RAGIONAMENTO, di Pietro Aretino - pagina 15
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Ed era grande spasso ad udire i pareri della brigata circa il credersi che ella si fusse tratta nel fondo: alcune vecchiarelle dicevano ricordarsi quando il pozzo si fece; e che avea di molte tane che givano una in qua e l'altra in là, e che certo certo ella era ridotta in qualcuna.
E udendo ciò la madre levò un altro pianto con dir: "Oimè, figlia mia, che ti morrai di fame là giù, e non ti vedrò più rifare la terra con le tue bellezze, con le tue grazie, con le tue virtù", e promettendo tutto il mondo a chi volea tuffarsi per essa nel pozzo, sendo impaurito ognuno dalle tane che le vecchie dicevano, temendo non ci si perdere dentro, sanza risponderle altro le volgeano le spalle e andavansi con Dio.
ANTONIA.
Che fu del marito suo?
NANNA.
Egli parea un gatto forestiero che gli fusse stato arrostita la coda: e non gli bastava l'animo pur di lasciarsi vedere: sì perché si dicea publicamente che per i suoi mali portamenti ella si gittò, sì per paura della suocera che non si gli avventasse al viso e cavassegli gli occhi con le dita.
Ma non poté far sì che ella non gli sopragiugnesse a dosso con un "Traditore, or sei contento mo'? I tuoi imbriacamenti, i tuoi giocacchiamenti, i tuoi puttanamenti hanno affogata la mia figliuola e la mia consolazione.
Ma pòrtati il crocifisso in seno, portalo dico, perché ti vo' far tagliare a pezzi, a bocconi e a minuzzoli; aspetta, aspetta, và per qual via tu vuoi, che arai la tua: tu sarai trattato come tu meriti, tristo, assassino, nemico delle cose buone".
Il poveruomo parea una di quella paurose quando scrocca lo scoppietto, che si serrano le orecchie con le dita per non udire il tuono, e lasciandola affiocata nello sputar veleno, si chiuse in camera pensando pure alla moglie: parendogli strano fine il suo.
Standosi la cosa così, la pazza madre della giovane fastidiosa parò il pozzo come uno altare: e quante dipinture avea in casa, tutte le appiccò sopra esso, logorandoci le candele benedette di dieci anni, e ogni mattina vi dicea la corona per l'anima della figliuola.
ANTONIA.
Che fece il converso dopo la tirata dello scapolare?
NANNA.
Ritornò alla stanza; e scovata di sotto al letto la volpe, contò il tutto: e ne fecero quelle risa che si faceano alle buffonerie del nostro da bene maestro Andrea o del buono Strascino, che Dio gli faccia pace all'anima.
ANTONIA.
Per certo che la morte ebbe il torto a rubargli a Roma, che è rimasta vedova, né conosce più carnovali, né stazzoni, né vigne, né spasso alcuno.
NANNA.
Sarebbe ciò che tu dici quando Roma fusse sanza il Rosso, che fa miracoli con le sue piacevolezze.
Ma dichiamo del converso, che durò un mese caminando, fra dì e notte, le belle sette, otto, nove e dieci miglia: sempre entrando nella valle di Giusafà sodo, intero e gagliardo.
ANTONIA.
Come le dava da mangiare?
NANNA.
Come egli volea; perché, sendo il procaccino del convento, andava all'aia, al tino e alle case de' contadini, riportandone l'asino carico tre volte la settimana: e legne, e pane per i frati, e olio per la lampada; e tutto procacciando, era padrone del tutto poi, dilettandosi di lavorare al torno cavava di buoni denari di alcune trottole da fanciulli, pestelli e fusa da lino viterbese, e avea la decima della cera che si ardeva per il cimitero la mattina dei morti: ché anco i cuochi civanzano i capi, i piedi e le cose di dentro dei polli.
Ora lo idolo della savia femina (che avea posto il corpo in paradiso, dando quella cura dell'anima che diamo noi dei guelfi e dei ghibellini) mise in sospetto l'ortolano con il coglier di certe insalatucce non usate; e ponendo mente a ciò che facea e vedendolo smagrato, con gli occhi in dentro, andando a onde, sempre con uova fresche in mano, disse fra sé "Trama ci è"; e dettone una parolina al campanaio, e il campanaio fattone motto al cuoco, e il cuoco al sagrestano, e il sagrestano al priore, e il priore al provinciale, e il provinciale al generale, fu posto la guardia al camerino suo, appostando che fosse ito per la terra.
E con una chiave contrafatta lo apriro: e trovaro la pianta per morta della sua madre, che tutta si smarrì ne l'udir dirsi "Esci fuora"; uscendone con quel viso che fa una strega al fuoco che si pone al capannello sopra il quale si sta legata per ardersi.
Né si guastando i frati punto, chiamato il converso che pure allora veniva di fuora, lo legaro, disegnandolo ad altro che a mangiare sotto la tavola con le gatti.
Eglino lo posero in una prigione sanza luce, che ci era l'acqua alta una spanna, dandogli una fetta di pane di semola la mattina e una la sera, con un bicchiere di aceto adacquato e un mezzo capo di aglio.
E disputandosi di ciò che si dovea fare della donna, chi dicea "Sotterriamola viva", chi dicea "Facciamola morire seco in prigione"; altri più pietoso dicea "Rendiamola ai suoi"; e ci fu un savio che disse: "Godiamoci d'essa qualche dì, poi Dio ci spirerà".
A questa proposta risero tutti i giovanastri e anco gli attempati, non sanza un ghignetto dei vecchi: alla fine si prese per partito di vedere quanti galli bastasseno ad una gallina; e data la sentenza, non si poté tenere la ghiotta-delle-pastinache di non fare un risetto udendo avere a essere gallina di pur assai galli.
E venuta la ora del silenzio, il generale le parlò con mano; dopo lui, il provinciale, poi il priore; e di mano in mano il campanaio e l'ortolano ancora montaro in sul noce, e lo battero in modo che ella se ne cominciò a contentare: e duo dì alla fila non fecero mai altro i passerotti che salire e scendere del pagliaio.
E allargato il prigione dopo alcuni dì, perdonando a tutti uscì dello inferno, e miso il suo in comune, insieme con i padri ne godea.
Crederesti tu che uno anno intero ella stesse sotto a tante macine?
ANTONIA.
Perché non vuoi tu che io lo creda?
NANNA.
E ci si stava per sempre se non impregnava: venendo, dopo il parto di un pulicane, a noia ai frati.
ANTONIA.
A che modo a noia?
NANNA.
Per la cateratta che si le allargò troppo facendo il pulicane, che era strana cosa a vederlo: e si calculò da essi per nigromanzia, e trovossi che il cane che guardava l'orto ebbe a far seco.
ANTONIA.
È possibile?
NANNA.
Io te la vendo come io la comperai da tutto il popolo, che lo vide morto perché morto lo fece la frataia.
ANTONIA.
Che fu della fecciosa dopo il parto?
NANNA.
Si rese al marito, o per dir meglio alla madre, con la più bella astuzia del mondo.
ANTONIA.
Contamelo.
NANNA.
Un frate che incantava gli spiriti e ne avea piene le ampolle, salendo per certi muri di ortacci sopra il tetto della casa di questa smugne-conventi, fece tanto che con il trentapaia ci entrò una notte, e aspettato che ciascuno dormisse si accostò allo uscio della camera della madre che tuttavia piangeva chiamando la beata figliuola, e udendo, il frate dire "Dove sei tu ora?", contrafacendo la voce sua rispose: "In luogo di salvazione; e son viva bontà delle corone che avete dette al pozzo dove trionfo in grembo delle vostre orazioni, e fra duo giorni mi vedrete più grassa che mai", e lasciandola stupefatta, se ne partì.
E sceso di donde salse, raccontò la ciancia ai padricciuoli: che chiamata la moglie comune, il priore, in nome del convento, della umanità sua le rendé due some di grazie, chiedendole perdono del non averle fatto il debito, offerendosi a ristorarla.
E misole indosso un camiscio bianco, con la corona di ulivo e una palma in mano la mandaro due ore inanzi dì a casa con il frate che annunziò la sua venuta alla madre, che resuscitata alla visione posticcia, tutta in sapore aspettava la ingorda-della-carne-sanza-osso; che, nel lasciare i segnali di sé nel pozzo, se ne portò la chiave dell'uscio di dietro: con la quale entrata in casa, licenziò il padre dalle nigromanzie, datogliene prima una fettuccia.
E postasi a sedere sul pozzo, venne il giorno; e levatasi la fante e gita per la acqua per porre il desinare al fuoco, visto la padrona vestita come una santa Orsola dipinta, gridò: "Miracolo! miracolo!".
La madre, che sapea che la figliuola dovea fare questi miracoli, scagliatasi giù per la scala, le si gittò al collo sì gentilmente che mancò poco che non gì giuso da vero.
E levato il romor grande, correndo tuttavia brigate al miracolo nel modo che si corre quando alcuno di questi schiericati fa piangere o crocifisso o madonna...; e non credere che il suo marito stesse di non venire per la lavatura di capo della vecchia: anzi le si gittò ai piedi, e non potendo dire il miserere per il pianto che gli colava dagli occhi, stendendo le braccia facea le stimmate, ed ella basciandolo lo levò suso.
E contando nella maniera che era vissa nel pozzo, dando ad intendere che la sorella della sibilla di Norcia e la zia della fata Morgana ci abitava, mise in succhio parecchi di trarsici di bona volontà.
Ma che vuoi tu sapere altro? Il pozzo venne in tanta riputazione che ci si fece sopra una graticola di ferro: e ciascuna che avea il marito strano bevea di quella acqua, parendole che le giovasse non poco, onde cominciaro a votarsi a lui tutte quelle che si aveano a maritare, pregando la fata pozzeruola che gli desse buona ventura; e in un anno vi si attaccò più ceri, più veste, più camisciuole e più tavolette che non sono intorno alla sepoltura di santa beata Lena dallo Olio a Bologna.
ANTONIA.
Quella fu l'altra pazzia.
NANNA.
Non la mentovare invano, che sarai scommunicata: perché non so qual cardinale raguna i denari per farla canonizzare, che certo ella fu consorte del frate che purificava la gente della beata Vastalla.
ANTONIA.
Con cento buoni anni sia.
NANNA.
Ma uscendo di lungherie circa le maritate, abbrevierò: e dico che una dal più bel marito del mondo si innamorò di uno di questi che fanno bottega di se stessi con la merceria dinanzi sostenuta dalla cenghia che portano al collo, gridando "alle belle stringhe, agli aghi, agli spilletti, ai bei ditali, specchi, specchi, pettini e forbicette"; sendo sempre a mercato con questa e con quella scioperata, barattando alcuni suoi oli, saponetti e moscati salvatichi a pane, a cenci e a scarpette vecchie, dandogli alcuni soldi giunta.
E se ne imbriacò così fattamente che, gittatosi lo onore sotto ai piedi, gli trasse dietro uno avere: onde il codacciuto, mutato panni, sfoggiava da paladino; e cominciando a giocare con i gran maestri, in otto dì si gli dava del signore, e merita una corona.
ANTONIA.
Perché?
NANNA.
Perché straziava la sua tesoriera come si strazia una manigolda; e oltra che la salutava spesso col bastone, ciò che le facea bandiva per le piazze.
ANTONIA.
Molto bene.
NANNA.
Ma son ciance quelle che ti ho conto: le cose stupende sono fra le signore e fra le grandi; e se non che non voglio essere tenuta malalingua, ti direi chi è quella che si dà in preda al fattore, allo staffiere, al famiglio di stalla, al cuoco e al guattero.
ANTONIA.
Zoccoli, zoccoli.
NANNA.
A me basta che tu me lo creda.
ANTONIA.
Zoccoli, dico.
NANNA.
Or bene, Antonia, tu hai inteso.
ANTONIA.
Intesissimo ti ho.
NANNA.
Ma avvertisci che ti ho conto delle suore ciò che vidi, in pochi dì, in un solo monistero; e parte di quello che ho visto e inteso, in altrettanti, in una città sola delle maritate: o pensa ciò che saria a contarti gli andamenti di tutte le moniche di cristianità e quelli delle maritate di tutte le città del mondo.
ANTONIA.
È possibile che le buone sieno come i denari, senno e fede che tu dicesti?
NANNA.
Sono.
ANTONIA.
Le osservanti ancora?
NANNA.
Non parlo di esse; anzi ti dico che i preghi che elle porgono per le triste conventuali sono cagione che il demonio non le inghiottisce calzate e vestite: ché la loro verginità è tanto odorifera quanto puzzolente la puttanità d'esse; e messer Domeneddio si sta con loro il dì e la notte, sì come il diavolo sta con quelle vegghiando e dormendo.
E mal per noi se non fusseno le orazioni delle santarelle: mal per noi, mal per noi (io lo vo' dir tre volte); è ben vero che quelle poche di buone che sono fra le conventuali sono tanto perfette che meritano che gli abbrusciamo i piedi come al beatissimo Tizzone.
ANTONIA.
Tu sei giusta, e non favelli a passione.
NANNA.
E anco delle maritate ci sono delle buonissime: e prima si lasceriano scorticare alla san bartolomeesca che lasciarsi toccare pure un dito.
ANTONIA.
Questo anco mi piace; e se tu consideri bene la avarizia con che nasciamo noi femine, è cagione che ci rechiamo come altri vuole: non che noi siàn cattive come siamo tenute.
NANNA.
Tu non la intendi: io ti dico che noi nasciamo di carne e in su la carne muoiamo; la coda ci fa e la coda ci disfà.
E che tu sia in errore te lo pongo inanzi con lo essempio delle signore che hanno perle, catene e anelli da gittar via: e fino alle mendiche vorriano più tosto trovar Maria per Ravenna che un diamante in punta; e per una che le piace il marito, son mille che se ne fanno schife: ed è chiaro che per due persone che faccino il pane in casa, son settecento che vogliono quello del fornaio perché è più bianco.
ANTONIA.
Io te la do vinta.
NANNA.
Io l'accetto.
Or risolviamola qui: la castità donnesca è simile a una guastada di cristallo che, usata quanta diligenza tu sai, alfine ti cade di mano che non te ne avvedi, e tutta si rompe; ed è impossibile a mantenerla intera se non la tenessi sempre chiavata in un forzieri; e quella ci si mantiene si può mettere fra i miracoli che fa un bicchiere di vetro che cadendo non si spezza.
ANTONIA.
Buona ragione.
NANNA.
Alla conchiusione: io, veduto e inteso la vita delle maritate, per non essere da meno di loro, mi diedi a cavare ogni vogliuzza, e volsi provare fino ai facchini e fino ai signori, la frataria, la pretaria e la monicaria sopra tutto, e mi era di piacere che non pure il mio ser marito il sapesse, ma che lo vedesse, parendomi tuttavia udir dire: "Bene abbia la tale, che lo tratta da quel che egli è".
E una volta infra le altre che mi volse riprendere, gli misi le mani in capo e tutto lo pelai, con quella crudeltà che usa chi gli ha dato un pozzo d'oro di dota, con dirgli: "Con chi ti pare di favellare, ah? diserto imbriacone".
E andando dietro, tanto gliene feci che, uscito del suo trotto entrò in sul gigante.
ANTONIA.
Nanna, non sai tu che si dice che a voler far valente un uomo bisogna fargli delle villanie?
NANNA.
Egli fatto valente adunque, perché io gli feci ciò che tu dici, dopo mille che ne vide con gli occhi mandandole giuso come si manda un boccon caldo che fa il mal pro', trovandomi a dosso uno accatta-tozzi, non la potendo inghiottire mi corse sul viso per rompermelo con le pugna; e io, uscita di sotto al torcitoio, suainato un coltellino che avea, adirata per avermi inturbolata l'acqua che io bevea, glielo cacciai nella poppa manca: e non batté polso.
ANTONIA.
Dio gli perdoni.
NANNA.
E avendolo mia madre udito, fattami fuggire, vendé ciò che ci era e poi mi condusse qui in Roma; e ciò che ne seguì de l'avermici condotta lo saprai domane, perché oggi non voglio dirti altro: sì che leviamoci suso e andiamocene, che ho non pur sete per tanto cicalare, ma una fame che la veggio.
