servitù; e facendo costui quel che li si conviene, comanderà egli a tutti quel medesimo? o in prima a costui quello a che e' sia atto e pronto, a quell'altro quello in che e' sia più essercitato, e così a niuno cosa inutile o brutta, a ciascuno cose commode e necessarie, e a tutti quanto importi la salute di tutti e l'ozio e riposo onesto di tutta la città, qual un fine pretende ogni legge? Così pare a me.
A voi?
PAULO.
Parci.
BATTISTA.
Costui adunque publico e primo magistrato, e insieme il numero de' privati cittadini, se vorranno vivere bene e beati in summa tranquillità e quiete, converrà ch'egli osservino equità e onestà fra loro quanto comandi la legge.
Questa ragione di comandare, se tutti saranno modesti e ben sensati, pare a me sarà non altro che uno essortarli, confermarli, sollecitarli che sequitino facendo pur bene come per loro essi fanno.
E sarà, dico, questa essortazione officio di vera amicizia e compiuta carità più che arrogante elazione, cupidità d'imporre servile condizione agli altri.
Contro, se forse saranno improbi scellerati, el dir tuo «fa e non fare» nulla gioverebbe.
Resta per questo al principe che lui ubbidisca alle legge, e sia ministro della severità castigando chi erra e provedendo alla quiete degli altri levando di mezzo la corruttela e peste de' viziosi.
Che dici tu, Paulo? Parvi così?
PAULO.
Parci.
BATTISTA.
Bene est.
Forse trovammo noi qui che differenza sia da un privato cittadino a uno re.
PAULO.
Come?
BATTISTA.
El re in quanto re comanda, cioè ricorda a' suoi quanto e dove bisogni aversi iusto, temperato e forte e onesto per vivere bene e non inutile agli altri e anche a sé, e così satisfarà all'officio suo ubbidendo alla servitù impostali dalle leggi.
E se forse esso comandasse con imperio iniquo, sarebbe costui non re ma tiranno, cagione e autore e come operatore colle mani altrui dello errore e male che ne sequisse.
Dico io quello che facci al proposito nostro?
PAULO.
Sequita.
BATTISTA.
Questa servitù impose la natura, summa e divina legge de' mortali, a te, a me, a quello, a tutti.
Nulla n'è licito repugnarli; e nollo ubbidendo saremmo e pessimi cittadini e omini alieni da ogni umanità, simili alle fere nate in la selva, vivute in deserta solitudine.
E così è: a ciascuno li sta imposto e innato da chi governa l'universa natura, debito comandare a' sui, agli strani, a' giovani, a' vecchi, a qualunque si sia di qualvuoi qualità e condizione: comandare, dico, eccitare, ricordare, aiutare che fuggano il biasimo e pericoli della vita, seguano il bene, l'opere lodate e gloriose.
Al principe vero s'aggiunge oltre a questo certa molestia più che a' privati.
E qual sarà questa molestia? Sarà grande certo, che gli bisognerà essere ministro ad impor pena e supplizio a' contumaci e incorrigibili.
E voi giovani, quali vorresti essere quello ch'io desidero e spero vedervi, persuadonvi fino a qui le ragioni nostre?
GIOVANI.
Molto.
BATTISTA.
Adunque, per essere quello che voi e noi desideriamo, io sequirò esplicando ricordi de' dotti scrittori, utili a ben aversi in vita, e voi disponetevi sequire quanto voi udirete.
Così insieme satisfaremo al debito nostro.
Voi udirete cose quali vi diletteranno.
Possiamo noi pe' ragionamenti sino a qui esplicati statuire che 'l principe, cioè il summo magistrato, sia uno aversi in servitù impostali dalla repubblica con autorità atta a reggere i suoi in vita onesta e quieta e con condizione che punisca chi disubidisse allo instituto della patria?
NICCOLÒ.
Parmi che questo sia da te ben dimostrato.
BATTISTA.
E persuadevi quella sentenza ch'io narrai, che 'l vero principato stia in essere per virtù, costumi, prudenza e molta cognizione d'arti e cose buone superiore agli altri?
PAULO.
A me questo può persuadersi, ma alla multitudine dubito però che pare che collo imperio sia innato e addicato farsi ubbidire imperando.
BATTISTA.
E così sia, purché comandi cose iuste, oneste, dove, quanto, e a chi bisogni secondo che richiede lo officio del vero principe, quale, com'io dissi, non sarà impor servitù a' suoi, ma conservarli libertà, mantenerli in quiete, conducerli a felicità.
E questo non si può senza eccellente virtù e divina sapienza.
