RAGIONAMENTO, di Pietro Aretino - pagina 23
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E misoci un dì in mezzo, rimando per esso e gli dico: "Và trova Salamone che ti servirà dei denari sopra uno scritto di tua mano"; egli va, e dicendogli Salamone "Io non presto sanza pegno", ritorna a me; e raccontatomi il tutto, gli dico: "Và al tale, che ti darà gioie per detta somma, le quali compererà il giudeo di grazia"; ed egli via: e trovato quello delle gioie, convenutosi seco, gli fa lo scritto per duo mesi; e portate le gioie a Salamone, gliene vende e portami i danari.
ANTONIA.
Che vuoi tu dir per questo?
NANNA.
Le gioie erano mie: e riavuti i suoi denari, il giudeo me le riportò, e stato così otto giorni, mando per quello che gli diede le gioie sopra lo scritto di man sua, e gli dico: "Fà metter il giovane in prigione e giuragli sospetto fuggitivo"; onde essequito l'ordine, il mangione fu preso, e inanzi che ne uscisse pagò gli scotti a doppio, perché non usano gli osti vecchi né nuovi di dar mangiare a scrocco.
ANTONIA.
Io che fino a qui mi sono tenuta scozzonata, ti confesso di essere una cogliona.
NANNA.
Veniva i carnasciale, il quale è il tormento, la morte e la disfazione dei poveri cavalli, delle povere vesti, dei poveri imbertonati; e cominciando da un mio che aveva più volere che potere, sendo là poco dopo Natale, che le mascare vanno in volta, ma non se ne vede anco molte, pur se ne fanno, che poi moltiplicano di dì in dì come i poponi, che ne viene cinque o sei per mattina, poi dieci, dodici, e poi una cesta, poi una soma, poi ce ne è da gittare, dico che le mascare non fioccavano ancora quando il mio tutto-fumo mi dice, vedendomi stare come una che vuole essere intesa sanza parlare: "Voi non vi avete a mascarare?", "Io sono una guarda-casa" gli rispondo io, "e una stracca-gelosie; lascio mascararsi alle belle e a chi ha di che vestirsi", ed egli: "Domenica vo' che vi facciate mascara in su le fogge".
E io mi taccio così un pezzo, poi mi gli gitto al collo dicendo: "Cor mio, a che modo vuoi tu farmi bella mascara?", "A cavallo" mi dice egli, "vestita per eccellenza, e averò il ginetto del Reverendissimo, che a dirvi il vero il suo maestro di stalla me lo ha promesso", e dicendogli io "Appunto quello mi piace", lo metto in circa sette dì inanzi a quello nel quale faccio conto di mascararmi; e fattolo ritornare a me il lunedì, dico: "La prima cosa mi hai da provedere di un paio di calzette e di un paio di calzoni: e per non darti spesa, manderaimi i tuoi di velluto, che leverò via tutto il logoro e farò sì che mi serviranno, le calzette me le farai con poca poca cosa, e uno dei tuoi farsetti manco buoni, rassettato a mio dosso, mi starà benissimo".
Detto ciò lo veggio torcere, e masticare il "son contento", quasi pentito di avermi miso in sui salti, onde gli dico: "Tu lo fai malvolentiere; lasciamo stare: io non vo' più mascare"; e volendomene andare in camera, mi piglia e dice: "Avete voi questa fidanza in me?"; e mandato il servidore per le sue spoglie e per il sartore insieme, mi si acconciano per mio uso; e comperato il dì propio il panno per le calzette, mi si tagliano e mi si portano indi a duo giorni: sendo egli presente che aiutatomi a vestirle diceva: "Le vi stanno dipinte"; e io sotto i panni di maschio, fattomegli provare da maschio, gli dico: "Anima mia, chi compra la scopa può anco comperargli il manico; io vorrei un paio di scarpe di velluto".
Egli che non ha denari, cavatosi uno anelluzzo di dito, lo lascia in cambio del velluto: e datolo al calzolaio che sa la mia mesura, in un tratto mi si fanno.
Dopo questo gli cavo una camiscia lavorata d'oro e di seta, non pur della cassa, ma di dosso, e mancandomi la berretta, dico: "Dammi la berretta, e io mi provederò della medaglia"; ed egli caldo nel far dire di sé nel mascarar me, mi dà la sua nuova, e mittesene una che aveva disegnato darla al suo famiglio.