ANTONIA.
Io son levata.
Oimè, il granchio mi ha preso nel piede dritto.
NANNA.
Facci sopra la croce con lo sputo, che se ne andrà.
ANTONIA.
La ho fatta.
NANNA.
Gióvati?
ANTONIA.
Sì, egli se ne va, egli se n'è ito.
NANNA.
Ora avviamoci passo passo inverso casa, dove e istasera e diman da sera hai da starti meco.
ANTONIA.
Porrò questo con le altre obligazioni.
E dettole così, la Nanna serrò l'uscio della vigna; e avviàrsi, sanza dir altro, fino a casa: che vi giunsero a punto che il Sole si avea messi gli stivali per gire in poste agli Antipodi che lo aspettavano come polli balordi; e le cicale, ammutie per il suo patire, rinunziato il loro ufficio ai grilli, si stavano; onde il giorno parea un mercante fallito che adocchiasse una chiesa per balzarvi dentro.
E già gli alocchi e le nottole, pappagalli della notte, si facevano vedere a lei che, bendata, sanza parole, grave, maninconica e piena di pensieri, se ne veniva in sul passo di una matrona vedova che, ammantata di nero, sospira il marito morto un mese inanzi.
E quella che fa ferneticare gli astrologi se ne giva smascarata su per la scena, con un pezzo di lenzuolo intorno, e le stelle che stanno e non stanno in cervello, con le triste e con le buone compagne, indorate a fuoco per man di maestro Apollo orefice, si facevano alla finestra a una, a due, a tre, quattro, a cinquanta, a cento e a mille e simigliavano rose che in sul far del dì si aprano a una a una.
e poi, venuto il raggetto dello avvocato dei poeti, tutte compariscono alla mostra.
Io le arei assomigliate a un campo che pigli alloggiamento poi che i suoi soldati son giunti a dieci e a venti: e poi eccoti in un tempo la moltitudine sparsa in tutte le case (ma non saria forse piaciuta: perché sanza rosette, sanza violette e sanza erbette non sono tenute buone le minestre di oggidì)." Ora, come si sia, la Nanna e la Antonia, giunte dove aveano a giungere e fatto ciò che avevano a fare, si giro a riposare fino al dì.
Fine della seconda giornata.
LA ULTIMA GIORNATA DEL CAPRICCIO ARETINO NELLA QUALE LA NANNA NARRA ALLA ANTONIA LA VITA DELLE PUTTANE.
A punto col giorno usciro le due del letto; e fatto riporre in un canestro grande coperchiato alcune cose da mangiare cotte la sera, lo posero in capo della fante; e avviatasela inanzi con un fiasco di corso peloso in mano, portando Antonia una tovaglietta e tre tovaglini sotto al braccio per mangiarsi ciò che colei portava nella vigna, alla vigna arrivaro.
E distesa la tovaglia suso una tavola di pietra che ivi si stava sotto una pergola col suo pozzo allato, la buona fante aprì il canestro: e trattone fuora il sale, per il primo lo mise in tavola; poi i tovaglini piegati, poi i coltelli.
E cominciando il Sole a farsi vedere per tutto, perché egli non mangiasse con loro, spediro il desinare; al fine del quale si trastullaro con una mezza prevatura fresca.
E lasciato la fante a divorarsi le reliquie fino della prevatura e del vino, dicendole la Nanna "Riporrai poi ogni cosa", date due giravolte per la vigna, con la Antonia si pose a sedere dove sedero i giorni a dietro.
E riposatasi un poco, disse la Antonia: "Io pensava, mentre che mi vestiva, che sarebbe una bella cosa che qualcuno scrivesse i tuoi ragionamenti, e che ci fusse chi raccontasse la vita dei preti e dei frati e dei secolari, acciò che, udendola le mentovate da te, si ridessero di loro come eglino si rideranno di noi che, per parere di esser savie, diamo contra a noi medesime; e parmi già udire che non so chi lo faccia; le orecchie mi trombano, ei sarà vero".
NANNA.
Non può essere altrimenti.
Ma veniamo al giunger che mia madre fece in Roma con meco.
ANTONIA.
Veniamoci.
NANNA.
Con buon ricordo sia noi ci venimmo la vigilia di San Pietro: che Dio tel dica il piacer che io ebbi dei raggi che traeva e dei fuochi che facea Castello sbombardando terribilmente; sonando poi i piferi, con tutto il mondo in Ponte, in Borgo e in Banchi.
ANTONIA.
Dove alloggiaste voi la prima volta?
NANNA.
A Torre di Nona, in una camera locanda tutta impannarazzata; e stateci così otto dì, la padrona di casa, che era impazzata di me sì le parsi aggraziata, dettone una parola a un cortigiano, vedesti dello altro dì passeggiare genti, come cavalli rappresi, dintorno allo alloggiamento nostro, proverbiando il mio non mi gli lasciar vedere a lor modo: perché mi stava dentro una gelosia, e se pure la alzava, spuntando appena mezzo il viso fuora, la serrava subito.
E benché io fussi bella quel balenare delle mie bellezze mi faceano bellissima: per la qual cosa, accresciuta la voglia di vedermi alla brigata, non si diceva altro per Roma che di una forestiera venuta di nuovo talché, piacendo sempre le cose nuove come tu sai, si correa per vedermi, alla sfilata, e quella che ci tenea in casa mai non si poteva quietare tanto le era battuta la porta: e lascia pur frappare a loro circa il promettere, caso che ella mi gli desse in mano.
E la mia madre savia (che tutto ciò che feci, facea e aveva a fare, mi insegnò) non volea udirne parola, dicendo: "Adunque io vi paio di quelle? non piaccia a Dio che la mia figliuola rompa il collo: io son gentildonna, e se ben la disgrazia mi è corsa a dosso, ringraziato Iddio ci è rimaso tanto che vivacchieremo", e da queste parole nasceva tuttavia più il nome delle mie bellezze.
E se tu hai veduta una passera su le finestre d'un granaio, che beccatone dieci granelli vola via, e stata alquanto ritorna alla esca con due altre, e rivolata riviene con quattro, poi con dieci, poi con trenta, e poi col nuvolo tutto insieme, vedi gli amanti intorno a casa mia per volere porre il becco nel mio granaio.
E io, non mi potendo saziare di vedere i cortigiani, perdea gli occhi per i fori della gelosia vagheggiando la politezza loro in quei sai di velluto e di raso, con la medaglia nella berretta e con la catena al collo, e in alcuni cavalli lucenti come gli specchi andando soavi soavi con loro famigli alla staffa, nella quale teneano solamente la punta del piede, col petrarchino in mano, cantando con vezzi:
Se amor non è, che dunque è quel ch'io sento?
E fermatosi questo e quello dinanzi alla finestra dove io facea baco baco, dicevano: "Signora, sarete voi sì micidiale che lasciate morire tanti vostri servidori?"; e io alzato un pocolino la gelosia e con un risetto rimandatola giuso, mi fuggiva dentro; ed eglino, con un "bascio la mano a vostra Signoria" e con un "giuro a Dio che sète crudele", si partivano.
ANTONIA.
Io odo oggi le belle cose.
NANNA.
Standoci così, mia madre saputa volse fare un giorno una mostretta di me, fingendo che fosse a caso: e vestitami di una veste di raso pavonazzo sanza maniche, tutta schietta, e rivoltatomi i capelli intorno al capo, averesti giurato che fussero non capelli, ma una matassa interciata d'oro filato.
ANTONIA.
Perché te la vestì ella sanza maniche?
NANNA.
Perché mostrassi le braccia bianche come un fiocco di neve e fattomi lavare il viso con certa sua acqua più tosto forte che no, sanza altro smerdamento di belletto, sul più bello del passare dei cortigiani mi fece porre in su la finestra.
Come io apparsi parve che apparisse la stella ai Magi, sì se ne rallegrò ciascuno; e abbandonando le redine in sul collo del cavallo, si ricreavano a vedermi, come i furfanti allo spicchio del sole; e alzando la testa guardandomi fissi, parevano quegli animali che vengono di là dal mondo, che si pascono di aria.
ANTONIA Camaleonti vuoi dir tu.
NANNA.
È vero; e mi impregnavano con gli occhi nel modo che con le penne impregnano la nebbia quei che paiono sparvieri e non sono.
ANTONIA.
Fottiventi?
NANNA.
Madesì, fottiventi.
ANTONIA.
Che facevi tu mentre ti miravano?
NANNA.
Fingeva onestà di monica, e guardando con sicurtà di maritata, faceva atti di puttana.
ANTONIA.
Benissimo.
NANNA.
Stata un terzo di ora in mostra, nel più bello del motteggiar loro mia madre, venuta alla finestra e fattasi vedere un tratto, quasi dicesse "Ella è mia figlia", me ne fece levar seco; e rimasi gli impaniati in secco come una tirata di pesce, se ne giro saltellando nella foggia che saltellano i barbi e le lasche fuora della acqua.
E venuta la notte, ecco il tic toc tac alla porta; e andata giuso la padrona, mia madre si pose ad ascoltare ciò che dicea quello che picchiò; e ascoltando ode uno che stando turato nella cappa disse: "Chi è quella che era pur dianzi alla finestra?"; rispose ella: "Una figliuola di una gentildonna forestiera che, secondo che io posso comprendere, il padre è stato ammazzato per le parti, onde la meschina se n'è fuggita qui con alcune poche cosette che ha potuto carpire nel fuggirsene": e tutte queste ciance gliene avea date ad intendere mia madre.
ANTONIA.
Galante.
NANNA.
Udendo ciò, il camuffato le dice: "Come potrei favellare alla gentildonna?"; "A modo niuno" risponde ella, "perché non ne vuole intender niente"; e spiando egli se io era donzella, gli rispose: "Donzellissima, né le si vede altro che masticare avemarie"; "Chi mastica avemarie sputa paternostri", egli rispose; e volendo prosuntuosamente salir suso, non poté, perciò che ella non volle mai.
Onde le disse il cortigiano: "Fammi almeno una grazia: dille che quando voglia ascoltare uno, che tu le porrai cosa inanzi che te ne benedirà per sempre", e giurandoli di farlo, gli diede licenza e tornossi suso.
E statasi un pezzo, se ne venne a noi dicendo: "Certamente non ci sono i migliori trovatori del vin buono degli imbriachi: la vostra figlia è stata sentita a naso, però che questi bracchi cortigiani scovano di tratto le quaglie; questo dico per uno che in persona propria mi è venuto a richiedere la vostra udienza".
"No, no" risponde mia madre, "no, no"; ed ella, che avea una lingua serpentina, le dice: "Il primo segno di una donna prudente è il sapere pigliare la ventura quando Iddio la manda: egli è uomo che vi può far d'oro", e con dirle "Pensateci suso", ci lasciò.
E dando la mattina parecchi tratti di corda, con una tavola bene apparecchiata a mia madre rivendaiuola di consigli e troppo buona massaia del suo utile, fece tanto che ella si recò alla sua volontà; onde le promise di ascoltare lo amico che si credea sballare lane francesche a dormir meco: e fattolo venire, dopo mille giuri e scongiuri caparrò la mia verginità, promettendomi Roma e toma.
ANTONIA.
Bello.
NANNA.
Per tagliarla, venne la sera determinata, e finito un pasto che passò un banchetto (dove non assaggiai se non dieci bocconcini masticati a bocca chiusa, bevendo solamente mezzo bicchiere di vino tutto acqua in venti ciantellini), sanza niuna parola fui menata nella camera della padrona, che ne servì per quella notte per la anima di un ducato, né fui sì tosto dentro che serrò la porta sanza volere che niuno gli aiutasse a spogliare: anzi da se stesso lo fece in un soffio.
E corcatosi, mi domesticava con le più dolci ciance del mondo, mescolandoci dentro: "Io ti farò e ti dirò di modo che no averai invidia alla prima cortigiana di Roma".
E non potendo sofferire che io mettessi indugio a entrargli appresso, si levò suso e tirommi fuora di gamba le calze, facendoci io resistenza grande, e tornatosi in letto, mentre mi corcava si voltò verso il muro perché non avessi vergogna a mostrarmigli in camiscia; e dicendomi egli "Non fate, non fate", spensi il lume.
E tosto che entrai giù mi si avventò con quella volontà che si avventa una madre al figliuolo che ha già pianto per morto; e così mi basciava e mi stringeva nelle sue braccia.
E mettendomi le mani su la arpa (che era molto bene accordata), storcendomi mostrava di consentirlo malvolentiere: pure mi lasciai toccare fino allo organo; ma volendo egli mettere il fuso nella cavicchia, non volsi mai.
Egli mi dicea: "Anima mia, speranza mia, stà salda: se io ti faccio male, ammazzami"; e io soda al macchione, ed egli ai prieghi; e con i prieghi dandomi alcune punte false, tutto si disfaceva.
E messomelo in mano, diceva: "Fà da te stessa, che io non mi moverò punto"; e io quasi piangendo rispondea: "Che cotal grosso è questo? Gli altri uomini hannolo così grande? Adunque mi volete sfendere nel mezzo?"; e in tali detti stava ferma un poco poco, e in sul buono lo lasciava in succhio: onde si disperava, e rivolti i prieghi in minacci, facea tagliate crudeli, e "Al corpo, al sangue, che ti scannerò e ti affogherò", e pigliandomi nella gola mi stringea pian piano; poi ripregandomi faceva sì che mi recava a suo modo: ma volendomi mettere la pala nel forno, lo refutava di nuovo: onde rizzatosi suso e presa la camiscia per mettersela e levarsi, da me era pigliato con dire: "Orsù, corcatevi, che farò ciò che volete".
A tal parola, cadutagli l'ira nella caldaia, tutto contento mi basciava dicendomi: "Lo aspettarlo è un pizzico di mosca, e che sia il vero, senti che faccio con dolcezza", e io ci lascio entrare il terzo di una fava, e poi lo pianto, con tanto suo furore che acconciosi su la sponda del letto, spingendo il capo innanzi e il culo in fuora, rannicchiate le gambe, la voglia che volea cavarsi meco si cavò con la sua mano, e fatto a lei quello che avea a fare a me, si levò e vestissi.
E non passeggiò molto per camera che la notte che gli feci vegghiare a usanza di sparviere se ne gì, lasciandolo con un viso amaro che parea un giuocatore che avesse perduto i denari e il sonno, e con quel bestemmiare che fa uno che è stato piantato dalla sua signora, aperta la finestra della camera, col gombito appoggiato in essa e con la mano alla gota, mirava il Tevere che parea che si ridesse del suo menarsi la rilla.
Io dormito tutto il tempo che egli mise in pensamento, apro gli occhi, e volendomi levare, ecco che mi si avventa a dosso, e non so se mai nigromante scongiurò demoni con tante novelle con quante fece me: ma tutte invano come speranze dei fuorusciti; e volendo alfin ridurla in un bascio, anche il bascio gli negai; e udendo favellare mia madre per casa con la padrona, la chiamai; ed egli, apertagli la camera, disse: "Che assassinamenti son questi? a Baccano non si farebbeno", e levando le voci, la padrona lo confortava dicendogli: "Egli è il diavolo avere a fare con donzelle".
Intanto mi vestii e andai nella camera mia: e lasciai lui a gracchiare con lei.
Il poveretto entrato nella ostinazione di uno che vuole riscattare nel giuoco, esce di casa; e stato forse un'ora, manda un sartore con una pezza di ermesino verde acciò che, toltami la misura, me ne tagliasse e cuscisse una veste, credendosi la notte seguente scorrere per tutto a suo modo.
Io, accettato il dono, mi appiglio ai ricordi di mia madre che mi dice, visto il presente: "Il martello lavora; sta pur salda, che egli ti torrà casa e comprerà massericie, o creperà".
E io che sanza i suoi ricordi avrei saputo ricordarmi di quello che dovea, do una occhiata per la finestra della strada, e vedutolo dissi: "Eccolo"; e fattomigli incontra alla scala, dico: "Dio il sa che dolore ho avuto vedendovi partito sanza dirmi pur addio, e son tutta consolata poi che sete ritornato; e se dovessi morire, farò ciò che voi volete istanotte".
A bocca aperta mi corse a basciare in quel che io dissi così; e mandato per il desinare, facemmo una paciozza allegra allegra.