E così è: qualunque sarà chi tu dirai, «costui è vero principe» bisognerà ch'e' sia prudente, dotto, buono, e sappi essequire quanto importa lo officio suo.
PAULO.
Bisognerà.
BATTISTA.
Dimmi, come saprà uno o commandare o reggere molti, qual non sappia essere superiore e moderatore di pochi?
PAULO.
Saravvi non atto, sarà inutile.
BATTISTA.
Anzi sarà impedimento e disturbo di quel magistrato.
E se questo uno forse nulla saprà o comandare o farsi ubbidire da un solo, qual stolto lo iudicherà degno de anteporlo a questi per pochi che siano? Questo ordine adonque se li conviene, che cominci dal men difficile, e impari essere e sia buon moderatore prima di questo solo uno, poi intrapreenda maggiore opera adestrando gli altri più noti a sé, acciò che indi e' sia più atto a comandare e contenere molti secondo che richiederà il suo officio.
NICCOLÒ.
Questo chi ne dubita? Non si può negare.
BATTISTA.
Fra tutto il numero e multitudine de' mortali a niuno potrai più abile comandare che a te stessi.
Ma questo comandare a sé stessi, circa che cose statuiremo noi che sia, volendo per quella opera essere simile a' primari principi?
PAULO.
Nollo fo per interrumpere, ma per certificarmi.
Come vuoi tu comandare a te stessi, se altri debba essere chi move, altro chi è mosso?
BATTISTA.
Facesti bene.
Dicono che in noi sono due animi.
Ma dilettici adducere essemplo delle cose notissime qui a Niccolò.
Alla galea e' remi danno movimento e impeto a tutto il corpo: forse quando questo impeto perpetuasse movendo senza termine diffinito e progresso conveniente, urterebbe in scoglio.
Ma il timone adestra quel moto, e reggelo che egli schifa il pericolo e prende il porto.
Quella parte in noi dell'animo ove sede la ragione, regge e governa la parte in quale si commove l'appetito; come accade tutto il dì che per certi rispetti ne conteniamo e restiamo sequire quello ci diletterebbe.
Ma di questo altrove.
Dico qui quanto all'officio del comandare.
Credo non affermeresti che sia imprima circa el culto delle membre nostre, per essere biondo, bianco, grasso; faccende e pensiere vile e femminile.
Forse ad altri parerà da molto curar la fermezza robusta del corpo e la buona sanità.
Nolli biasimo.
Ma qui bisogna o poco o nulla altro che sobrietà, e moto e quiete contemperata, e simili.
L'altre poderosità e valenze de' nostri nervi e membra sono doni rari concessi a pochi dalla natura, più tosto da ringraziarne Idio che da molto desiderarli.
Se per questi sequisse all'omo felicità, tutto el resto de' men robusti sarebbono infelici.
Giovano sì, ma solo a chi l'adopera in tempo con ragione e modo per onestamento e salute della patria e de' suoi, affine d'essere ben voluto e lodato dagli ommi gravi e maturi.
E forse sarebbono da stimarli più se fussero nostri in ogni età, benché di sua natura continuo fuggitivi.
Fummo giovani, ora siamo per età stracchi e gravi.
Accederono in noi doglie, succederono debolezze.
Onde, spento quel vigore e ardore giovinile, cessocci col potere ancor la voglia d'essere sempre giovani, e imparammo non desiderare in noi quella agilità e nervosità quale fra gli altri giovani ci parea ben pregiata.
E invero simili prodezze del corpo sono per sé non necessarie a bene e beato vivere.
Non consiste adunque la ragione del comandare e servire nostro a noi stessi circa i beni fragili del corpo nostro.
E molto ancora dovrà essere meno circa i beni instabili della fortuna.
A niuna cosa dobbiamo adiudicarci se non a quelle per quali si diventi migliore.
Pella copia niuno mai diventa savio né temperato né prudente, in qual cose consiste el governo della vita e fermamento della felicità.
Molti diventarono per le ricchezze insolenti, libidinosi, inconsultissimi.
Restaci adunque solo imporre a noi stessi quanto appartenga alla cura dell'animo, e devemoci con ogni arte, industria, studio, assiduità, diligenza, preporci e cercare d'averlo tuttora cultissimo e ornatissimo.
Questo potrà non altro che la virtù.
Non cape la virtù nell'animo occupato e pieno di pensieri lievi e puerili, né patisce la virtù essere dove sia qualunque minimo vizio.
Pertanto prima bisognerà riconoscere quali e' siano per non li ricevere a sé, ed espurgarli se forse vi fussero.