Or viene la sera che la mattina ho a ire in gestra: e chi lo avesse veduto occupato dintorno a me, averia detto: "Egli è il Campidoglio che mette in ordine il senatore".
E a cinque ore di notte lo mandai a comprarmi un pennacchietto per la berretta; poi ritornò per la mascara: e perché non era modanese, lo rimandai per una di quelle da Modena; poi lo feci andare per una dozzina di stringhe.
ANTONIA.
Dovevi pur fargli fare tutti i servigi in un viaggio.
NANNA.
Doveva, ma non volsi.
ANTONIA.
Perché mo'?
NANNA.
Per parer signora nel comandar, come io era nel nome.
ANTONIA.
Dormì egli teco la vigilia della tua festa?
NANNA.
Con mille suppliche ne ebbe una voltarella, dicendogli io: "Doman di notte lo farai venti non ti bastando dieci".
Ora venne l'alba, e prima che spuntasse il sole lo faccio levar suso e gli dico: "Và e fà governare il cavallo, acciò che subito desinato io possa montarvi suso"; ed egli si lieva, e levato si veste e vestito si parte, e partito trova il maestro di stalla, e trovato gli dice con parlar lusinghevole: "Eccomi qui".
Il maestro di stalla sta così, e non nega e non afferma; ed egli: "Come, volete voi essere la mia ruina?"; "Io no" risponde il maestro, "ma il Reverendissimo, mio padrone, adora il cavallo; e sapendo la natura delle puttane, che non riguarderiano Iddio, non che una bestia, non vorrei che si spallasse o rapprendesse, acciò che io non ruinassi me d'altra maniera che non ruinereste voi non lo avendo", ed egli a pregare e a ripregare, tanto che alfine il maestro di stalla gli dice: "Io non posso mancarvi; mandate per esso, che vi sarà dato"; e commesso al famiglio che lo governa che si gli dia, mi spedisce il suo servidore a staffetta: che contatami la diceria stata fra loro, se ne rise meco.
ANTONIA.
Gran traditori son questi famigli, certamente nimici dei lor padroni.
NANNA.
Non c'è dubbio.
Ma eccoti l'ora di desinare; io desino con lo amico, e appena gli lascio inghiottir sei bocconi, che gli dico: "Fà mangiare il garzone, e mandalo per il cavallo".
Io son ubbidita: il garzone mangia e va via; e quando io credo che venga col cavallo, ritorna senza; e giunto suso dice: "Il famiglio non me lo vuol dare, perché il maestro di stalla vuol prima parlarvi".
Appena finito la imbasciata, che il poveretto garzone si trova un piatto nel capo.
ANTONIA.
A che proposito gli diede il suo padrone?
NANNA.
Gli diede perché averebbe voluto che lo avesse chiamato da canto e fattagli la imbasciata nello orecchio, perché io non mi voltai non la avessi udita.
Io mi gli voltai e dissi: "Mi sta molto bene, molto ben mi sta, poiché mi ho voluto fare più bella mascara di quella che mi ha fatta la puttana di mia madre; io ne era certa di quello che mi interviene: tu non me ne farai più; matta son io stata a crederti e a lasciarmi mettere suso.
Mi fa peggio che si dirà che sono stata soiata, che del cavallo"; e volendomi egli dire "Non dubitare che il cavallo verrà", con un "lasciami stare" gli volto le spalle, onde pigliata la cappa e volato alla stalla, inchinandosi a ogni famiglio si fa insegnare il maestro di essa: e tanto lo scongiura, che il beato cavallo si ottiene.
E io che a ogni romor che udiva, credendo che fusse il cavallo, mi faceva alla finestra, veggio il famiglio che tutto sudato, con la cappa ad armacollo, viene a dirmi: "Signora, adesso adesso sarà qui".
E ciò detto, ecco uno che lo mena a mano, rinegando il Cielo per il saltellare che faceva tenendo tutta la strada.
Io nel comparir d'esso alla mia porta, mi sporgo quasi tutta fuora della finestra, acciò la gente che passava vedesse chi era colei che lo aveva a cavalcare; e mi godea dei fanciulli raccolti intorno al cavallo, perché dicevano a chi veniva: "La signora qui si fa mascara".
Giunto di poco il cavallo, giugne il mio amore, che tutto affannato e tutto allegro mi dice: "Bisogna mandar gli uomini"; dieci ne stavano a mia requisizione.