E venuta la sera (che, secondo me gli parse che indugiasse più che non pare che indugi la ora di una posta data a uno che l'ha desiderata dieci anni), provede alla cena, e quando fu tempo ritornò meco nel letto della notte passata: e trovandomi alle sue volontà amorevole come un giudeo a chi non ha pegno, non si poté tenere di non mi dare una frotta di pugna, e io sopportandole diceva meco: "Le ti costeranno".
E riduttolo a rimenarsi lo agresto, fatti gli atti che fece la notte passata, si levò e gitosene dove era mia madre a dormire con la padrona, durò quattro ore a minacciarmi, ed ella gli dicea: "Caro messere, non dubitate, che questa altra notte voglio che muoia o che vi contenti"; e levatasi suso gli diede una cinta di taffettà doppio lunga lunga, e disse: "Tenete, legatele le mani con questa".
Il goffo la piglia; e con la medesima spesa di desinare e di cena, si ricorcò meco la terza volta; e venne in tanta rabbia nel ritrovarmi scarsa fino del lasciarmi toccare, che fu per darmi di un pugnale: e ti confesso che ne dubitai; e mi fu forza a voltargli il sedere; e tenendogliene in grembo, per cotale invito gli raddoppiò la voglia del mangiare.
E cominciando a frugare, sto salda alle mosse finché lo sento sdrucciolare fuora via, ma quando il presuntuoso vuole entrar dentro, gli dico: "Sarà buon di destarsi"; e sguizzateli di gremo, gli mostro il viso; ed egli mi volge a contare le travicelle, e monta suso, e ce ne mette poco meno che la metà, gridando io "Oimè, oimè".
Tenendolo così distende la mano e cava la borsa che aveva appiattata sotto il capezzale; e presi da dieci ducati con non so quanti giuli, me gli mette in mano e dice "Tòtegli"; e io con "Non gli voglio" stringo il pugno, lasciandocelo ire fino al mezzo: e non potendo passar più oltre, sputò l'anima.
ANTONIA.
Perché non ti legò con la cinta?
NANNA.
Come vuoi tu che mi legasse un legato?
ANTONIA.
Tu dici il vangelo.
NANNA.
Quattro altre volte, prima che ci levassimo, il suo cavallo andò fino al mezzo del camin di nostra vita.
ANTONIA.
Sì disse il Petrarca.
NANNA.
Anzi Dante.
ANTONIA.
O il Petrarca?
NANNA.
Dante, Dante.
E contento di ciò, tutto lieto si levò, e io ancora; e non potendo restar meco a desinare, mandatomi da farlo, tornò la sera a cena pur comperata da lui.
ANTONIA.
Salda un poco: non si avvide egli che tu non facesti sangue?
NANNA.
A punto: sanno molto di questi cortigiani di vergini o di martiri; io gli diedi ad intendere che il piscio fosse sangue: che, purché lo mettino là, gli basta.
Ora la quarta nottata ce lo lasciai andar tutto: e nel sentircelo il valente uomo ci tramortì suso.
E la mattina venuta mia madre dentro, ridendo vedendoci nel letto, mi diede la sua benedizione, salutando la sua Signoria; alla quale (facendo io le maggior carezze di basci che sapea) disse: "Domani vo' partir di Roma: io ho avuto lettere dal paese, dove vo' ritornare e morir fra i miei; a ogni modo Roma è per le avventurate e non per chi non ha ventura; e certo non mi partiva mai se si potevano vendere le nostre possessioni e comprare almeno una casa qua; e mi credei poter tòrne una a pigione, e i denari non vengano; e io non son donna da stare nelle camere altrui...", e io rompendole le parole in bocca dissi: "Madre mia, io morrò in duo dì se mi parto qui dal mio core"; e datogli un bascio con due lagrimette, eccotelo rizzare a sedere in sul letto con dire: "Non sono io uomo per tòrvi casa e fornivela di tutto punto? Puttana nostra vostra", e fattosi dare i suoi panni, si levò come uno che ha fretta.
E balzato fuori di casa venne in sul vespro con una chiave in mano e con duo facchini carichi di matarazzi e di coperte e di capezzali con duo altri con lettiere e tavole, con non so quanti Giudei dietro con tapezzarie, lenzuola, stagni, secchie e fornimenti da cucina: e pareva proprio uno che sgomberasse, e menata mia madre seco, mise in ordine una casetta là dal fiume molto attillata; e ritornato a me e pagata quella che ci tenne in casa, pose le nostre cose sopra una carretta, e in sul far della notte mi ci menò, e standoci seco, spendea, per un suo pari, bene: ti dico bene.
Ora, non apparendo io più in su la finestra di prima, tosto si seppe dove era: e moresca degli amanti mi fu intorno come le pecchie al suono del bacino, o vero le api intorno ai fiori, e accettato con gli occhi per amico uno che facea il morto di me, per via di una sua ruffiana gli compiacei.
E dandomi ciò che egli avea, cominciai a volgere le spalle al primo benefattore: che, fatto stocchi e tolto in credenza le cose che mi diede, non avendo di che pagare i debiti, fu scomunicato con diavoli e appiccato come si usa in Roma, e io che era della buccia delle puttane, tanto gli scemai amore quanto gli avea scemato robba: ed egli cominciando a trovar la mia porta ghiacciata, rimproverandomi il bene che mi avea fatto, se ne partiva, come quello dalla fantasima a coda ritta.
E asciugata la borsa del secondo, mi attaccai al terzo: insomma io divenni di tutti quelli che venivano con il conquibus (disse il Gonnella); e tolto casa grande con due massare, stava in su le signorie.
E non ti credere che, studiando il puttanesimo, fussi un di questi scolari che vanno "messeri" a Studio e in capo di sette anni ritornano a casa "seri": io imparai in tre mesi, anzi in dui anzi in uno, tutto quello che si può sapere in dar martello, in farsi amici, in far trarre, in piantare, a piangere ridendo e a ridere piangendo, come dirò al suo luogo; e vendi più volte la mia verginità che non vende un di questi pretacci la messa novella attaccando per ogni città polize alle chiese del suo cantarla.
E ti vo' dire una particella dei tradimenti (che in vero così debbeno chiamare) che io ho fatti alla gente, e questo che ti narrerò son trame di me sola: e se tu sei albichista intenderai per discrezione.
ANTONIA.
Io non sono albichista e non voglio essere: io ti credo come alle quattro tempore, e più tre volte, mi farai dire.
NANNA.
Io avea fra gli altri uno al qual era obligata: ma una puttana, che non ha lo animo se non al denaio, non conosce né obligo né disobligo; e avendo lo amore che ha il tarlo, tanto gli è caro uno quanto li porge: vòltati poi in là, a Lucca ti vidi.
Dico che a questo tale facea le maggiori stranezze che io sapea e tanto più gliene feci quanto egli non mi dava più a man piene: pur mi dava.
Io dormiva seco il venere, e sempre entrava seco a gridare cenando.
ANTONIA.
Perché?
NANNA.
Per fargliene fare il mal pro'.
ANTONIA.
Che crudeltà.
NANNA.
A sua posta.
E divoratomi ogni cosa, lo tratteneva fino a sette e a otto ore a gire in letto; poi, corcatami seco, gli dava da rodere con tanta villania che, scesomi da dosso rinegando il battesimo, non lo volea fare; e sforzato alla fine dallo amore, non gli facendo le carezze che aspettava, si rivolgeva a me: e io chiotta; onde scotendomi dicea con le lagrime agli occhi cose bestiali: e volendomi montar sopra, bisognava che mi desse quanti denari che aveva a dosso prima che gli consentisse.
ANTONIA.
Tu eri una Nerona.
NANNA.
Circa i forestieri venuti per istare otto o dieci dì a Roma e poi partirsi, usai di gran forcarie.
Io avea alcuni sbricchi, che spedivano meco gratis una volta in cento, i quali operava a far bravate nel modo che i dirò.
Quegli che vengono per veder Roma vogliano, viste le anticaglie, anche vedere le modernaglie, cioè le signore, facendo con esse il signore; e sempre io era la prima visitata da tali brigate: e chi dormiva la notte meco, ci lasciava i panni.
ANTONIA.
Come diavolo i panni?
NANNA.
I panni, come intenderai.
La mattina veniva la fantesca nella mia camera, togliendo i panni del forestiere sotto coperta di volergli nettare, e ascosigli, levava romore che erano stati rubati.
Il buon forestiere, trattosi del letto in camiscia, chiedea le sue cose con minacciarmi di sconficcare le casse e pagarsi, e io gridando forte gli dicea: "Tu ne romperai le casse? tu mi sforzerai in casa mia? tu mi fai ladra?", e udito ciò i masnadieri che stavano di sotto ascosi, corsi suso con le spade tratte dicendomi "Che cosa è signora?", misso le mani nel petto a colui che sendo in camiscia parea che volesse andare a odisfare un voto, chiedendomi perdonanza avea di grazia che si mandasse per il suo amico oper il suo conoscente: del quale accattato calze, giubbone, cappa, saio e berretta, se ne partiva da me, parendogli girne bene a non aver tocche delle stacciquieto.
ANTONIA.
Come te ne sopportava il core?
NANNA.
Benissimo, perché non è niuna cosa crudele, traditora e ladra che spaventi una puttana.
E sparsasi la fama della natura mia, quei forestieri che lo sapevano non ci venivano più; o se ci venivano, fattosi prima spogliare i panni dal fameglio, se gli facevano portare allo alloggiamento: poi la mattima venivano con essi a vestirgli.
Con tutto questo, niuno poté mai fare che non ci lasciasse o guanti o cinte o scuffia dalla notte, perché ogni cosa fa per una puttana: una stringa, uno stecco, una nocciuola, una ciriegia, una cima di finocchio, fino a un picciuolo di pera.
ANTONIA.
E con tante loro astuzie, appena si difendono dal vendere le candele; e spesso il mal francioso fa le vendette dei mali arrivati: ed è pur bello a vedere una che, non potendo più appiattare sotto al belletto, ad acque forti, a sbiaccamenti, a belle vesti e a gran ventagli la sua vecchiezza, fatto denari di collane, di anelli, di robbe di seta di scuffioni e di tutte le altre sue pompe, comincia a pigliare i quattro ordini, come i fanciulli che vogliono essere preti.
NANNA.
A che modo?
ANTONIA.
Con alloggiare la turba, trasmutato i suoi ornamenti in letti; poi, fallite delle locande, diventano da pìstole, cioè ruffiane; poi da vangelo, col darsi a lavar panni, poi cantano la messa a San Rocco, al Popolo, in su le scale di San Pietro, alla Pace a Santo Ioanni e alla Consolazione, marchiate dalla bolla con che san Giobbe segna le sue cavalle in sul viso, e anco da qualche fregetto fattogli da quelli che perdeno la pacienzia nei tradimenti loro: i quali gli hanno tratto di mano non pur le scimie e i pappagalli, ma fino alle nane con le quali fanno le imperadrici.
NANNA.
Io per me non sono stata di quelle; chi non ha cervello suo danno: bisogna sapere reggersi in questo mondo, e non stare in su la reina non aprendo la porta se non a monsignori e a signori.
Non c'è il maggior mone che quello che si fa col poco e spesso; e son baie quelle che dicono che tanto caca un bue quanto mille mosche: perché ci sono più mosche che buoi, e per un gran maestro che ti venga in casa donandoti una buona posta, ce ne son venti che ti pagano di promesse, e mille di quelli che non son gran maestri che ti empieno le mani.
E chi non degna se non ai velluti è pazza, perché i panni hanno sotto di gran ducati, e so bene io che buona mancia fanno osti, pollaiuoli, acquaruoli, spenditori e Giudei: che gli dovea porre in capo di tavola, perché spendeno più che non rubeno.
Sì che bisogna attaccarsi ad altro che a sai belli.
ANTONIA.
La ragione?
NANNA.
La ragione è che quei saioni son foderati di maligni debiti; e la maggior parte dei cortigiani simigliano lumache che si portano la casa a dosso; e non hanno fiato, e quel poco che hanno ne va in olio da ungersi la barba e a lavarsi il capo; e per un paio di scarpette che tu li vedi nuove, ne truovi cento delle spelate; e rido quando veggo fare miracoli ai drappi che portano, diventando di velluto raso.
ANTONIA.
Tu sei usa a vedere questi spilorci di oggidì: al mio tempo erano di una altra fatta, perché la spilorciaria dei servitori vien dalla furfantaria dei padroni.
Ma torna in sul tuo.
NANNA.
Dico che fu uno che faceva il pratico, con dire, inteso la qualità mia, "Io la voglio lavorare sanza pagarla", e venutomi in casa con le più dolci novellette mi interteneva che tu udissi mai: mi laudava, mi serviva, e cadendomi qualche cosa di mano ricogliendola con la berretta in mano, la basciava e poi me la porgeva con uno inchino profumato ti so dire.
E un dì, tenendomi in ciancia, disse: "Perché non ottengo una grazia dalla Signoria vostra padrona mia, e poi morire?"; io gli dico: "Son per farvela; chiedete pure"; "Vi supplico" disse egli, "a venire a dormire meco istanotte: e desidero questo perché vostra Signoria pigli la possessione di una mia stanzetta che vi piacerà".
Io glielo prometto ma dopo cena, però che avea a cenare meco un mio amico; ed egli allegro, per vantarsi poi che neanco da cena mi avea dato.
E venuto il tempo, andai e dormii seco e appostando che su l'alba dormisse, e uditolo ronfare, gli lascio la mia camiscia da donna nel luogo della sua che mi misi, avendo fatto nei suoi lavori d'oro disegno un mese inanzi, e venuta la mia serva, esco fuora della camera: e visto in un cantone il goluppo di tutti quanti i panni suoi di lino che aspettavano la lavandaia, postigli in capo alla fante, me ne ritorno a casa con essi.
Ciò che dovette dire svegliandosi, pensalo tu.
ANTONIA.
Questa è da sopportare.
NANNA.
Egli levatosi e accortosi della mia camiscia cuscita da tutti i lati, si pensò che io per errore la avessi scambiata, ma non si trovando gli altri panni sudici, mi fe' citare a Corte Savella: e funne spacciato per uomo da poco.
E così mi risi di quello che egli si voleva ridere di me.
ANTONIA.
Suo danno.
NANNA.
Ascolta questa.
Io avea un certo innamorato mercatante buona persona, che non pure mi amava, ma mi adorava: e questo mi manteneva; e io certissimamente lo accarezzava, non essendo però guasta di lui.
E dì a chi dice "La tale cortigiana è morta del tale", che non è vero, perché son capricci che ci entrano a dosso per beccar due o tre volte di un grosso manipolo; i quali ci durano quanto il soe di verno e la pioggia di state; ed è impossibile che chi si sottomette a ognuno ami niuno.
ANTONIA.
Questo so anche io.
NANNA.
Ora il detto mercatante dormiva meco a sua posta; onde io, per darmi riputazione e per cuocerlo a fatto, lo feci geloso galantemente, facendo egli professione di non essere.
E a che modo, Nanna? Io faccio comperare due paia di starne e un fagiano; e ammaestrato un facchino cattivo-di-nido che non era punto conosciuto, lo fo battere alla mia porta sul desinare, sendo il mercante a mangiar meco; e detto alla fante "Aprigli", eccotelo suso con un "Buon pro' alla Signoria vostra", soggiungendo: "Lo imbasciadore di Spagna prega quella che si degni mangiar questi per suo amore, e che quando vi sia commodo vi vorria dir .XXV.
parole", e io ribuffandolo dico: "Che imbasciadore o non imbasciadore? Portagli via, che non voglio che mi parli altro imbasciador che questo, che mi fa meglio che io non merito", e dato un bascio al sempliciotto, e rivoltatami al facchino minacciandolo che si partisse, il mercatante mi dice: "Pigliali, pazza, ogni cosa si vòl pigliare"; e detto al facchino "Ella ne goderà per amor suo", dopo alcune risa che non andavano troppo in giuso, rimase tutto sopra di sé, e io scuotendolo gli dico a che si pensa: lo imperadore non che il suo imbasciadore non saria per averne pure un bascio, "e più stimo le scarpe vostre che mille migliaia di ducati", ed egli, ringraziatami assai, se ne va ad alcune sue faccende.