La copia de' vizi nell'omo sta varia e multiplice: sarebbe prolisso e laborioso connumerarli.
Ma noi esplicheremo e' più dannosi e contrari disturbatori del proposito nostro.
Due cose in tutta la vita così a' giovani come a' vecchi, a' ricchi come a' poveri sono pestifere e da fuggirle, anzi da pugnare assiduo contro loro con ciò che a noi sia concesso: l'ozio e la voluttà.
Per l'uno e l'altro di questi sequita perturbazione d'ogni bene.
Nulla dissipa e consuma e' sussidi della vita quanto le voluttuose lascivie.
Dell'ozio mai sequì all'omo cosa degna o non dannosa.
Per l'ozio e negligenza molti perderono onoratissimo luogo tra' suoi cittadini, e fortune e dignità.
Niuna cosa tanto contraria alla vita e condizione dell'omo quanto nulla adoperarsi in qualche cosa onesta.
Non dede la natura all'omo tanta prestanza d'ingegno, intelletto e ragione perché e' marcisse in ozio e desidia.
Nacque l'omo per essere utile a sé, e non meno agli altri.
La prima e propria utilità nostra sarà adoperar le forze dell'animo nostro a virtù, a riconoscere le ragioni e ordine delle cose, e indi venerare e temere Dio.
E questo officio qual presta e riceve l'uno all'altro in vita aiutandosi insieme a' bisogni umani, se tutti vivessimo oziosi, quanta sarebbe miseria essere nati omini! Per l'ozio diventiamo impotenti e vilissimi.
L'arte dovute alla vita s'apparano facendo.
Chi non se adopera per appreendere el suo bisogno, non lo assequisce mai.
Così chi non saprà, non potrà né per sé né per altri.
Daresti voi giovani uno sparviere a chi non lo sapessi adoperare? Anzi come a indegno d'averlo glielo torresti.
Tu ozioso pertanto qual rendi te stesso indegno d'essere appellato omo, chi ti reputerà degno di vita? E in questa inerzia tua duri più fatica con più tedio di te stessi che se tu t'adoperassi in qualche utilità.
Fastìdiati la propria casa; vai per la terra simile a chi sogna baloccando, e consumi el dì perdendo te stessi.
Quanto sarebbe meglio seder fra gli altri a qualche scola imparando virtù, o adoperarti in qualche essercizio degno di te e della famiglia tua.
Niuna arte sarà tanto fra le mercennarie infima, quale in un giovane non sia da preporla a questa vita desidiosa e inerte.
E non fia poco acquisto usarsi a non schifare de essercitarsi.
L'uso di fare qualche cosa c'invita a intrapreendere maggiori faccende.
Non ti succederà d'acquistar pregio e fama con la perizia delle lettere, datti facendo come gli altri ben consigliati, esci di questo covile, pròvati con l'arme in melizia, navica, cerca con qualche industria vivere altrove onorato.
Chi non cerca il ben suo, non lo cura: chi non lo cura, non lo merita.
Questo non mancherà che tu tornerai con qualche cognizione di più cose e notizia di più omini e costumi, saratti onore.
Almeno proccura le semente, e' lavori, le ricolte; piglia piacere de' posticci, nesti, frutti, pecugli, ape, palombi e altre delizie della villa, opere senza invidia, piene di maraviglioso diletto, utili alla sanità, utili a fuggire questa dapocaggine e torpedine in quale niuno buon pensiere vi può capere.
Udite l'oraculo d'Apolline, giovani.
Tu che ora atto ad acquistarti prospera fortuna, ma abandonato non da altri che da te stessi, recusi fare quello che fanno molti di condizione pari o migliore di te e veggonsene lodati, te troverrai vecchio, grave, inutile agli altri ma in prima a te, abbandonato, rifiutato da tutti, pallido pel freddo, vizzo pe' disagi e fame, colle cigle ispide, colla barba setosa, piena di sucidume e fetore, co' panni laceri, muffati, sfidati; e converratti per sustentarti essere simile a' gaglioffi; vedera'ti sfastidito, odioso a tutti e a te stessi.
Non aranno allora in te luogo i ricordi nostri.
Mancheratti ogni cosa; persino le lacrime al gran dolore tuo ti mancheranno.
O miseria! Ehi, miseria sarà la tua miserabile!
Giovani, non dico questo per notare simile mancamento in alcuno di voi.
Dio proibuisca tanta calamità! Anzi mi rallegro, ché spero imprima per vostra propria volontà e bontà a nullo vorrete non molto meritare della virtù vostra.