Io intanto gli do un bascio, e chiedendo il saio di velluto che la sera dovea portarmi il famiglio, il saio non ci è, però che lo imbriaco se lo era dimenticato: e se io non teneva il suo padrone, il da poco non ne faceva più; basta che gì per esso correndo, e me ne vesti': e nel legarmi le calze, adocchiate le cinte delle sue calze molto belle, gliene rubo con una parolina, prestandogli le mie non troppo vaghe.
Finito il mio addobbamento, nel quale andò più tempo che non va nel diventar ricca, con cento novelluzze e con cento vezzi fui posta a cavallo; e tosto che ci fui, lo innamorato solo, salito sopra un suo ronzino, si avvia meco: e presami per la mano, averebbe voluto che tutta Roma lo avesse visto in tanto favore.
E andando così, arrivammo ove si vendono le uova di fuora inorpellate e di dentro piene di acqua di fiume inrosata; e chiamato un facchino, ne toglio quante ne aveva uno che le vendeva; ed egli si svaligia di una collana che si faceva campeggiare al collo, e lasciala in pegno per le uova: che gittatole in un credo sanza proposito niuno, lo ripiglio per mano, e per essa lo tengo fino a tanto che incontro una frotta di persone mascarate e smascarate; e accompagnatami con loro, fattami bene in mezzo, lo lascio là goffo goffo.
E come io era in Borgo o in Banchi (fango a sua posta), sanza rispettar punto né 'l cavallo né 'l saio, faceva due carriere: e quattro o sei volte che io lo ritrovai il dì, gli feci quelle carezze che si fanno a chi non si vide mai; ed egli trottatomi alquanto dietro, non potendo raggiungermi col suo triccare, si rimaneva sopra il ronzino come un uomo di stoppa.
Venuta poi quasi la notte, cantando in compagnia di mille altre puttane e bertoni
E tremo a mezza state ardendo il verno,
mi lascio ritrovare e pigliar per mano dal disperato; e detto alla compagnia "Buona notte, buona notte, signori", con la mascara in mano, dico al mio giorgio: "Beato chi ti può vedere: tu mi lasciasti, e so bene io perché; a fare a far sia".
Il buon moccicone si scusa, e mentre vuol darmi il torto, capitiamo in Campo di Fiore; e fermatami a un pollaiuolo, tolto un paio di capponi e duo filze di tordi, dandogli a chi me gli porti a casa, dico: "Pagagli"; e bisognò che ci lasciasse un rubinetto che gli diede sua madre quando venne a Roma, che gli era a core quanto a me il pelarlo.
E giunti a casa, non ci essendo né candele, né legne, né fuoco, né pan, né vino (forse per non volere io che ce ne fusse), entro in collera; e racquetata dal suo andare a provederne, non ci essendo il suo famiglio che era ito a rimenare il cavallo (che fece giurare al maestro di stalla di nol prestar più, se venisse Cristo), mi gitto sul letto; e stataci un pochettino, ecco robba a iosa: e aiutando mia madre, si apparecchiò e cosse la cena in un sonare di campanelle.
E postici a tavola, appunto nel fine del mangiare odo uno che tosse e sputa; il quale tossire e sputare accorò il meschino: però che fattami alla finestra, conosciuto lo amico, mi avvento a lui e me ne andai seco lasciandolo tutta notte sanza mai chiudere occhio, a passeggiare per casa e a frappare di farmi e di dirmi.
E ben ne andò egli a riavere il saio che mi prestò, per il quale venne otto dì alla fila il suo famiglio prima che lo avesse.
ANTONIA.
La non fu troppo civile a farla a uno che ti aveva fatto tante cose per fartelo una notte a suo modo.
NANNA.
La fu civilità puttanesca, e non meno bella che quella di un mercatante da zucchero che lasciò fino alle casse per dolcezza di altro che di zucchero, e mentre durò l'amorazzo suo fino nella insalata mettevamo il zucchero.
E assaggiando il mèle che usciva della mia tu-mi-intendi, giurava che il suo zucchero era amaro a comparazione.
ANTONIA.
E però te lo gittò dietro.
NANNA.
Ah! ah! Mi ricordo vederlo impazzito nel mirarmela: egli la toccava, e rassodandosi nel maneggiarla, la assimigliava a una di queste boccucce che tengono serrate le figure delle donne di marmo che sono in qua e in là per Roma, e diceva che ella rideva come par che ridano le bocche d'esse.
