RAGIONAMENTO, di Pietro Aretino - pagina 1
RAGIONAMENTO
DELLA NANNA E DELLA ANTONIA
FATTO IN ROMA SOTTO UNA FICAIA
COMPOSTO DAL DIVINO ARETINO
PER SUO CAPRICCIO
A CORREZIONE DEI TRE STATI DELLE DONNE.
PIETRO ARETINO AL SUO MONICCHIO.
mattine: non come a mamone, non come a scimia, né come a babuino, ma come a gran maestro.
Perché se io non avessi saputo dal segreto della natura che tu fussi un gran maestro, ti arei intitolato il dialogo della Nanna e della Antonia come ad animale, ché anco i Romani, dopo lo aver punito con pena capitale colui che uccise il corvo che non avea altra vertù che salutare Cesare non solo il fecero portare in su la bara da duo etiopi col pifero inanzi, ma nominaro il luogo dove fu sepolto "Ridiculo": sì che con la pazzia di molti savi antichi si poteva iscusare quella di uno stolto moderno.
Ma che sia il vero che tu sia un gran maestro, cominceremo a dirti che hai imagine di uomo, e sei chi tu sei, ed essi han nome di gran maestri, e sono chi sono; tu con la tua ingordigia ogni cosa trangugi, ed essi con la loro divorano sì, che la gola non si trova più tra i sette peccati mortali, tu fino a uno ago rubi, ed essi fino al sangue furano, riguardando il luogo dove fanno i furti come lo riguardi tu; essi sono liberali nella maniera che diranno i suditi loro a chi gliene dimanda, e tu sei cortese come ponno giurare quelli che si arrischiano a toglierti qualunque cosa tu ti tenga fra le unghie; tu sei sì lussurioso che ti corrompi fin con te istesso, ed essi usano sanza punto di vergogna con le medesime carni; la tua presunzione avanza quella degli sfacciati, e la loro quella degli affamati; tu sei sempre pieno di lordezza, ed essi sempre carchi di unguenti; il tuo volubile aggirare non trova mai luogo, e il loro cervello è stabile come un torno; i tuoi scherzi sono il giuoco del popolo, e le lor pazzie il riso del mondo; tu sei fastidioso, ed essi importuni; tu temi ognuno e fai temere ciascuno, ed essi a tutti fanno paura e di tutti hanno paura, i tuoi vizi sono incomperabili, e i loro inestimabili, tu fai strano viso a ciascuno che non ti porta il cibo, ed essi non mirano con dritto occhio se non gli apportatori dei loro piaceri, essi non danno cura a vituperio che si gli dica, né tu a villania che ti si faccia.
Né mi lascio perciò uscir di mente che, sì come i gran maestri hanno cera di scimie, così le scimie hanno cera di gran maestri.
E avvertite, satrapi, che fra i gran maestri simili al Bagattino (che così si chiama il mio gatto) non si intende il re di Francia: perché ci fa divini a chiamarsi come noi, e fa umani gli dèi mentre non si lascia dire iddio.
Ma per tornare a te, Bagattino, dico che se tu non fussi sanza gusto come sono i gran maestri, farei un poco di scusa del licenzioso parlare della opera che mando fuora alla ombra tua (che li gioverà come giovano quelle dei gran maestri a quelle che tuttodì si gli intitolano indegnamente), con allegare la Priapea di Virgilio e ciò che in materia lasciva scrisse Ovidio, Giovinale e Marziale, ma per esser tu dotto come i gran maestri, non dirò altro, aspettando in premio del mio farti immortale un morso dove ti avverrà di darmelo: ché anche i gran maestri pagano di cotal moneta gli autori delle laude che si gli attribuiscono, non per altra cagione che per intendersi della scienza come te ne intendi tu.
Avrei detto che hanno la anima alla similitudine della tua se fosse stato onesto a dirlo, ma dico bene che i gran maestri ascondeno i difetti loro con i libri che si gli fanno, come ascondi tu le tue bruttezze con la veste che ti ho fatto.
Ora, altissimo Bagattino (che così si dice ai gran maestri degni di cotal dignità come tu), piglia le mie carte e squarciale: che ancora i gran maestri non pure squarciano le cose che si gli indrizzano, ma se ne forbiscono poco meno ch'io non te lo dissi, a laude e gloria delle coglione Muse che, per correr dietro a panni alzati ai gran maestri, sono da essi apprezzate come le apprezzi tu, che vorresti forse, per il dire che farà la Nanna delle moniche, che io fussi tenuto della buccia della tua malignità.