E forse ancora questi nostri ricordi in qualche parte gioveranno.
Dicea quel savio: «Colui si porge veramente buono quale per sé ama e segue il bene.
Prossimo a questo sarà chi ascolterà e sequirà i buon ricordi e amonimenti d'altrui.
Ultimo, chi né per sé mosso né da altri commosso ed eccitato si perduce in la via lodata, costui resta adietro fra le cose perdute e desperate».
Paulo, l'attenzione di questi giovani e questo aconsentire col fronte e co' gesti alle ragioni nostre credo persuade ancora a te che questi le conoscono vere, e piacciono loro e sono secondo l'animo e intenzione loro.
Adonque essi persevereranno facendo onore a sé e piacere a noi.
PAULO.
Questo oraculo che tu recitasti non si può negare verissimo, senza dubbio verissimo.
Ciascuno di noi qui vide, e oggidì lo vede in più d'uno nati nobili e d'ingegno e d'intelletto da natura non infimi; ma' gl'incontro ch'io non intenerisca.
Duolmi la infelicità loro; ritengonsi d'apparire fra gli altri cittadini, vergognansi chiedere, e' suoi lo schifano, gli altri non lo stimano.
Non posso ricordarmi di tanta indignità loro senza lacrime.
NICCOLÒ.
Questo medesimo repetevo io testé fra me, grande essemplo a chi non lo crede.
E questa colpa io la ascrivo in molta parte a' padri loro, quali mentre che i minori suoi non ardiscono per età recusare l'imperio paterno, sono innoffiziosi e negligenti verso e' figliuoli, né curano adestrarli a qualche industria; vengono crescendo con troppa licenza, e credono che sempre li secondino le cose prospere; in la copia e oppulenza usata errano, ultimo se ne pentono.
BATTISTA.
O venga questo e ne' maggiori e ne' minori da tardezza e lentezza d'animo, che loro pesi la fatica, o da imprudenza o da pravità, sì certo questo cessare e non curare e non adoperarsi nelle cose degne, utili e necessarie, nuoce a' maggiori, nuoce a' minori, nuoce alla sua famiglia, e spesso tutta la republica riceve da simili omini grandissimo detrimento.
Agiugni che questa oziosità e inerzia eccita ne' giovani molti altri detestabili vizi.
Non patisce la natura che l'animo dell'omo stia senza qualche affezione e movimento.
Non hanno in casa né altrove in che essercitarsi con laude e buona grazia; vacui dunque d'ogni bono pensiere, facile s'empieno di voglie vituperose, vanno perscrutando e' detti e fatti altrui, solleciti investigano da' servi, da' noti, da' vicini la vita e costumi d'altri, vogliono intendere ogni tuo domestico secreto, sanno ciò che tu dicesti otto anni fa nell'orecchie a mogliata, ciò che tu sognerai posdomani.
Niuno adulterio, niuno strupo si fa in tutta la terra occulto a loro, tengonne conto, scorron divulgando i malefici altrui, godono essere conosciuti dicaci, maledici, mordacissimi, trovono e giungonsi a' simili a sé; fassi principe, duttore di tutta la caterva el più temerario, audace, insolente, prodigo, profuso; congregansi presso a costui, dove chi è più lascivo, più garulo, più dissoluto, incontinente, insolente, inverecundo, atto a ogni disonesta improbità e maleficio, costui fra loro è el più richiesto.
Niuno atto, niuno detto, niuno fatto se non impudentissimo piace loro.
L'uscio aperto la notte; chi esce, chi entra ognora forse con qualche furto.
Aspettano la cena; bevazzando in cena si caricano di molta crapula, parole stolte, rise inettissime, gesti immodestissimi.
Dopo cena escono di casa ebbri di vino e di certo furore che arde in loro a far qualche cosa scellerata e pazza; errano per la terra dispiacendo e iniuriando qualunque e' possono; ritornano gloriandosi de' malefici loro, e ricenano la seconda volta e perseverano bevendo perfin che 'l bollor del vino gli soppozza nel sonno.
Le bruttezze e scellerataggine lor comesse la notte ivi mi fastidirebbe raccontarle.
Niuno di loro mai vide levare il sole; anzi perduto in quel buio gran parte del dì, quando gli altri industriosi tornano a desinare, questa brigatella ancora sonnefora oppressa dalla crapula d'iersera, voltolansi fra le piume tanto che sono stracchi di iacere, lievansi, e mentre che e' si vestono, pur beono ed empionsi di golosità.
Indi a poco divorano ciò che loro sia posto in mensa con ingluvie pari a bracchi affamati.