Intanto ordino che quelli miei sbricchi venghino a quattro ore: che alle quattro ore usavamo di cenare insieme, e trovato un ragazzo ribaldo e maladetto, bene in ordine, con un pezzo di torchio in mano, e stando indietro gli sbricchi turati, lo féro battere alla mia porta e venuto di suso, salutatami spagnolissimamente, dice: "Signora, il signore imbasciadore viene a far riverenza alla vostra Altezza"; e io gli rispondo: "Lo imbasciador mi perdonerà perché sono obligata a questo imbasciador che tu vedi", e ciò dicendo metto la mano in su la spalla al mio uomo.
Il ragazzo tornato fuora, stato un poco ribatte; e non gli volendo far aprire odiamo dirgli: "Il mio signore, caso che non gli apriate, farà gittare la porta in terra"; per la qual cosa, fattami alla finestra dico: "Il tuo signore mi ammazzi e mi abbrusci e mi ruini a suo piacere, che solo amo uno che mi ha fatto quel che io sono per sua grazia: per lui, bisognando, vo' morire".
In questo eccoti i farisei alla porta, che erano cinque o sei e parevano mille, e uno d'essi con voce imperiale mi dice: "Putta viegia, tu te ne pentirai; e quel gallina-bagnata che ti gratta la schiena, giuro a dios che lo mattaremo".
"Voi farete ciò che poterete" rispondo io, "e non fate atto da signore a cercare di sforzare le persone"; e volendo dire altro, il mio baccellone mi tira la veste e dice: "Non più, non più, se non vuoi che io sia tagliato a pezzi dagli Spagnuoli"; e tiratami dentro, mi rendé più grazie per la stima che mostrai di far di lui, che non rendeno quelli che escono di prigione ai rioni che ne gli cavano per la festa di mezzo agosto.
E la mattina mi fece una veste di raso ranciato gloriosa; e non lo aresti colto fuora dalla avemaria in là se gli avessi dato un reame, tanto era impaurito degli Spagnuoli, dubitando che lo imbasciatore non gli fesse fare un Xse in sul volto; e a ogni proposito diceva: "Ti so dire che la mia tale tratta ben questi imbasciatori".
ANTONIA.
Perché dicea così?
NANNA.
Perché gli dava ad intendere che ne avea piantati nove sotto una scala di bel gennaio, facendogli stare ivi fino al dì ad aspettarla; che io gli giurava: "La tal notte che tu dormisti meco il tale se lo menò in cantina; la altra poi, il cotale corteggiò il pozzo del cortile"; ed egli allegro.
E acciò che io non avessi cagione di farmi imbasciadrice, mi raddoppiò i presenti dicendo a ciascuno: "Io le sono obligato e basta".
ANTONIA.
Belle astuzie.
NANNA.
Bella è questa: io dormiva spesso con uno squassa-pennacchi che, quando si gli diceva "Guàrdati dalla tale" egli entrava in sul dire; "Io ah? a me, ah? Nella guardia di Siena, di Genova e di Piacenza ne ho fatte quelle poche; i miei non son danari da puttane, non per Dio".
E così vantandosi, mi accorgo di dieci scudi che egli ha in borsa, e gliene averei potuti tòrre la notte, e in cambio d'essi lasciandoci carboni: ma gli ebbi come intenderai.
Egli si stava un dì in casa mia, tutto rappreso dal martellar che gli faceva il core per avere io accennato di essermi imbertonata di uno altro; e vedendolo star così, me ne vado a lui; e mesegli le mani nella barba e datogli due tiratelle dolci dolci, gli dico: "Chi è la tua putta?"; e così dicendo mi gli pongo a sedere in collo, e allargandogli le cosce con un ginocchio lo feci tutto risentire; e basciandogli il viso, muove a dirmi: "E' si sia"; e taciuto con un sospiro che mi fece vento, tanto fu grande, lo abbraccio, lo accarezzo sì bene che tutto lo ritornai in sé.
E mentre gli dico "Voglio che istanotte dormiamo insieme", la porta è percossa da uno che veniva ad arte; e fattasi la fantesca alla finestra, mi dice: "Signora, egli è il maestro"; "Dì che venga suso", le rispondo io; ed egli, venuto, mi chiede dieci scudi che gli restava a dare di un cortinaggio; e oltra di ciò mi prega che faccia tosto, per aver da fare; onde io dico alla fantesca: "Piglia questa chiave, e di quelli scudi che sono nel cofano dàgli i suoi dieci".
Ed ella, gita ad aprirlo, lascia me a lisciare la coda al gattone che stava in su le astuzie di uomo pratico; e standolo ad incantare, anzi avendolo già incantato, il maestro mi sollecita; e io avendole detto più volte "Spàcciati, bestia", udendola borbottare mi lievo suso; e andata da lei, la trovo tutta occupata intorno al cofanetto che non poteva aprire: perché, sì come il maestro venuto per i denari non era di paragone, così la chiave non era del forzieretto.
E facendo vista che ella la avesse guasta, le salto a dosso con maggior gridi che pugna; poi dimandando da romperlo, non si trovò mai il rompitoio; onde mi volto allo astuto e gli dico: "Di grazia, se avete dieci scudi dategliene: che or ora lo romperò o lo scasserò, e riaretegli".
ANTONIA.
Tu gli davi del voi nelle cose di importanza, ah! ah! ah!
NANNA.
Al primo la mano fu allo aprir della borsa; e gittatogli là, disse: "Tògli, maestro, e và con Dio".
E dando io di calcio al forziere per volerlo spezzare, egli mi dice: "Manda per un magnano e fallo aprire, che non ci è fretta"; e mi dava del tu parendogli che io fussi diventata tutta dei suoi comandi per la prestanza fattami.
ANTONIA.
Gocciolone.
NANNA.
Lasciato il trarre dei calci, mi gitto seco nel letto con intenzione di non dargli la imbeccata: e appunto mi si recava in braccio, quando un picchiar forte, che aspettava per piantarlo, mi fece levar suso, tirandomi egli e pregandomi acciò non andassi a veder chi fosse quello che mi batteva la porta; e gita alla gelosia, veggio che è un monsignoretto con un cappello inviluppato in una cappa, sopra una mula; e chiamatami giuso, proferendomi la groppa, io la accetto; e tolto la cappa del suo famiglio, sendo delle altre cose vestita da ragazzo (che così vestiva quasi sempre), me ne vado seco.
Onde il cozzone di puttane, non pur di uomini, squarciato un mio ritratto, che era appiccato nella mia camera, per vendetta, se ne partì come un giocatore dalla baratteria sendogli detto cattivo.
Mi si era scordato: egli rompeva le casse per pagarsi, ma la mia fante gridando "Alla strada, alla strada", fece che se ne andò tutto spennacchiato, sì per le persone corse, sì per il forzieretto che egli aprì, dove trovò unguenti e unzioni per i mali che potessero venire.
Ma nel contarti i miei andari interviene a me come alla peccatrice che vuol fare una confessione generale e dirne quanti ne fece mai: che tosto che ella è ai piedi del frate, non si rammenta della metà.
ANTONIA.
Dimmi quelle cose che ti ricordi, che per la via d'esse misurerò le dimenticate.
NANNA.
Così farò.
Un certo pinchellone, che di una sua vigna che avea al mondo postosi cento ducati in cassa, si cacciò in capo di volermi per moglie, e accennato di ciò un mio barbiere, me ne fece dare un motto: e udendo io dei cotanti che egli avea per quello che me ne parlò, lo attaccai nella speranza talmente che, tenendosi certo di avermi, mi comparse in casa.
E accarezzandolo molto feci sì che in un mese, con quei cento ducati, mi fornì i letti, la cocina e la casa di tutto quello che i letti, la cocina e la casa avevano di bisogno, e datogli una o due volte merenda, e non più, coltagli la cagione del petorsello a dosso, con un "testa di cavallo", con un "gaglioffo, furfante, spilorcio, goffo, ignorante", gli diedi della porta nel petto.
E accortosi dello errore suo, il disgraziato si fece frate dal collo torto: e io allegra.
ANTONIA.
Perché?
NANNA.
Perché acquista grandemente una puttana quando può vantarsi di avere fatto disperare, fallire o impazzare altrui.
ANTONIA.
Sanza invidia.
NANNA.
Quanti denari ho io guadagnati con mettere in mezzo questo e quello! In casa mia cenava spesso spesso gente, e dopo cena, venute le carte in tavola, "Orsù" diceva io, "giochiamo duo giuli di confetti, e a chi viene, poniamo caso, il re di coppe, paghi"; e così, perduti e comperati i confetti, le persone che, viste le carte, tanto si ponno tener di non ci fare quanto una puttana di non farne, cavati fuora denari, cominciavano a far da dovero: intanto comparsi duo barri con volto di sempliciotti, fattosi pregare un pezzo pigliate le carte più false che i doppioni mirandolini, balordon balordone tiravano a sé i denari dei convitati, accennandogli io del giuoco aveano in mano, parendomi poco la falsità delle carte.
ANTONIA.
Queste son burle.
NANNA.
Per duo ducati feci intendere a uno come il suo nimico veniva due ore inanzi dì solo solo a corcarsi meco: che appostato da lui, fu tagliato a pezzi.
ANTONIA.
Un pizzico di vespa.
Ma dimmi, perché ci veniva due ore inanzi dì?
NANNA.
Perché in quella ora si partiva da me uno altro che non ci poteva restar più.
Ma tu ti credi forse che si bene dormiva uno amoroso, che fosse solo a fregarmela, ah? Io mi levai mille volte da lato al mercatante, fingendo scorrenza di corpo o di stomaco, e giva a contentare questo e quello nascoso per casa e la state, incolpando il caldo, gli usciva da canto in camiscia e passeggiato per la sala un poco, mi appoggiava in su la finestra parlando con la luna con le stelle e col cielo: onde me ne toglieva talvolta due così dietrovia per uno spasso.
ANTONIA.
Tutto è perduto quello che si lascia.
NANNA.
Non c'è dubbio.
Or béccati questa: avendo io stangheggiato un dieci o dodeci amici che non potevano più darmi tanto gli aveva scolati deliberai smugnergli a fatto.
ANTONIA.
Con che sottigliezza?
NANNA.
Io dava le mele e il finocchio a uno speziale e a un medico dei quali mi poteva fidare; e però gli dissi: "Io voglio fingermi ammalata acciò che i miei belli-in-casa mi guarischino: e voi medico posta che mi sarò in letto, fatemi spacciata e ordinate medicine di valuta, tu spiziale le scrive al libro, e mandami in cambio d'esse quello che ti pare"
ANTONIA.
Io ti afferro: tu con tal via grappasti tutti i denari che dai tuoi amanti si davano al medico e allo speziale, che poi te gli rendevano.
NANNA.
Tu hai del buono negli intendimenti.
Fu cosa da smascellare quando, cenando con essi, fingo una ambastia: e caduta su la tavola, mia madre (che sapea la malizia) spaurita mi sfibbia; e portatami in sul letto aiutata da loro, mi piangeva per morta.
Io risentita caccio un sospiro e dico: "Oimè, il core".
A cotal voce tutti gridaro: "Non è niente, son fumosità che vengano dal cerebro"; e io, con un "Mi sento bene io come sto" ricaggio in angoscia.
Per la qual cosa duo di loro volaro per il medico: che venuto e presomi il braccio con duo dita, pareva un che toccasse i tasti del manico del liuto, e destatami con i suoi aceti rosati, disse: "Il polso è ito via".
E uscito della camera, parte dei miei crede-il-tutto consolavano mia madre che si volea gittar via, e parte stavano intorno al medico che scriveva la ricetta per mandarla alla speziaria: che, finita di scriver, la portò un di loro in persona, e in cambio d'essa venne con le mani impacciate di cartocci e di ampolle.
E ordinato il medico quello che si dovesse fare, se ne partì; e mia madre durò con gran fatica a mandargli a casa, perché volevano sanza spogliarsi vegghiarmi.
E venuta la mattina, fur tutti da me; e ritornato il medico, inteso che la notte era stata per passare, ordinò che trovasseno .XXV.
ducati veneziani per far non so che stillamenti, onde un corrivo, non dando cura che scemassero per bollire, gli diede a mia madre che gli mise in còrbona: e poté gracchiare il goffo, che non gli riebbe mai più.
Insomma, fra le medicine di riobarbaro, i siroppi, le pittime, i cristei, i manuscristi, i giulebbi, le onzioni, il pagamento del medico e le legne e le candele, mi vennero nelle mani una borsa piena di scudi.
ANTONIA.
Non ti disfacevi tu a stare in letto sendo sana?
NANNA.
Mi ci sarei disfatta se ci fusse stata sola: il medico mi stropicciava le spalle una notte, e lo speziale mi faceva le fregaggioni un'altra.
E al guarir mio i capponi volavano pelati pelati e i vini gentili: non ci rimanendo canova di prelato niuno che non fusse sverginata per me.
ANTONIA.
Ah! ah! ah!
NANNA.
Il mercatante che ti ho detto, sanza dirmelo mi diceva la gran volontà che aveva di un figliuolo: onde io, presa una certa commodità, mi faccio trista trista, e mattina e sera mi storceva e mi dimenava; e mangiando, dei tre bocconi ne sputava quattro, dicendo: "Che cose amare son queste?" e ciò detto stava per recere.
Il buon da poco, confortandomi, diceva: "Oh Dio volesse...", e qui si taceva.
Io che mangiava da zappatore quando egli non ci era, tuttavia in sua presenza, perdendo più il gusto, venni a non assaggiarne boccone, e alla fine fingendo capogirgli, doglie di corpo, mal di madre, ardori di reni, e dolendomi che 'l mio tempo non venisse a tempo, discopro per via di mia madre che sono gravida: e cotal cosa confermò il medico mio segretario.
Onde il caca-stracci, pieno di letizia, si dà al farsi dei compari, a ingabbiare capponi, a fornirsi di pezze, di fasce e di balia; né ci appariva uno uccelletto, né un frutto primaticcio, né un fiore che non carpisse suso per me acciò non la facessi segnata; e non sopportando che mi mettessi le mani alla bocca, mi imbeccava con le sue, sostenendomi nel rizzare e nel pormi a sedere.
Ed era da ridere quando piangeva udendomi dire: "Se muoio in parto, ti raccomando il nostro figliuolo".
E feci testamento, nel quale lo lasciava erede del mio morendo; onde egli, per tutto mostrandolo, diceva a ciascuno: "Leggete qui, leggete qua, e poi mi dite se io ho ragione di adorarla".
E intertenutolo con tal ciancia un tempo, un dì mi lascio cadere alla sbardellata; e fingendo di essermi sconcia, gli faccio portare in un catino di acqua tiepida una figurina di carne di agnellino non nata che averesti detto che fosse una sconciatura: che quando la vide, cadendogli giù le lagrime, ne fece un lamento grande; e raddoppiava i gridi nel dirgli mia madre che era maschio e che gli simigliava.
E spese non so quanti scudi in farlo sotterrare; e lo facemmo vestir di nero, disperandosi del battesimo che non aveva avuto.
ANTONIA.
Chi fu il padre della Pippa?
NANNA.
Fu un marchese in quanto a Dio; in quanto al mondo, egli non si vuol dire: sì che ragioniamo d'altro.
ANTONIA.
Come ti piace.
NANNA.
Mi venne fantasia di trempellare il liuto, non perché ne avessi voglia, ma per parere di dilettarmi delle virtù: ed è certo che sono lacciuoli che si tendono agli sciocchi le virtù che imparano le puttane; e costano più care che i finocchietti, le ulive e le gelatine che danno gli osti.
Puttana che vada in su le canzoni e in sul cantare al libro, vattici scalza.
ANTONIA.
Ogni cosa è con inganno al mondo.
NANNA.
Sopra tutte le altre ebbi maniera in farmisi affare ogni frascheria, tirando lo aiuolo a una chiosa (disse Margutte), né dormì mai niuno meco che non ci lasciasse del pelo.