La Nanna è una cicala e dice ciò che le viene alla bocca; e alle suore sta bene ogni male da che si fanno vedere dal vulgo peggio che le femine del popolo e avendo già empito ogni cosa di Antecristi, con la puzza della lor corruzione non lasciano spirare i fiori della verginità delle spose e ancille di Dio che ci sono: che, mentre le mentovo, mi sento tutto confortare da quel non so che di sacro e di santo che passa nell'anima sì tosto che si arriva dove stanno, sì come passa dentro al naso la soavità delle rose subito che si giugne dove sono; né si curi di udir gli angeli chi le ode cantare quei santi uffici co' quali raffrenano l'ira di Dio, movendolo a perdonarci le nostre colpe.
Sì che la Nanna non parla delle osservatrici della castità giurata, come ella istessa nel ragionamento suo dirà alla Antonia, ma parla di quelle il cui lezzo è il zibetto del demonio.
E certamente come non ardirei di adorare, né di ubidire, né di lodare altro che il cristianissimo re Francesco, né di cantare altro che il magno Antonio da Leva, né di lodare altro duca che quel di Fiorenza, né di predicare altro cardinale che quel de' Medici, né di servire altro marchese che quel del Vasto, né di osservare altro prencipe che quel di Salerno, né di ragionar d'altro conte che di Massimiano Stampa, così non arei avuto ardire di pensare, non che di scrivere, quello che delle moniche ho posto in carta, se non credessi che la fiamma della mia penna di fuoco dovesse purgare le macchie disoneste che la lascivia loro ha fatte nella vita d'esse: che dovendo essere nel monistero come i gigli negli orti, si sono lordate di modo nel fango del mondo, che se ne schifa lo abisso, non che il Cielo.
Onde spero che il mio dire sia quel ferro crudelmente pietoso col quale il buon medico taglia il membro infermo perché gli altri rimanghino sani.
ANTONIA E NANNA.
GIORNATA
PRIMA.
ANTONIA.
Che hai tu Nanna? Pàrti che cotesto tuo viso imbriacato ne' pensieri si convenga a una che governa il mondo?
NANNA.
Il mondo, ah?
ANTONIA.
Il mondo, sì.
Lascia star pensierosa a me che, dal mal francioso in fuora, non trovo cane che mi abbai, e son povera e superba, e quando io dicessi ghiotta non peccherei in spirito santo.
NANNA.
Antonia mia, ci sono dei guai per tutti, e ce ne son tanti dove tu ti credi che ci sieno delle allegrezze, ce ne sono tanti che ti parria strano; e credilo a me, credilo a me, che questo è un mondaccio.
ANTONIA.
Tu dici il vero ch'egli è un mondaccio per me, ma non per te che godi fino del latte della gallina, e per le piazze, e per l'osterie, e per tutto non si ode altro che Nanna qua e Nanna là; e sempre la casa tua è piena come l'uovo ché tutta Roma ti fa itorno quella moresca che si suole veder far dagli Ongari al giubileo.
NANNA.
Egli è così; pure io non son contenta, e mi pare esser una sposa che, per una certa sua onestà, ancora che ella abbia molte vivande inanzi e una gran fame, e benché sia in capo di tavola, non ardisce mangiare; e certo certo, sorella, il core non è dove potrebbe essere; basta.
ANTONIA.
Tu sospiri?
NANNA.
Pazienza.
ANTONIA.
Tu sospiri a torto: guarda che Domenedio non ti faccia sospirare a ragione.
NANNA.
Come non vuoi tu che io sospiri? Ritrovandomi Pippa mia figliuola di sedici anni e volendone pigliar partito, chi mi dice "Fàlla suora, che, oltre che risparagnerai le tre parti della dote, aggiungerai una santa al calendario"; altri dice "Dàlle marito, che ad ogni modo tu sei sì ricca, che non ti accorgerai che ti scemi nulla"; alcuno mi conforta a farla cortigiana di primo volo, con dire "Il mondo è guasto; e quando fosse bene acconcio, facendola cortigiana, di subito la fai una signora, e con quello che tu hai, e con ciò che ella si guadagnerà, tosto diventerà una reina": di sorte che io son fuora di me.
Sì che puoi pur vedere che anco per la Nanna ci sono dei guai.
ANTONIA.
Questi son guai, ad una come sei tu, più dolci che non è un poco di rognuzza a chi la sera intorno al foco, mandato giù le calze ha piacere di grattarsi: guai sono il veder montare il grano, i tormenti sono il veder carestia nel vino, la crudelità è la pigion della casa, la morte è il pigliare il legno due o tre volte l'anno e non isbollarsi, non isgommarsi e non isdogliarsi mai.