Non molto doppo a desinare ancora pur beono; indi a poche ore merendano, anzi desinano un'altra volta e beono.
Che maraviglia se costoro bene inzuppati di mosto fanno e dicono come gli altri ebbri.
Vedili adunque, secondo che questo sarà prono ad ambizione ed elazione, questo altro a lascivia e levità, quell'altro a durezza e malignità, ciascuno segue senza modo el vizio suo.
Disputano di cose oscene o inettissime senza intendere o pensare quel che si dica; niuno tace, tutti latrano a uno impeto e furore; danno risposte alienissime; dicono parole villane; sentesi l'altercazione e convizio loro per tutta la vicinanza; caggiono fra loro le contenzioni di cose vane, vili e abiettissime e massime amatorie.
Quinci temulenti, inconsiderati, precipitosi adoperano fra loro ogni decezione e perfidia, crescono le gare, seguono e' discidi.
Perturbagli la invidia se altri consegue, impazzano se non possono quel che vorrebbono, diventano rattori, ottrettatori, calunniatori, insidiatori, perfidi, e fanno in sé abito d'ogni corruttela.
Obbrobrio della città, meritano essere portati in qualche insula deserta a ciò che tanta peste non vizi gli altri.
E qual di voi non vorrebbe ogni infortunio più tosto che essere simile a uno di questi, in cui cape niun buon pensiere, pieni di perversità, cupidità sfrenata, audacia furiosa, apparecchiata a ogni rapina e violenza? Vita bestiale! Non sequirò annotando alcuni altri vizi pessimi, abominevoli, essecrabili, nati pur da questo voler poco affaticarsi e molto satollarsi: furto, sacrilegio, latrocinio, lenocini, venefici, conducere con fraudolenza e tradimento persone a farli perdere la roba, l'onore, la vita, vendere l'onestà sua e de' suoi.
Simili vizi non posso stimare che mai caggino in alcun ben nato e allevato in famiglia non al tutto abiettissima.
Ma sono alcuni altri errori comuni e quasi familiari alla gioventù, nati da certa voluttà pur degna d'essere moderata, e sono errori per sé atti a perturbare la vita e quiete di chi non vi provedesse.
De' giovani le cure amatorie lasciànle adietro, quando essi ne portano più che dovuta gastigazione e pentimento.
Mai aresti sì capitale inimico a cui tu desiderassi maior tormento che così vederlo al continuo afflitto e perturbato simile a chi ama.
Misero te! Quelle cose per quali tutti gli altri espongono el sudore, el sangue, la vita per consequirle e conservarle, tu le getti, e perdi la roba, la libertà, la tranquillità dell'animo, solo per essere grato, ossequente e subietto a una vile bestiola piena di voglie, sdegno e stizza.
Disse quella a chi la sollecitava: «Aspetta ch'io sia un'altra volta ebbra come io fui quando e tu e io errammo.
Testé ch'io sono sobbria non posso consentirti».
Raro sarà femina impudica qual non sia cupida e incontinente al vino.
Quell'altra rispuose: «Se tu mi volessi bene, non ti crucceresti, non ti dorrebbe vedermi ben voluta da molti altri come da te».
Non che l'altre, ma la moglie propria non veggo io si possa così amare sanza molta parte di pazzia e furore.
Or si godono e' giovani uscire in publico con veste suntuosa, cavagli pieni e tondi, e cose per quale e' superino gli altri di levità e insolenza.
E par loro bella cosa tornare a casa con più compagnia, e sono omini assentatori, e le più volte lecconi e usi scorrere per le case altrui proccurando la cena con qualche buffonia e blando concitamento a riso.
A questi e agli altri mostrano la copia dispersa per tutta la casa, nulla utile a chi viva modesto e sobbrio, suppellettile più a pompa e ostentazione che a necessità, cose tutte esposte a testificare la poca modestia loro e la molta insolenza.
NICCOLÒ.
S'io recitassi quello che testé mi venne in mente, forse sarebbe a proposito.
Ma segui.
Non voglio interrumpere el tuo ragionamento.
BATTISTA.
El proposito nostro si è ragionare di cose utili a questi giovani, come que' che fecero la via qual faranno loro, ricordano e rendano cauti dove siano e' pericoli, e dicono: «Abbi riguardo a tal ponte, non entrare el fiume, non entrare solo la selva, non volgere a man manca, benché quella via paia più frequentata», e simili.
Questa opera dovuta ancor da te sarà utile e grata a questi.
NICCOLÒ.
Io mi ricordo vedere e' cittadini primari
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