Né ti credere che camiscia, né scuffia, né scarpe, né cappello, né spada, né bagattella niuna che mi rimanesse in casa si vedesse mai più: perché ogni cosa è robba, e perciò ogni cosa fa robba, e acquaiuoli, vende-legne, vende-olio, quegli dagli specchi, quei dalle ciambelle, quelli dal sapone, latte e gioncata, calde arroste e lesse, fino alla anfusaglia e ai zolfanelli, tutti mi erano amici e facevano a gara in appostare che fussero meco un monte di persone.
ANTONIA.
Perché lo facevano?
NANNA.
Perché fattami alla finestra per ogni cosa, comperando d'ogni cosa, facessi pagarmi da loro ogni cosa.
E venisse chi volesse a corteggiarmi, che era forza a spendere un giulio, un grosso e un baiocco; perché veniva in campo la mia fantesca e dicevami: "Le cordelline delle fodre dei guanciali non sono bastate a mille miglia"; e io dato un bascio al primo che mi veniva nelle mani, diceva: "Datenele un giulio", e saria stato ben notato per pidocchioso quello che non lo avesse fatto.
Dopo la fantesca, veniva via mia madre con le mani piene di lino, dicendo: "Se tu te lo lasci uscire di mano, non ti imbatterai mai più a così buona spesa", e io datone due a uno altro, da quello mi si pagava il filato.
Partita la turba e venuta gente nuova, faccio dire che sono accompagnata, aprendo a uno che venga solo: il quale (fattolo diventare un guazzetto cotto al fuoco dai miei basci) sforzava con sì bel modo che il dì propio mi mandava o coperta di letto di seta trapunta, o spalliera, o quadro di pittura, o altro che io sapeva ch'egli avesse di bello: per lo qual dono gli prometteva, sanza esserne richiesta, che venisse a dormir meco.
Onde mandatami una cena onorevole, quando veniva per goder d'essa, gli faccio dire che dia un poco di volta e torni; ed egli datola, ritorna alla porta: e la fante gli dice "Un poco poco ancora"; ed egli stato duo pochi pochi, ribatte: e non trovando chi gli risponda, si metteva poi sul bravare "Puttana, porca, al corpo dello intemerato e del consagrato che te ne pagherò".
E io che alle sue spese cenava con uno altro, a ridere; e ridendo diceva: "Frappa quanto sai, che alla barba l'averai".
ANTONIA.
Come te la perdonava egli poi, se era persona niente di conto?
NANNA.
Fusse che si volesse, egli si stava duo dì in sul tirato, e non potendo più raffrenare il polledro, mi facea intendere che vuol dirmi una parola; e io gli rispondo: "Mille, non che una".
E apertogli, ne veniva a me tutto sbuffante, con dirmi: "Non lo averei mai creduto"; e io dico: "Anima mia, se lo vuoi creder, credimelo: io non amo, non mi piace e non ho a cuore se non te; se tu sapessi, se tu sapessi quello che mi importò quella sera andarmene fuora di casa, tu mi lauderesti; e se non piglio sicurtà di te, di chi l'ho io a pigliare?".
E ivi lascia trovare a me iscuse d'essere ita a casa di qualche avvocato, o procuratore o ufficiale, per conto di qualche lite grande.
E dopo questo mi gli lasciava cadere con le braccia al collo; e piantato il suo giglio nel mio orto, gli cavava il cuor del corpo, non che lo sdegno dello animo: in modo che non si partiva da me, che di nuovo in sul mio canto lo faceva sonare.
ANTONIA.
Si erra forte a non farti maestra della scuola.
NANNA.
Per tua grazia.
ANTONIA.
Per tua virtù pure.
NANNA.
Per tua grazia pure.
Ma odi con che novella mi feci quasi ricca.
Un gentiluomo morto di me, volendomi menar seco per duo mesi a certe sue possessioni, mi fece pensare a dar voce di girmi con Dio; e mandato per un giudeo, fatto mercato di tutte le massarizie, gliele vendei non sanza crocifiggimento dei miei seguaci: e allogai i denari in un banco, sanza saputa di essi raschio col gentiluomo.
ANTONIA.
Perché vendesti tu le massarizie?
NANNA.
Per farle di vecchie nuove; e che sia il vero, ritornata che fui, correano a provedermene come le formiche ai semi.
ANTONIA.
Certo le malie che gli fate ai meschini son cagione che vi credano.
NANNA.
Non nego che non ci si usi ogni arte per accecargli, facendogli mangiare del nostro sterco e del nostro marchese.
E ci fu una, che non le vo' dar nome, che pensandosi di far corrersi dietro uno, li dè a mangiare una frotta di croste di francese, del quale ella era piena.
ANTONIA.
Ohibò!
NANNA.
Tu odi.
Con una candela di grasso d'uomo acceso ho provato a riscaldare un ben bene di fatti miei: ma alla fine questi tuoi incanti con erbe secche alla ombra, con funi di impiccati, con unghie di morti, con parole diaboliche, sono una frulla a petto allo incanto che ti direi se fosse lecito dirlo.
ANTONIA.
La coscienza di fra Cappelletto è la tua.
NANNA.
Per non parere ipocrita, ti dico che ponno più due meluzze che quanti filosofi, strologi, archimisti e nigromanti fur mai; e ho provato quante erbe hanno duo prati e quante parole hanno diece mercati, e non potei mai movere un dito di cuore ad uno che non si può dire: e con un girar di chiappettine lo feci immattire così bestialmente di me, che se ne stupiva ogni bordello: che sendo avezzi a veder tutto il dì cose nuove, non si sogliono maravigliar di nulla.
ANTONIA.
Guarda guarda dove stanno i segreti dello incantare!
NANNA.
Egli stanno nel sesso, e il sesso ha la medesima forza a cavare i denari degli stinchi, che hanno i denari di cavare il sesso dei monesteri.
ANTONIA.
Se il sedere ha tanta forza quanto ne hanno i denari il sedere è più valente che non fu Roncisvalle, che ammazzò tutti i paladini.
NANNA.
Più valente per certo; ma seguiàno il nostro ragionare, e scrive questa astuzietta che importa assai.
Io aveva uno amico collerico come un liberale che non ha da spendere; e salendogli la mosca sul naso al primo, non si poteva tenere, per ogni cosa che non gli piacesse, di non dirmi villania; e passatagli la furia, mi si inginocchiava ai piedi con le braccia in croce chiedendomi perdonanza: e la gentilezza mia gli dava la penitenza nella borsa.
E vedendo che usciva di bello, lo feci venire in tanta disperazione con levarmigli da lato e gire a darme a uno suo rivale, che me ne diede parecchi, e ritornato in buone, credendosi di non placarmi mai più, perché io fingeva di non volerne udir mai più niente, mi spartì mezzo il suo: e così ebbe la pace da me.
ANTONIA.
Tu facevi seco come un poltrone che si ha fatto dar il mallevadore di non essere offeso, che fa ciò che puote al suo aversario per cavargli duo pugni delle mani onde caggia nella pena.
NANNA.
A punto era uno di quelli.
Ah! ah! ah! Mi gavazzo meco stessa pensando al predicatore che ha fatto sette peccati mortali fra tutte le genti del mondo, e la più trista puttana che viva ne ha cento: or considera quanti ne ha una di quelle che per coprire il suo altare scopre mille chiese altrui.
Antonia, la gola, la ira, la superbia, la invidia, la accidia e la avarizia nacquero il dì che nacque il puttanesimo, e se brami intendere come divora una puttana, informatene con i conviti, se tu vòi sapere con che rabbia si adira una puttana, dimandane il padre e la madre di Ogni-santi: sappi che se potessero, abbisseriano il mondo in manco tempo che lo fece messer Domenedio.
ANTONIA.
Mala cosa.
NANNA.
La superbia di una puttana avanza quella di un villano rivestito; la invidia di una puttana è divoratrice di se medesima come il mal francioso di chi lo ha nelle ossa...
ANTONIA.
Di grazia, non me lo ricordare, poiché mi è venuto e non si può saper donde.
NANNA.
Perdonami, che non mi rammentava che ti assassinasse.
La accidia di una puttana è più acuta e più accorata che la maninconia di un cortigiano che si vede marcito in tinello sanza un quattrino di entrata; la avarizia di una puttana è simile a un boccone che uno banchiere avaro ha rubato alla sua fame e ripostolo in cassa con gli altri.
ANTONIA.
Dove lasci tu la lussuria di una puttana?
NANNA.
Antonia, chi sempre beve non ha mai troppo sete, e rade volte ha fame chi sta sempre a tavola; e se qualche volta toccano una grossa chiave, il fanno per un certo appitito di donna pregna, che mangia uno aglietto e una susina acerba: e ti giuro per la buona ventura che cerco per la Pippa, che la lussuria è la minor voglia che elle abbino, perché le son sempre in quel pensiero di far trarre altrui il core e la corata.
ANTONIA.
Io te lo credo sanza giurare.
NANNA.
Tu me la puoi ben credere.
Ma gusta di grazia mille gentilezze che vo' dire quasi in un fiato.
ANTONIA.
Dì pur, suso.
NANNA.
Tre persone infra le altre mi amavano: un dipintore e duo cortigiani; e la pace che è tra i cani e tra le gatte era fra loro.
E appostando ognuno di venire a me quando credevano che niuno ci fusse, occorse che il dipintore fuor d'ora comparse alla mia porta; e percossola gli fu aperto.
Onde salito le scale, nel volermi sedere allato, ecco uno dei duo cortigiani che batte: io conosciutolo, faccio appiattare il dipintore, e venendo incontra allo amico che se ne vien suso dicendo: "Diavolo, fammici còrre quel poltrone del tuo dipinge-mitere-da-frustati" (non lo udendo però il dipintore), e nello sciogliere della altra parola, il terzo amante col suo spurgarsi mi fa cenno che io gli apra.
E fatto ascondere colui che l'avea col dipintore comparisce in campo quello che si fece aprire sputando, e di prima giunta mi dice: "Son venuto credendomi trovare qui teco un dei dui sciagurati: e se ce gli trovava, se ce gli trovava, il minor pezzo era la orecchia"; e non ti credere che se ben diceva così, che egli avesse dato nel culo a Castruccio.
E che sia il vero, sendo udito dal dipintore che non sapea del cortigiano ascoso, e dal cortigiano che non sapeva del dipintore, saltaro fuora l'uno e l'altro per far disdire il frappatore: che visto i duo, volendosi tirare indietro, pervenuto in capo della scala cadde giuso ed essi che non vedevano lume per la ira, si gli riversaro sopra.
Onde i tre che si odivano a morte, tutti in un fascio cominciaro una battaglia in terzo, così fatta che trasse molta gente al romore: ma non potevano entrare a spartirgli, perché tenevano con le spalle di modo chiusa la porta che non si poteva aprire.
Moltiplicando il grido e la gente di fuora, volse la sorte che il governatore passò di ivi; e fatto trarre lo uscio in terra, gli fece pigliare tutti e tre, così pesti sanguinosi come erano, e metterli in una medesima prigione: né sarebbeno mai usciti se non si accordavano fra loro come fecero.
ANTONIA.
Certo ella fu bella.
NANNA.
La fu sì bella, che io a tutti i forestieri la ricontava; e fui per farci far suso un canto di Gian Maria Giudeo: e nol feci perché non si dicesse che io fussi vanagloriosa.
ANTONIA.
Dio tel meriti.
NANNA.
Dio il faccia.
Ma sì come la narrata fece ridere ognuno, così questa che ti narrerò fece stupire ognuno.
Io nel colmo del favore che mi davano gli amici (bontà del mio essere buona robba), imaginai di farmi murare in Camposanto.
ANTONIA.
Perché non in San Pietro o in Santo Ianni?
NANNA.
Perché io volea movere altrui più a pietà col pormi dirimpetto a tante ossa di morti.
ANTONIA.
Ben pensasti.
NANNA.
Dato cotal nome, comincio a far vita santa.
ANTONIA.
Prima che tu mi conti altro: dimmi, perché tu entrasti nel fernetico di farti murare?
NANNA.
Per esserne cavata dai miei amanti a lor costo.
ANTONIA.
Sì, sì.
NANNA.
Cominciai a mutar vita, e di primo tratto sparai la camera, poi il letto, poi la tavola, e messami una vesticciuola di bigio, tolte via catene, anella, scuffie e altre pompe, mi diedi a digiunare ogni dì, mangiando però di nascoso, non negando in tutto il parlare, e non consentendo in tutto agli amici: ma di dì in dì gli avezzai a far sanza me, di modo che si disperavano.
E udendo io che la fama del voler farmi murare era sparta per tutto, tratto il miglioramento di casa e ripostolo in sicuro vado daendo alcuni stracci per lo amor di Dio, e quando mi parve il tempo, chiamati quelli che si credevano rimanere vedovi di me (che buon per loro se mi fussi più tosto perduta che smarrita) gli faccio porre a sedere: e stata così un poco rivolgendo nella fantasia alcune parole che avea messe insieme da me stessa, fattomi prima uscire dieci lagrimette degli occhi e non so come affermatole per le gote, dico: "Fratelli, padri e figliuoli, chi non pensa alla anima non l'ha, o non l'ha cara.
Però io che la ho cara e holla, convertita dal predicatore e dalla leggenda di santa Chiepina, e impaurita dallo inferno che ho visto dipinto, delibero di non andare a casa calda: e perché i miei peccati sono poco meno che la misericordia, perciò fratelli, e perciò figliuoli, io co me voglio murar questa carnaccia questo corpaccio, e questa vitaccia".
In questo i singhiozzi dei poveretti mormoravano nelle loro gole a modo che fanno in quelle dei divoti che non ponno ritener i sospiri entrando il frate nella Passione; e seguitando gli dico: "Non più pompe, non più fogge, non più robba: la mia camera parata sarà un passo di stanza ignuda; il mio letto sarà una bracciata di paglia sopra una asse; il mio mangiare, la grazia di Dio; e il mio bere, la acqua piovana; e la mia veste d'oro, questo"; e trattomi di sotto ove sedea un cilicio aspro, glielo mostro: e se ti ricordi del pianto che fanno gridando le buone persone nel mostrar della croce al Coliseo, vedi e odi il lamento dei miei appassionati, che soffocati dal dolore, parlavano col pianto.
Ma nel dirgli "Fratelli, vi dimando perdono", levaro un romore simile a quello che leveria Roma s'ella andasse un'altra volta a sacco (che Dio ce ne guardi).
E gittatomisi uno inginocchioni ai piedi, non potendo far frutto alcuno co' suoi proemi, si levò suso e diede venti volte col capo nel muro.
ANTONIA.
Che peccato.
NANNA.
Ora venne la mattina che dovea entrare nel muro, onde averesti giurato che tutta Roma fusse nella chiesa di Camposanto; e accozzando insieme tutta la gente che andò mai a veder battezzare Giudei, non ci arriverebbe a un pezzo; e sia certa che quelli che si hanno a giustiziare la mattina, e quelli che hanno a combattere, non pateno il dispiacere che patiro i miei ammartellati.
Ma che ti vo' menando per le cime degli arbori? Io fui serrata con bisbiglio di tutto il popolo: chi dicea "Iddio gli ha tocco il cuore"; chi dicea "La darà buono essempio a delle altre"; altri dicea "Chi l'averia mai creduto"; alcuno non volea credere vedendolo; alcuno se ne stupiva, e altri se ne rideva dicendo "Oh, s'ella ci fornisce il mese voglio essere crocifisso".
Ed era una compassione e uno spasso a vedere tutto il dì i meschini nella chiesa facendo a gara a parlarmi: e il Sepolcro non fu guardato dai Farisei come era guardata io da essi.
Pure, passati alcuni dì, pur pochi, comincio a dare orecchie ai preghi loro che a tutte le ore mi porgevano perché ne uscissi, con dirmi "Si può salvar la anima in ogni luogo".
E per dirtela in una parola, essi mi ritolseno e riforniro una casa di nuovo: onde io, scappata del muro, che ruppero come si rompe la porta del Giubileo cavato che il papa ne ha il primo mattone, diventai più sfacciata che prima; e tutta Roma ne smascellava; e coloro che antivideno il mio smuramento dicevano l'un l'altro ad alta voce: "Che ti dissi io?".
ANTONIA.
Io non so come sia possibile che una donna possa pensare ciò che tu pensasti.
NANNA.