E mi maraviglio di te che sopra sì minima cosa hai pur fatto un pensiero.
NANNA.
Perché te ne maravigli tu?
ANTONIA.
Perché sendo tu nata e allevata in Roma, a chiusi occhi doveresti sbrigarti dai dubbi che tu hai della Pippa.
Dimmi, non sei tu stata monica?
NANNA.
Sì.
ANTONIA.
Non hai tu avuto marito?
NANNA.
Hollo avuto.
ANTONIA.
Non fosti tu cortigiana?
NANNA.
Fui e sono.
ANTONIA.
Adunque, dei tre stati non ti basta l'animo di scegliere il migliore?
NANNA.
Madonna no.
ANTONIA.
Perché no?
NANNA.
Perché le moniche, le maritate e le puttane oggidì vivono con una altra vita che non vivevano già.
ANTONIA.
Ah! ah! ah! La vita visse sempre a una foggia: sempre le persone mangiaro, sempre bevvero, sempre dormiro, sempre vegghiaro, sempre andaro, sempre stettero; e sempre pisciaro le donne per il fesso.
E arei caro che tu mi contassi qualche cosa del vivere che faceano le suore, le maritate e le cortigiane del tuo tempo: e io ti giuro, per le sette chiese che io mi sono avotita di fare la quaresima che viene, di risolverti in quattro parole di quello che tu debbi fare della tua Pippa.
Ora tu, che per esser una dottoressa sei ciò che tu sei, prima mi dirai perché il farla suora ti fa star fantastica.
NANNA.
Io son contenta.
ANTONIA.
Dimmelo, io te ne prego: a ogni modo oggi è la Madalena nostra avvocata che non si fa niente; e quando ben si lavorasse, io ho pane e vino e carne insalata per tre di.
NANNA.
Sì?
ANTONIA.
Sì.
NANNA.
Ora io ti conterò oggi la vita delle moniche, dimane quella delle maritate, e l'altro quella delle meretrici.
Siedimi allato: acconciati adagio.
ANTONIA.
Io sto benissimo.
Dì su.
NANNA.
Mi vien voglia di bestemmiare l'anima di monsignor nol-vo'-dire, che mi cavò di corpo questo fastidio di figliuola.
ANTONIA.
Non ti scandolezzare.
NANNA.
Antonia mia, le moniche, le maritate e le puttane sono come una via croce, che tosto che giungi a essa, stai buona pezza pensando dove tu abbi a porre il piede; e avviene spesso che 'l demonio ti strascina nella più trista, come strascinò la benedetta anima di mio padre quel dì che mi fece suora pur contra la volontà di mia madre santa memoria, la quale tu dovesti per avventura conoscere (oh, ella fu che donna).
ANTONIA.
La conobbi quasi in sogno: e so, perché io l'ho udito dire, che facea miracoli dietro a Banchi; e ho inteso che tuo padre, che fu compagno del bargello, la sposò per innamoramento.
NANNA.
Non mi ricordar più il mio cordoglio, ché Roma non fu più Roma da che restò vedova di così fatta coppia.
E per tornare a casa, il primo giorno di maggio mona Marietta (che così chiamossi mia madre, benché per vezzi le fosse detto la bella Tina) e ser Barbieraccio (che cotal nome fu quello di mio padre), avendo ragunato tutto il parentado, e zii e avi e cugini e cugine e nepoti e fratelli, con una mandra d'amici e d'amiche, mi menaro alla chiesa del monistero vestita tutta di seta, cinta di ambracane, con una scuffia d'oro sopra la quale era la corona della virginità tessuta di fiori di rose e di viole, con i guanti profumati, con le pianelle di velluto; e se ben mi ricordo, della Pagnina, che entrò poco fa nelle Convertite, erano le perle che io portai al collo e le robbe che avea indosso.
ANTONIA.
Non potevano essere d'altri.
NANNA.
E ornata proprio proprio come una donna novella, entrai in chiesa, nella quale erano millantamilia persone che, voltatisi tutti verso di me tosto che io apparsi, chi dicea "Che bella sposa arà messer Domenedio", chi dicea "Che peccato a far monica così bella figlia", altri mi benediva, altri mi bevea con gli occhi, altri diceva "La darà il buon anno a qualche frate": ma io non pensava malizie sopra tali parole; e udii certi sospiri molto ardenti, e ben conobbi al suono che uscivano dal core di un mio amante che mentre si dicevano gli uffici sempre pianse.
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