Le puttane non son donne, ma sono puttane; e però pensano e fanno ciò che io feci e dissi.
Ma dove lascio una nostra saviezza che staria bene alle formiche che si proveggono la state per il verno? Antonia mia, sorella cara, tu hai da sapere che una puttana sempre ha nel core un pongolo che la fa star malcontenta: e questo è il dubitare di quelle scale e di quelle candele che tu saviamente dicesti; e ti confesso che, per una Nanna che si sappia porre dei campi al sole, ce ne sono mille che si muoiono nello spedale; e maestro Andrea soleva dire che le puttane e i cortigiani stanno in una medesima bilancia, e però ne vedi molti più di carlini che d'oro.
E che fa il pungolo che elle hanno anche nella anima, non pure nel core? le fa pensare alla vecchiezza, onde se ne vanno agli spedali, e scelta la più bella bambina che ivi venga, se la allevano per figliuola; e la tolgono di una età che appunto fiorisce nello sfiorire della loro, e gli pongono un dei più belli nomi che si trovino, il quale mutano tuttodì; né mai un forestiere può sapere qual sia il suo nome dritto: ora si fanno chiamare Giulie, ora Laure, ora Lucrezie, or Cassandre, or Porzie, or Virginie, or Pantasilee, or Prudenzie e ora Cornelie; e per una che abbia madre, come sono io della Pippa, un migliaio sono tolte dagli spedali.
E c'è dei guai a indovinare il padre di quelle che facciamo noi, se bene diamo il nome che sono figliuole de signori e di monsignori: perché son tanti vari i semi che si spargono nei nostri orti, che è quasi impossibile di appostare chi sia quello che ci piantò quello impregnativo; ed è pazza chi si vanta di conoscere di qual grano sia quello che nasce in un gran campo seminato di venti ragioni di grano, sanza che ci si ponga altro segnale.
ANTONIA.
È certissimo.
NANNA.
E guai per chi incappa nella mani di puttana che ha madre; tristo per chi ci si incapestra! perché, se ben sono vecchie vogliono la sua parte dello unto; onde bisogna che elleno mescolino co' tradimenti delle figliuole alcune ruberie per via delle quali possino pagare chi le sfami ben bene: però che sempre si intabaccano di giovani, e questo è costume delle vecchie, che a pena ponno trovar credito pagando.
ANTONIA.
Questa tua è una ragion viva.
NANNA.
A che pericolo va uno meschino sopra del quale fanno dispute la madre e la figlia riserrate in camera: che ladri ricordi, che crudeli avvisi, che traditori discorsi si danno e si fanno sopra la sua borsa! Il maestro della scrima che mi stava allato non insegnava tanti punti a quelli che imparavano, quanti ne insegna una di queste madri posticce e non posticce alle figliuole; e le dicono: "Come lo amico viene, digli la tal cosa e chiedegli la tale; bascialo nel tal modo e accarezzalo nel tale; adirati alla cotal foggia e rallegrati alla cotal via; non lo aspreggiare troppo e non lo accarezzar molto; e mentre motteggi seco, vattene altrove e mostrati penserosa; prometti e sprometti secondo che ti vien bene, aggrappando sempre o maniglie o anelli o collane o coronette: che al peggio non si può venire che al renderle".
Ed è così come ti dico.
ANTONIA.
Mi par quasi credertelo.
NANNA.
Credimelo pure affatto, e non quasi.
ANTONIA.
E tu sei stata così iniqua?
NANNA.
Chi piscia come le altre è come le altre: e perciò, mentre vissi puttana, fui puttana; né lasciai a fare cosa che dovesse una puttana, perché io non sarei stata puttana non avendo voglie di puttana; e se niuna meritò mai di essere addottorata per puttana, lo meritò la tua Nanna puttana, che in mantenermi sempre di .XXV.
anni fui maestra.
Prima si apposterebbe il numero delle lucciole di dieci state, che gli anni che ha una puttana: che oggi ti dice "Io ne ho .XX.", in capo a sei altri giura averne .XIX.
Ma parliamo delle cose importanti.
Quanti meschini ho io fatto tagliare a pezzi e ferire ai miei dì!
ANTONIA.
Di là ti voglio.
NANNA.
Di là mi averai, ingiubileata, indulgenziata e instazzonata di sorte che la mia anima non sarà delle ultime nello altro mondo, sì come il corpo non è stato delli ultimi in questo.
Madonna no, che io non sarò delle derietre, se bene aveva piacere di fare ammazzare gli uomini: perché io l'ho fatto per grandezza, parendomi vanagloria della mia bellezza lo udire dì e notte fulminare le spade per suo conto; e guai a chi mi faceva un guardo torto, che ne averei dato al boia per vendicarmene.
ANTONIA.
Il male è male, e il bene è bene.
NANNA.
A sua posta: l'ho pur fatto, e me ne pento e non me ne pento.
Ma chi ti potria dire l'arte che io avea in dar martello? Antonia, qualche volta mi ritrovava .X.
amorosi in casa, e compartendo i basci, le carezze, le parole e il pigliar per mano infra tutti, si stavano in paradiso: fino a tanto che veniva a me uno uccello nuovo, mantovanamente e ferraresamente carico di puntaletti, di nastretti e di bordelletti; il quale accolto da me come si accoglie uno che ti porta doni, piantati i miei galanti (disse la Genovese), il ritirava in camera meco, onde caduto il rigoglio a quelli che avea lasciati in sala, come cascano le mandoline pel freddo e i fiori per il vento, si udiva fra loro un sospirare sanza far motto, che pareano genti sforzate che si stringano nelle spalle per non poter fare altro; e dopo i sospiri, nascevano alcuni gridetti misti con morditure di dita, con pugni su la tavola, con grattature di capo, con spassaggiature mute e con qualche versetto cantato a stracci per disfogare la collera; e indugiando a tornare a loro, pigliavano la via della scala: e perché gli richiamassi indietro, dicevano qualche parola forte o con la fantesca o con altri; e dato una giravolta, trovando la porta chiusa, facevano una doglienza spasimevole.
ANTONIA.
La Ancroia non fu sì cruda.
NANNA.
Tu sei in su le pietosarie.
ANTONIA.
Ci sono e ci voglio essere.
NANNA.
Stattici se tu ci sei: che, pur mi ascolti, basta.
ANTONIA.
Ti ascolto, non dubitare.
NANNA.
Che spasso era a vedere, nel mezzo del piacere che si pigliava alcuno di me, darmi a piangere anza cagione niuna; e sendo dimandata "Perché piangete?", con certi singhiozzi e con certi sospiri aggoluppando le parole, dicea col pianto: "Io sono straziata, io non sono apprezzata da te, ma pazienza poiché piace alla mia fortuna pessima".
Altra volta, nel partirsi da me uno per due ore, gli dicea piangendo: "E dove andate? a qualcuna di quelle che vi trattano come meritate", onde il goffo se ne teneva che una donna stesse mal di lui.
Piansi anco spesso nel venire a me uno che non ci fusse venuto di quei duo dì per fargli credere che lo facessi per allegrezza di rivederlo.
ANTONIA.
Tu avevi le lagrime molto in sommo.
NANNA.
Fà stima che io fossi un terreno di quelli che zampillano fuora l'acqua tosto che son tocchi, anzi di quelli che la fanno sanza punto toccargli: ma non piansi mai se non con uno occhio.
ANTONIA.
O piangesi con un occhio?
NANNA.
Le puttane piangono con uno, le maritate con dui, e le moniche con quattro.
ANTONIA.
Questo sì che è bello a sapere.
NANNA.
Saria bello se te lo volessi dire: ti dirò bene che le puttane piangono con uno, e con l'altro ridono.
ANTONIA.
Questo è ben più bello; or dimmi, come?
NANNA.
Non sai tu, poveretta, che noi puttani (vo' dir così) abbiamo sempre il riso in uno, e nell'altro il pianto? E che sia il vero, per ogni cosellina ridiam, e per ogni cosellina piagnamo; e i loro occhi sono come un sole rannuvolato, che ora spunta fuora il raggio, e ora lo asconde: esse nel mezzo del pianto scoccano un risetto, e nel mezzo del riso scoccano un piantetto e questi così fatti risi e cotali così fatti pianti feci io meglio che puttana che venisse mai di Spagna; e con essi assassinai più uomini che non muoiono nella paglia per queste reverendissime corti.
E non ci è cosa più necessaria che i risi e i pianti che ti ho detto: ma bisogna fargli a tempo, perché scappato che ti è il tempo delle mani, non vagliano nulla, e sono come le roselline da Domasco che, se non son colte alla alba, perdeno l'odore.
ANTONIA.
Ogni dì si impara cose nuove.
NANNA.
Dopo i risi e dopo i pianti finti, vengono via le bugie lor sorelle, delle quali mi dilettai più che non fanno i villani delle frittelle, e ne dissi più che i Vangeli non dicono verità: e le murava sì con la calcina dei miei giuramenti nel credere di altrui, che avereste detto "Costei è la prima vangelista".
Io trovava le più ladre cose del mondo, e di miei parenti e di miei poderi e di mie fanfalughe imaginava ciance stranissime, e tirandole a mio proposito, diceva di averle sognate.
E teneva scritti in una tavoletta tutti i nomi dei miei guasti, e compartite fra essi le notti della settimana, mettea fuora il nome di colui che aveva a dormir meco: e se tu hai visto lo ordine che tengono i preti che dice le messe in certe tavolette attaccate in sagrestia, vedi me.
ANTONIA.
Io ho visti i preti, e parmi di veder te.
NANNA.
Sta bene adunque.
ANTONIA.
Ma che ha a fare la tavoletta dei nomi con le bugie che tu dicevi?
NANNA.
Ha da fare che i barbagianni, tenendosi sicuro per la tavoletta che gli notificava la lor notte, se ne trovavano ingannati spesso spesso: però che metteva lo scambio, come alle volte metteno anche le chiese nel farsi dir le messe.
ANTONIA.
A cotesto modo sì che le bugie sono a proposito con la tavoletta.
NANNA.
Ora odi questa, e serbatela per fartene onore.
Io accattai una catena di valore grande da uno sfegatato dei fatti miei, la quale tolse in presto da un gentiluomo che ne spogliò la moglie per servirnelo; e fu, il dì che me la posi al collo, quando il papa dà la dote nella Minerva a tante fanciulle poverine.
ANTONIA.
Il dì della Nunziata?
NANNA.
Della Nunziata, così è.
Io me la posi al collo in quel dì propio, ma ce la tenni poco.
ANTONIA.
Perché poco?
NANNA.
Perché giunta che fu nella chiesa, visto la calca grande pensai di farla mia, e che feci? Mi levai la catena dal collo e la diedi a una persona che mi era più segreta che il confessore; e spintami inanzi inanzi, sendo già nel mezzo della folta, caccio uno strido simile a quelli di coloro che si gli trae un dente in Campo di Fiore dal canta-in-banca, e voltandosi ognuno al grido, eccoti la buona Nanna a dir "La mia catena, la mia catena: il ladro, il mariuolo, il traditore", e ciò dicendo tutta mi pelo piangendo.
E tratto ciascuno allo stridere mio, tutta la chiesa si scompigliò, e corso il bargello al romore, prese non so che dsgraziato che gli parse alla cera che fusse stato il ladro della catena: e menatolo a Torre di Nona di peso, mancò poco che non lo fece impiccar caldo caldo.
ANTONIA.
Non ne vo udir più.
NANNA.
Sì, udirai.
ANTONIA.
Voglio udir ciò che disse quello che te la prestò.
NANNA.
Io uscita di chiesa tuttavia piangendo e battendo le palme, me ne venni a casa: e serratami in camera, dissi alla fantesca.
"Non sia chi mi dia noia".
In questo eccoti lo amico, volendomi parlare, non ci è ordine, onde egli batte e ribatte, chiama e richiama, dicendo: "Nanna o Nanna! aprimi, aprimi, dico; vuoi tu disperarti per questo?"; e io fingendo non lo udire, diceva né piano né forte: "Meschina, poveretta che io sono, sventurata, disgraziata, voglio entrare nelle Convertite, voglio ire ad affogarmi, e mi vo' far romita", e levatami su del letto dove mi giaceva, dico sanza aprir la camera, "Fantesca mia, và per un giudeo, che vo' vendere ciò che io ho, e con i denari pagheremo la catena".
E fatto vista la fantesca di volere andare per lui, il buono amante gridando forte "Apri, che sono io" gli apro e nel vederlo alzo le voci: "Oimè, che son disfatta" ed egli: "Non dubitare, che se credessi rimanere ignudo, vo' che tu te ne senta tanto, quanto io di questo scoppio che fo con le dita"; "No, no" rispondo io, "basta che mi si faccia tempo duo mesi".
Tu vai cercando: egli dormendo meco la notte l'ebbe sì dolce che non si parlò più di catena.
ANTONIA.
La tua era una utile bottega.
NANNA.
Un vecchio grimo, grinzo, rancio, lungo e magro, si imbriacò di me: e io della sua borsa, e potendo tanto godere del piacere amoroso quanto de le croste del pane uno sdentato, si passava in toccarmi, in basciarmi e in popparmi né per tartufi, né per carcioffi, né per lattovari poté mai drizzare il palo: e se pur pure lo alzava un poco, tosto ricadeva giuso non altrimenti che un lumicino che non ha più olio, che mentre mostra di raccendersi si spegne, né gli giovava menare né rimenare, né dito nel fischio né sotto i sonagli.
A costui feci io di matti scherzi; e fra gli altri, avendo ordinato un convito a molte cortigiane, il quale tutto si fornì co' suoi denari, di .XXX.
pezzi di argento che mi accattò per la cena, gliene rubai quattro; e facendone egli romore grande, gittandomigli in grembo dicea: "Babbo, babbo, non gridate, non ci fate fare il mal pro' il mangiar: togliete le mie veste e ciò che io ho, e pagategli"; e standosi cheto, tanto gli diedi del babbo nel capo, che rimase come rimane un padre a quel "pappà" che il figliuoletto gli dà nel core; e pagando i piatti del suo, gli bastò giurare di non accattar mai più cosa niuna per persona del mondo.
ANTONIA.
Tu eri delle fine.
NANNA.
Nel pigliare di una amicizia, fui sì dolce che ognuno che mi parlava la prima volta ne giva predicando; vien poi gustandomi: lo aloè è una manna.
Sì come nel principio che mi spiacessero le cose mal fatte, così in mezzo e in fine mostrava che mi spiacessero le ben fatte: perché a usanza di buona puttana avea gran piacere di seminare scandoli, di ordire garbugli di turbare le amicizie, di indurre odio, di udire dirsi villania e di mettere ognuno alle mani; sempre ponendo la bocca nei prencipi, facendo giudicio del Turco, dello imperadore, del re, della carestia, della dovizia, del duca di Milano e del papa avvenire; volendo che le stelle fossero grandi come la pina di San Pietro e non più, e che la Luna fusse sorella bastarda del Sole; e saltando dai duchi alle duchesse, ne parlava come io le avessi fatte co' piedi; e la grandezza che a pena sta bene a loro usava, che quella della imperadora è una favola: pigliando essempio d'alcuna che recatasi in suso i matarazzi di seta, faceva stare inginocchioni chi le favellava.
ANTONIA.
Le son dunque papesse?
NANNA.
La papessa, secondo che si dice, non faceva tante cacarie: meffé no che ella non le faceva; e non trovò il cognome che trovano esse: e chi si fa figliuola del duca Valentino, chi del cardinale Ascanio; e Madrema si sottoscrive "Lucrezia Porzia, patrizia romana", e suggella le lettere con un segno grande grande.
Né ti credere che i bei titoli che si danno da loro stesse le faccia migliori: anzi sono sì sanza amore, sì sanza carità e sì sanza pietà, che se san Rocco, san Giobbe e santo Antonio gli chiedesse la limosina, non gline dariano, se bene ne hanno paura.
ANTONIA.
Ribaldacce.
NANNA.
E sia certa che le cose che si gittano in fiume son meglio poste che a donarle a esse: che tanto ti sprezzano, donato che gli hai una cosa, quanto fingono apprezzarti prima che gliene doni.
Solo ci è di buono la fede che elle mantengano: che zingari, che frati di India? Insomma le puttane hanno il mèle in bocca, e in mano il rasoio e ne vederai due leccarsi da capo a piè: partite poi da sieme, dicono cose l'una dell'altra che spaventariano Desiderio e i preti dal buon vino che spaventaro la Morte con il ridersi di lei mentre che ella gli arrostiva e squartava.
Maldicenti fuor di modo, a ciascuno lo accoccano, e sia chi si voglia, e facciagli ben quanto sa, che niuno riguardano.
Elle staranno in berta con uno che si tiene loro favorito, ed è intertenuto da esse con centomilia "Signorie vostre": e partendosi per dar luogo ad uno altro che viene a corteggiare, nel partire ha mille onori di capo e di lingua; e tosto che egli scende la scala, gli è dato le spezie dietro, poi uscito dello uscio, un traditore non saria sì mal concio dalle loro parole; onde quello che rimane si dà ad intendere di essere la pincia della mamma.
ANTONIA.
Perché fanno così?
NANNA.
Perché a una puttana non parrebbe esser puttana se non fusse traditora con grazia e privilegio; e una puttana che non avesse tutte le qualità di puttana, saria cocina sanza cuoco, mangiar sanza bere, lucerna sanza olio, e maccaron sanza cascio.
ANTONIA.
Io credo che sia una gran consolazione di chi è ruinato per loro di vederle andare su la carretta, come andò quella dal capitolo che dice:
O Madrema-non-vuole, o Lorenzina,
o Laura, o Cecilia, o Beatrice,
sia vostro essempio ormai questa meschina.
Io lo so a mente, e lo imparai credendomi che fusse di maestro Andrea, e poi intesi che lo fece quello che tratta i gran maestri come tratta me questo mal traditore; né profumi, né ungiumi, né medicumi mi giovano: pacienza.
NANNA.
Ma io non so che più dirmiti, e so che ho da dirti più che non ti ho detto; io lo vado pensando.
Infine io ho le cervella in bucato, io le ho nella stufa, io le ho date a sgranare i fagiuoli nel saltarti di palo in frasca.
Dico che venne a Roma un giovane di .XXII.
anni, nobile e ricco, mercatante nel nome, proprio pasto da puttane; e venendo, al primo tratto mi diede nelle mani, e io fingo lo amore seco: ed egli tanto più stava in su le sue, quanto io meno stava in su le mie.
E cominciando a mandargli la fantesca quattro o sei volte il dì, pregandolo che si degnasse venire a me, si sparse per tutto che io era al pollo pesto e allo olio santo per lui onde chi diceva: "La puttana ci ha pur dato dentro, e con chi si è posta: con un che gli pute la bocca di latte, che la farà impazzire col suo non stare in proposito una ora"; e io queta tuttavia guastandomi di lui pelle pelle; e fingendo non potere mangiare e non poter dormire, ragionandone sempre e sempre chiamandolo, feci sì che se ne fecero scommesse circa lo avere io a trarre i sassi, anzi a morirmi per i suoi begli occhi.
Il giovane, cavandone alcune nottate e alcune buone cene, se ne giva vantando, mostrando a ciascuno una turchinetta di poco valore che io gli avea donata, e quando egli era meco, sempre gli diceva: "Non vi lasciate mancare denari, non ne affaticate altri che me, ciò che io ho è vostro, perché anche io son vostra", per la qual cosa egli se ne pavoneggiava per Banchi, vedendo essere mostrato a dito.
E accadde che standosi meco un giorno, venne da me un gran signorotto; e io fatto ascondere il giovane in uno studiolo, gli faccio aprire, e venuto suso e postosi a sedere, visto non so che lenzuola di rensa: "Chi le sverginerà" disse egli, "il vostro Canimedo?" (o Ganimede, io non me ne ricordo appunto), ed io gli rispondo: "Le sverginerà per certo, e lo amo e lo adoro, l'ho per uno iddio, e gli son servitrice e sarò in eterno, accarezzando voi altri per i vostri denari".
Ora stimalo tu se egli udendomi dir ciò gongolava; e partito colui da me, gli corro ' aprire: onde ne venne fuora che la camiscia non gli toccava il culo, e spasseggiando signoreggiava e me e la famiglia e la mia casa con gli sguardi.
Ma per venire allo amenne del mio paternostro, un dì volendomi trassinare a suo modo sopra una cassa, lasciatolo in frega, mi riserrai con uno altro: egli che non era uso a cotal burle, togliendo la cappa con una villania al vento, se ne andò fuora, aspettando che lo mandassi a chiamare come solea fare, e non vedendo comparire la colomba, gli entrò il diavolo a dosso, e venuto alla porta gli è detto: "La signora è accompagnata".
Onde rimaso come un topo intinto nello olio, col mento cadutogli sul petto, con la bocca amara, con le labbra asciutte, con gli occhi molli, col capo sul collo altrui, battendogli il core, si mosse passo passo, tremandogli le gambe come tremano a uno che pur allora si lieva della infirmità; e io per i buchi della gelosia vedendolo andare a scosse, ne ridea; e salutandolo non so chi, con un poco alzare di testa gli rispose.
E ritornato la sera, gli fo aprire: e ritrovandomi con una gran brigata a cianciare, vedendo che non gli diceva "Sedete", se ne diede licenza da se stesso; e postosi in un cantone sanza rallegrarsi di cosa piacevole che udisse, si stette fino a tanto che ognuno se ne partì.
E rimaso solo, mi dice: "Son questi gli amori? son queste le carezze? son queste le proferte?"; e io gli rispondo: "Fratel mio, bontà tua son diventata la favola delle cortigiane di Roma, e si fa le comedie della semplicità mia; e quello che mi cuoce più è che i miei amorosi non mi vogliono dare più nulla, dicendo: "Noi non vogliamo comprar la carbonata perché altri si mangi il pane unto"; e caso che tu voglia che io sia quella che tu istesso sai che ti sono stata, fà una cosa"; ed egli che a cotal parola alzò la testa come l'alza uno che si sta per giustiziare allo "scampa, scampa", giuracchiando di fare per amor mio gli occhi alle pulci, mi dice che chieggia a bocca; onde gli dico: "Io vo' fare un letto di seta, che costa con le frange, con il raso e con la lettiera, sanza la manifattura, centonovantanove ducati vel circa; e perché i miei amici veggano che tu fai con lo assai e ti impegni per darmi, togli tutto in credenza: e al tempo del pagamento lascia fare a me, che vo' che essi paghino se crapasseno".
Egli dice: "Questo non si può, perché mio padre ha fatto intendere per sue lettere che non mi si creda, che sarà a rischio di chi mi darà cosa alcuna"; e io voltatogli le spalle, lo mando fuor di casa.
E misoci un dì in mezzo, rimando per esso e gli dico: "Và trova Salamone che ti servirà dei denari sopra uno scritto di tua mano"; egli va, e dicendogli Salamone "Io non presto sanza pegno", ritorna a me; e raccontatomi il tutto, gli dico: "Và al tale, che ti darà gioie per detta somma, le quali compererà il giudeo di grazia"; ed egli via: e trovato quello delle gioie, convenutosi seco, gli fa lo scritto per duo mesi; e portate le gioie a Salamone, gliene vende e portami i danari.
ANTONIA.
Che vuoi tu dir per questo?
NANNA.
Le gioie erano mie: e riavuti i suoi denari, il giudeo me le riportò, e stato così otto giorni, mando per quello che gli diede le gioie sopra lo scritto di man sua, e gli dico: "Fà metter il giovane in prigione e giuragli sospetto fuggitivo"; onde essequito l'ordine, il mangione fu preso, e inanzi che ne uscisse pagò gli scotti a doppio, perché non usano gli osti vecchi né nuovi di dar mangiare a scrocco.
ANTONIA.
Io che fino a qui mi sono tenuta scozzonata, ti confesso di essere una cogliona.
NANNA.
Veniva i carnasciale, il quale è il tormento, la morte e la disfazione dei poveri cavalli, delle povere vesti, dei poveri imbertonati; e cominciando da un mio che aveva più volere che potere, sendo là poco dopo Natale, che le mascare vanno in volta, ma non se ne vede anco molte, pur se ne fanno, che poi moltiplicano di dì in dì come i poponi, che ne viene cinque o sei per mattina, poi dieci, dodici, e poi una cesta, poi una soma, poi ce ne è da gittare, dico che le mascare non fioccavano ancora quando il mio tutto-fumo mi dice, vedendomi stare come una che vuole essere intesa sanza parlare: "Voi non vi avete a mascarare?", "Io sono una guarda-casa" gli rispondo io, "e una stracca-gelosie; lascio mascararsi alle belle e a chi ha di che vestirsi", ed egli: "Domenica vo' che vi facciate mascara in su le fogge".
E io mi taccio così un pezzo, poi mi gli gitto al collo dicendo: "Cor mio, a che modo vuoi tu farmi bella mascara?", "A cavallo" mi dice egli, "vestita per eccellenza, e averò il ginetto del Reverendissimo, che a dirvi il vero il suo maestro di stalla me lo ha promesso", e dicendogli io "Appunto quello mi piace", lo metto in circa sette dì inanzi a quello nel quale faccio conto di mascararmi; e fattolo ritornare a me il lunedì, dico: "La prima cosa mi hai da provedere di un paio di calzette e di un paio di calzoni: e per non darti spesa, manderaimi i tuoi di velluto, che leverò via tutto il logoro e farò sì che mi serviranno, le calzette me le farai con poca poca cosa, e uno dei tuoi farsetti manco buoni, rassettato a mio dosso, mi starà benissimo".
Detto ciò lo veggio torcere, e masticare il "son contento", quasi pentito di avermi miso in sui salti, onde gli dico: "Tu lo fai malvolentiere; lasciamo stare: io non vo' più mascare"; e volendomene andare in camera, mi piglia e dice: "Avete voi questa fidanza in me?"; e mandato il servidore per le sue spoglie e per il sartore insieme, mi si acconciano per mio uso; e comperato il dì propio il panno per le calzette, mi si tagliano e mi si portano indi a duo giorni: sendo egli presente che aiutatomi a vestirle diceva: "Le vi stanno dipinte"; e io sotto i panni di maschio, fattomegli provare da maschio, gli dico: "Anima mia, chi compra la scopa può anco comperargli il manico; io vorrei un paio di scarpe di velluto".
Egli che non ha denari, cavatosi uno anelluzzo di dito, lo lascia in cambio del velluto: e datolo al calzolaio che sa la mia mesura, in un tratto mi si fanno.
Dopo questo gli cavo una camiscia lavorata d'oro e di seta, non pur della cassa, ma di dosso, e mancandomi la berretta, dico: "Dammi la berretta, e io mi provederò della medaglia"; ed egli caldo nel far dire di sé nel mascarar me, mi dà la sua nuova, e mittesene una che aveva disegnato darla al suo famiglio.
Or viene la sera che la mattina ho a ire in gestra: e chi lo avesse veduto occupato dintorno a me, averia detto: "Egli è il Campidoglio che mette in ordine il senatore".
E a cinque ore di notte lo mandai a comprarmi un pennacchietto per la berretta; poi ritornò per la mascara: e perché non era modanese, lo rimandai per una di quelle da Modena; poi lo feci andare per una dozzina di stringhe.
ANTONIA.
Dovevi pur fargli fare tutti i servigi in un viaggio.
NANNA.
Doveva, ma non volsi.
ANTONIA.
Perché mo'?
NANNA.
Per parer signora nel comandar, come io era nel nome.
ANTONIA.
Dormì egli teco la vigilia della tua festa?
NANNA.
Con mille suppliche ne ebbe una voltarella, dicendogli io: "Doman di notte lo farai venti non ti bastando dieci".
Ora venne l'alba, e prima che spuntasse il sole lo faccio levar suso e gli dico: "Và e fà governare il cavallo, acciò che subito desinato io possa montarvi suso"; ed egli si lieva, e levato si veste e vestito si parte, e partito trova il maestro di stalla, e trovato gli dice con parlar lusinghevole: "Eccomi qui".
Il maestro di stalla sta così, e non nega e non afferma; ed egli: "Come, volete voi essere la mia ruina?"; "Io no" risponde il maestro, "ma il Reverendissimo, mio padrone, adora il cavallo; e sapendo la natura delle puttane, che non riguarderiano Iddio, non che una bestia, non vorrei che si spallasse o rapprendesse, acciò che io non ruinassi me d'altra maniera che non ruinereste voi non lo avendo", ed egli a pregare e a ripregare, tanto che alfine il maestro di stalla gli dice: "Io non posso mancarvi; mandate per esso, che vi sarà dato"; e commesso al famiglio che lo governa che si gli dia, mi spedisce il suo servidore a staffetta: che contatami la diceria stata fra loro, se ne rise meco.
ANTONIA.
Gran traditori son questi famigli, certamente nimici dei lor padroni.
NANNA.
Non c'è dubbio.
Ma eccoti l'ora di desinare; io desino con lo amico, e appena gli lascio inghiottir sei bocconi, che gli dico: "Fà mangiare il garzone, e mandalo per il cavallo".
Io son ubbidita: il garzone mangia e va via; e quando io credo che venga col cavallo, ritorna senza; e giunto suso dice: "Il famiglio non me lo vuol dare, perché il maestro di stalla vuol prima parlarvi".
Appena finito la imbasciata, che il poveretto garzone si trova un piatto nel capo.
ANTONIA.
A che proposito gli diede il suo padrone?
NANNA.
Gli diede perché averebbe voluto che lo avesse chiamato da canto e fattagli la imbasciata nello orecchio, perché io non mi voltai non la avessi udita.
Io mi gli voltai e dissi: "Mi sta molto bene, molto ben mi sta, poiché mi ho voluto fare più bella mascara di quella che mi ha fatta la puttana di mia madre; io ne era certa di quello che mi interviene: tu non me ne farai più; matta son io stata a crederti e a lasciarmi mettere suso.
Mi fa peggio che si dirà che sono stata soiata, che del cavallo"; e volendomi egli dire "Non dubitare che il cavallo verrà", con un "lasciami stare" gli volto le spalle, onde pigliata la cappa e volato alla stalla, inchinandosi a ogni famiglio si fa insegnare il maestro di essa: e tanto lo scongiura, che il beato cavallo si ottiene.
E io che a ogni romor che udiva, credendo che fusse il cavallo, mi faceva alla finestra, veggio il famiglio che tutto sudato, con la cappa ad armacollo, viene a dirmi: "Signora, adesso adesso sarà qui".
E ciò detto, ecco uno che lo mena a mano, rinegando il Cielo per il saltellare che faceva tenendo tutta la strada.
Io nel comparir d'esso alla mia porta, mi sporgo quasi tutta fuora della finestra, acciò la gente che passava vedesse chi era colei che lo aveva a cavalcare; e mi godea dei fanciulli raccolti intorno al cavallo, perché dicevano a chi veniva: "La signora qui si fa mascara".
Giunto di poco il cavallo, giugne il mio amore, che tutto affannato e tutto allegro mi dice: "Bisogna mandar gli uomini"; dieci ne stavano a mia requisizione.
Io intanto gli do un bascio, e chiedendo il saio di velluto che la sera dovea portarmi il famiglio, il saio non ci è, però che lo imbriaco se lo era dimenticato: e se io non teneva il suo padrone, il da poco non ne faceva più; basta che gì per esso correndo, e me ne vesti': e nel legarmi le calze, adocchiate le cinte delle sue calze molto belle, gliene rubo con una parolina, prestandogli le mie non troppo vaghe.
Finito il mio addobbamento, nel quale andò più tempo che non va nel diventar ricca, con cento novelluzze e con cento vezzi fui posta a cavallo; e tosto che ci fui, lo innamorato solo, salito sopra un suo ronzino, si avvia meco: e presami per la mano, averebbe voluto che tutta Roma lo avesse visto in tanto favore.
E andando così, arrivammo ove si vendono le uova di fuora inorpellate e di dentro piene di acqua di fiume inrosata; e chiamato un facchino, ne toglio quante ne aveva uno che le vendeva; ed egli si svaligia di una collana che si faceva campeggiare al collo, e lasciala in pegno per le uova: che gittatole in un credo sanza proposito niuno, lo ripiglio per mano, e per essa lo tengo fino a tanto che incontro una frotta di persone mascarate e smascarate; e accompagnatami con loro, fattami bene in mezzo, lo lascio là goffo goffo.
E come io era in Borgo o in Banchi (fango a sua posta), sanza rispettar punto né 'l cavallo né 'l saio, faceva due carriere: e quattro o sei volte che io lo ritrovai il dì, gli feci quelle carezze che si fanno a chi non si vide mai; ed egli trottatomi alquanto dietro, non potendo raggiungermi col suo triccare, si rimaneva sopra il ronzino come un uomo di stoppa.
Venuta poi quasi la notte, cantando in compagnia di mille altre puttane e bertoni
E tremo a mezza state ardendo il verno,
mi lascio ritrovare e pigliar per mano dal disperato; e detto alla compagnia "Buona notte, buona notte, signori", con la mascara in mano, dico al mio giorgio: "Beato chi ti può vedere: tu mi lasciasti, e so bene io perché; a fare a far sia".
Il buon moccicone si scusa, e mentre vuol darmi il torto, capitiamo in Campo di Fiore; e fermatami a un pollaiuolo, tolto un paio di capponi e duo filze di tordi, dandogli a chi me gli porti a casa, dico: "Pagagli"; e bisognò che ci lasciasse un rubinetto che gli diede sua madre quando venne a Roma, che gli era a core quanto a me il pelarlo.
E giunti a casa, non ci essendo né candele, né legne, né fuoco, né pan, né vino (forse per non volere io che ce ne fusse), entro in collera; e racquetata dal suo andare a provederne, non ci essendo il suo famiglio che era ito a rimenare il cavallo (che fece giurare al maestro di stalla di nol prestar più, se venisse Cristo), mi gitto sul letto; e stataci un pochettino, ecco robba a iosa: e aiutando mia madre, si apparecchiò e cosse la cena in un sonare di campanelle.
E postici a tavola, appunto nel fine del mangiare odo uno che tosse e sputa; il quale tossire e sputare accorò il meschino: però che fattami alla finestra, conosciuto lo amico, mi avvento a lui e me ne andai seco lasciandolo tutta notte sanza mai chiudere occhio, a passeggiare per casa e a frappare di farmi e di dirmi.
E ben ne andò egli a riavere il saio che mi prestò, per il quale venne otto dì alla fila il suo famiglio prima che lo avesse.
ANTONIA.
La non fu troppo civile a farla a uno che ti aveva fatto tante cose per fartelo una notte a suo modo.
NANNA.
La fu civilità puttanesca, e non meno bella che quella di un mercatante da zucchero che lasciò fino alle casse per dolcezza di altro che di zucchero, e mentre durò l'amorazzo suo fino nella insalata mettevamo il zucchero.
E assaggiando il mèle che usciva della mia tu-mi-intendi, giurava che il suo zucchero era amaro a comparazione.
ANTONIA.
E però te lo gittò dietro.
NANNA.
Ah! ah! Mi ricordo vederlo impazzito nel mirarmela: egli la toccava, e rassodandosi nel maneggiarla, la assimigliava a una di queste boccucce che tengono serrate le figure delle donne di marmo che sono in qua e in là per Roma, e diceva che ella rideva come par che ridano le bocche d'esse.
E in verità lo poteva anco dire (benché non stia a me a lodarmi), perché io la aveva galantina al possibile, e ci parevano e non ci parevano i peli, ed era fessa sì bene, che non ci si conosceva il fesso: non troppo rilevata né troppo abbassata.
E ti do la fede mia che il zuccaraio mi ci diede più basci che non fece nella bocca succiandola come un uovo nato allora allora.
ANTONIA.
Furfante.
NANNA.
Perché furfante?
ANTONIA.
Per il mal che Dio gli dia.
NANNA.
Non gliene diede egli a farlo innamorare di me?
ANTONIA.
Non a mio modo.
NANNA.
Ora io non ti conto le cose minute, con le astuziette con le quali pelava altrui sanza che mi si vedesseno le mani; e usava il gergo per mezzano tosto che veniva a me qualche bue: e non intendendo ciò che si volesse dire "monello", "balchi", "dughi" e "trucca per la calcosa", erano assassinati come un villano dal parlar per lettera dei dottori.
E certamente il parlar furfantesco è degno da furfanti, perché per sua colpa si fanno mille furfantarie.
Ma lasciamiti dire nel modo che io burlai favellando alla toscana un balocco senese, pare a me.
ANTONIA.
Non poteva essere altro.
NANNA.
Egli sendoci venuto da poco in qua, mi manicava con gli occhi, e non vedeva mai la mia fantesca che non bottoneggiasse di me, talora diceva: "Questo cuore è della signora"; altra volta: "Che fa la signora, figlia bella?"; ed ella, rispondendogli "Fa bene al comando della Signoria vostra", gli faceva dietro i visacci.
E vedutolo un dì così di lungi, dico alla mia segretaria: "Và giù, e fagli pagare il fitto della strada che ci impaccia col passarci a tutte l'ore"; ed ella recatasi in su l'uscio, e mentre che egli vuole aprire la bocca per salutarla, dice forte forte: "Che possa rompere la coscia, acciò che non ci torni mai più, o! o! o! o! Appunto ei non si vede apparire, disgraziato, gaglioffo".
Il merendone spaventacchio delle altalene, le dice: "Che cosa è? eccomi qui al piacer vostro: io son servidore della signora sono"; ed ella, fingendo di non lo intendere, dice: "Quattro ore, quattro ore sono che mandammo il ladroncello a scambiare un doppione per dare un ducato di mancia al facchino che ha portato due pezze di raso cremisi alla mia signora, le quali le ha donato il prencipe della Storta, e non ci torna".
Il besso, che voleva essere conosciuto per liberale sì come si conobbe per corrivo, squinternata la borsa, le dice: "Or tolli, che adoro la signora adoro"; e le pose in mano quattro corone, facendo seco il grande.
Poi dicendo "Ella mi vuol bene, è vero?", la fantesca chiamata da me, sanza rispondergli se io gliene voleva o no, gli serra la porta sul viso: onde si rimase fuora come un cacciato dalle nozze ove era ito sanza esserci invitato.
ANTONIA.
Si gli fece il dovere al pazzacone.
NANNA.
Veniamo a quella da le gatte.
ANTONIA.
Che gatte saranno queste?
NANNA.
Io aveva debito con un vende-tele .XXV.
ducati, e non facendo pensiere di dargliene mai, carpii la via di uccellarlo.
E che feci? Io avea due gatte assai belle, e vedendolo venire alla finestra per i denari, dico alla mia fantesca: "Dammi una delle gatte, e tu piglia l'altra; e tosto che il telaiuolo giunge, gridando io che tu la scanni, finge di non volere; e io farò vista di storzar quella che averò in mano".
Appena dissi questo, che eccolo su.
ANTONIA.
Non batté egli prima la porta?
NANNA.
No, che la trovò aperta.
Giunto suso, io a gridare "Scannala, scannala", e la mia fantesca quasi piangendo mi pregava che le dovessi perdonare, promettendomi che non mangerebbe più il desinare; e io che parea rabbiosa, mettendo le mani nella gola alla mia, le diceva: "Tu non me ne farai più".
Il mio creditore-a-sue-spese, veduto le gatte, gliene venne compassione, onde me le chiede in dono; "Appunto", gli dico io, ed egli: "Di grazia, signora, servitemene per otto dì, e poi ve le aiuterò ammazzare, caso che non me ne vogliate donare o perdonargli".
E dicendo così mi toglie la gatta, facendone io un poco di resistenza; poi, strappata l'altra di mano alla fantesca, le da al fattorino che si menava dietro (avendonegli ella prima acconce in un sacco) e falle portare a casa sua.
E io gli dico: "Fate che dopo gli otto dì mi si rimandino, che le voglio ammazzare, le traditore"; e promesso di farlo, mi chiede i .XXV.
ducati: che col far sagramento di portàgliene fra dieci giorni fino a bottega, ne lo mando contento.
Passati i dieci e i quindici, ritornato chiedermegli, avendogli io un fazzoletto, rimescolandogli tuttavia dico: "Molto volentieri, ma vo' prima le mie gatte"; "Come le vostre gatte?" risponde egli, "elle si fuggiro su per i tetti tosto che si lasciaro per casa".
Quando che odo quello che sapea inanzi che io lo sapessi, con un viso di madrigna gli dico: "Fate che le gatte ritornino, se non le vi costeranno altro che .XXV.
ducati tignosi; le gatte son promesse, e si hanno a portare in Barbaria le mie gatte; le mie gatte, messer mio, hanno ritornar qui, qui hanno a tornare".
Il poveruomo appoggiato in su la finestra, vedendo per i gridi che alzava ragunar persone nella strada, sanza dirmi altro, come savio, la diede giù per la scala, dicendo: "Và, poi, e fidati di puttane".
ANTONIA.
Nanna, io ti vo' dire una mia fantasia.
NANNA.
Dimmelo.
ANTONIA.
La bellezza di questa dalle gatte è sì gentile, che per suo amore ti seranno perdonate quattro di quelle scommunicate.
NANNA.
Credilo tu?
ANTONIA.
Ci giuocherei l'anima mia contra un pistacchio.
NANNA.
Non sarà poco.
Uòh, uòh, uòh...
mi è caduto il ciamorro ..
uòh, uòh, uòh...
questa ficaia mi ha saputo tenere il sole molto male.
E non ci sarà ordine che ti narri di molti ch'io sciloppava di sorte che faceva credere loro che la sinagoga dei Giudei fosse in aria alla foggia che si dice che è l'arca de Macometto...
uòh uòh, uòh, uòh, ...
io non posso più fiatare, son già fioca, la scesa mi fa cader l'ugola.
ANTONIA.
Il noce suol far trista ombra, e non la ficaia.
NANNA.
Dimmi il parer tuo in tre parole secondo la tua impromessa, che io affogo...
uòh, uòh, uòh...
io sto male.
Mi sa peggio di non poterti contare come io riformava i miei amorosi, che se io avessi perduto non so che: fingendo carità inverso le lor borse, non voleva che si sfoggiasse in ricami, né in pasti, né in cose disutili, e ciò faceva perché i denari si serbassero pe' miei appetiti, e i goffi mi lodavano per discreta e amorevole alla robba loro.
Oimè, io crepo...
oh, oh, oh...; mi duole anco di non poter contarti quella dalle spalliere, con la quale ci feci stare chi le impegnò, chi l'aveva in pegno, colui che me le comperava, duo che stavano a vedere farne mercato, quello che me le portò a casa, e uno che si abbatté mentre che io le faceva appiccare in camera.
ANTONIA.
Deh, sfòrzati di contarmela; deh sì, Nanna, dolce Nanna, cara Nanna.
NANNA.
Egli accadé che messere aitamelo-dire, messe...
messer...
io muoio, non ci è ordine; perdonami, che te la dirò un'altra volta, con quella di monsignore appresso, il quale fuggì ignudo per tutti i tetti della contrada..., oimè, io spasimo, Anto...
Antonia mi...
mia, chò!
ANTONIA.
Maladetta sia la scesa e la salita, e questa gentil creatura del Sole che ci ha guasto il ragionamento.
E forse, che non ti volea dire, che non era da credere che il primo dì che entrasti nelle moniche avessi veduto tante cose, né manco ti credo che tu ti domesticassi col baccelliere così alla bella prima.
NANNA.
Io te lo dirò pure: io mi feci suora sendo mezza donzella; e circa lo aver veduto tante ciance in un tratto, credimelo che io vidi anco pe...
pe...
peggio, tossa ribalda, chò!
ANTONIA.
Sì, ah?
NANNA.
Sì, sì, sie.
Ma diraimi il parer tuo in tre parole, come mi promettesti?
ANTONIA.
Per tornare alla promessa che io ti feci di risolverti in tre parole, non la posso osservare.
NANNA.
Perché? eh, eh, chò!
ANTONIA.
Perché era cosa che lo poteva fare in quel punto ch'io dissi di farlo, perciò che noi donne siamo savie alla impensata e pazze alla pensata.
Pure ti dirò il mio parere, del quale piglia la rosa, e lascia star la spina.
NANNA.
Dillo.
ANTONIA.
Dico che, sbattuto una parte di tutto quello che tu hai detto, e credendoti lo avanzo, perché sempre si aggiunge bugia alla verità, e qualche volta per far bello il ragionare s'inorpella di fanfalughe...
NANNA.
Dunque mi hai per bu..., uòh, uòh..., per bugiarda?
ANTONIA.
Non per bugiarda, ma per trascurata nel favellare, e credo che tu voglia male alle moniche e alle maritate per altro, basta che io ti faccio buono che ci sieno più cattive fra esse che non ci doverebbeno essere.
Delle puttane non ne fo scusa.
NANNA.
Non ti posso...
uòh, uòh...
rispondere, e ho paura che questo tossire non diventi catarro.
Spàcciati, di grazia, nel darmi il tuo consiglio.
ANTONIA.
Il mio parere è che tu faccia la tua Pippa puttana: perché la monica tradisce il suo consagramento; e la maritata assassina il santo matrimonio; ma la puttana non la attacca né al monistero né al marito: anzi fa come un soldato che è pagato per far male, e facendolo non si tiene che lo faccia, perché la sua bottega vende quello che ella ha a vendere; e il primo dì che uno oste apre la taverna, sanza metterci scritta s'intende che ivi si beve, si mangia, si giuoca, si chiava, si riniega e si inganna: e chi ci andasse per dire orazioni o per digiunare, non ci troveria né altare né quaresima.
Gli ortolani vendono gli erbaggi, gli speziali le speziarie, e i bordelli bestemmie, menzogne, ciance, scandoli, disonestà, ladrarie, isporcizie, odi, crudeltade, morti, mal franciosi, tradimenti, cattiva fama e povertà ma perché il confessore è come il medico, che guarisce più tosto il male che si gli mostra in su la palma che quello che si gli appiatta, vientene seco alla libera con la Pippa, e falla puttana di primo volo: che a petizione di una penitenzietta, con due gocciole di acqua benedetta, ogni puttanamento andrà via dell'anima; poi, secondo che per le tue parole comprendo, i vizi delle puttane son virtù.
Oltra di questo, è bella cosa a essere chiamata signora fino dai signori, mangiando e vestendo sempre da signora, stando continuamente in feste e in nozze, come tu stessa, che hai detto tanto di loro, sai molto meglio di me; e importa il cavarsi ogni vogliuzza potendo favorire ciascuno: perché Roma sempre fu e sempre sarà, non vo' dir delle puttane per non me ne avere a confessare.
"Tu parli bene, Antonia" disse la Nanna, "e tanto farò quanto mi consigli".
E ciò detto fiocamente, fatta svegliare la fantesca che dormì sempre mentre ragionaro, ripostole in capo il canestro, e il fiasco vòto in mano, data alla Antonia le tovagliette che la mattina avea portate sotto il braccio, se ne ritornaro a casa.
E mandatosi per alcuni peneti per la Nanna, guardata la sua tossa dallo aceto, con un pan bollito si cenò, dando però altro alla Antonia, che stata seco la notte, la mattina per tempo si ritornò ai suoi negozietti co' quali trampellava la vita; che venutale a noia per la sua povertà, si confortava co' ragionamenti della Nanna, rimanendo stupita nel pensare al male che fanno tutte le puttane del mondo: che sono più che le formiche, le mosche, le zanzale di venti stati, quando ella sola era creditrice di tanto, e anco non avea detto la metà.
Il fine della terza e ultima giornata.
Signor Pietro Divinissimo.
Perché i frutti del vostro mirabile ingegno son tali che ciascuno gentile spirito gli cerca come si ricercano le cose di gran pregio, se io ho tolto presunzione di fare del vostro Dialogo, imprimendolo commodità a certi mie' padroni e amici, la Signoria vostra mi doverà perdonare tanto più se non lo ritrovasse corretto come uscì delle sue mani.
Perché quello che manca non è stato per nostra negligenza ma per la carestia che è in questo Paese degli impressori che abbiano bene cotesta lingua.
Come si sia per non mancare ad alcuni che ci ponno comandare egli si è dato alle stampe di questo mese di aprile .MDXXXIV.
nella inclita città di Parigi.
Artium et Medicinae Doctor>
...
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