E in verità lo poteva anco dire (benché non stia a me a lodarmi), perché io la aveva galantina al possibile, e ci parevano e non ci parevano i peli, ed era fessa sì bene, che non ci si conosceva il fesso: non troppo rilevata né troppo abbassata.
E ti do la fede mia che il zuccaraio mi ci diede più basci che non fece nella bocca succiandola come un uovo nato allora allora.
ANTONIA.
Furfante.
NANNA.
Perché furfante?
ANTONIA.
Per il mal che Dio gli dia.
NANNA.
Non gliene diede egli a farlo innamorare di me?
ANTONIA.
Non a mio modo.
NANNA.
Ora io non ti conto le cose minute, con le astuziette con le quali pelava altrui sanza che mi si vedesseno le mani; e usava il gergo per mezzano tosto che veniva a me qualche bue: e non intendendo ciò che si volesse dire "monello", "balchi", "dughi" e "trucca per la calcosa", erano assassinati come un villano dal parlar per lettera dei dottori.
E certamente il parlar furfantesco è degno da furfanti, perché per sua colpa si fanno mille furfantarie.
Ma lasciamiti dire nel modo che io burlai favellando alla toscana un balocco senese, pare a me.
ANTONIA.
Non poteva essere altro.
NANNA.
Egli sendoci venuto da poco in qua, mi manicava con gli occhi, e non vedeva mai la mia fantesca che non bottoneggiasse di me, talora diceva: "Questo cuore è della signora"; altra volta: "Che fa la signora, figlia bella?"; ed ella, rispondendogli "Fa bene al comando della Signoria vostra", gli faceva dietro i visacci.
E vedutolo un dì così di lungi, dico alla mia segretaria: "Và giù, e fagli pagare il fitto della strada che ci impaccia col passarci a tutte l'ore"; ed ella recatasi in su l'uscio, e mentre che egli vuole aprire la bocca per salutarla, dice forte forte: "Che possa rompere la coscia, acciò che non ci torni mai più, o! o! o! o! Appunto ei non si vede apparire, disgraziato, gaglioffo".
Il merendone spaventacchio delle altalene, le dice: "Che cosa è? eccomi qui al piacer vostro: io son servidore della signora sono"; ed ella, fingendo di non lo intendere, dice: "Quattro ore, quattro ore sono che mandammo il ladroncello a scambiare un doppione per dare un ducato di mancia al facchino che ha portato due pezze di raso cremisi alla mia signora, le quali le ha donato il prencipe della Storta, e non ci torna".
Il besso, che voleva essere conosciuto per liberale sì come si conobbe per corrivo, squinternata la borsa, le dice: "Or tolli, che adoro la signora adoro"; e le pose in mano quattro corone, facendo seco il grande.
Poi dicendo "Ella mi vuol bene, è vero?", la fantesca chiamata da me, sanza rispondergli se io gliene voleva o no, gli serra la porta sul viso: onde si rimase fuora come un cacciato dalle nozze ove era ito sanza esserci invitato.
ANTONIA.
Si gli fece il dovere al pazzacone.
NANNA.
Veniamo a quella da le gatte.
ANTONIA.
Che gatte saranno queste?
NANNA.
Io aveva debito con un vende-tele .XXV.
ducati, e non facendo pensiere di dargliene mai, carpii la via di uccellarlo.
E che feci? Io avea due gatte assai belle, e vedendolo venire alla finestra per i denari, dico alla mia fantesca: "Dammi una delle gatte, e tu piglia l'altra; e tosto che il telaiuolo giunge, gridando io che tu la scanni, finge di non volere; e io farò vista di storzar quella che averò in mano".
Appena dissi questo, che eccolo su.
ANTONIA.
Non batté egli prima la porta?
NANNA.
No, che la trovò aperta.
Giunto suso, io a gridare "Scannala, scannala", e la mia fantesca quasi piangendo mi pregava che le dovessi perdonare, promettendomi che non mangerebbe più il desinare; e io che parea rabbiosa, mettendo le mani nella gola alla mia, le diceva: "Tu non me ne farai più".
Il mio creditore-a-sue-spese, veduto le gatte, gliene venne compassione, onde me le chiede in dono; "Appunto", gli dico io, ed egli: "Di grazia, signora, servitemene per otto dì, e poi ve le aiuterò ammazzare, caso che non me ne vogliate donare o perdonargli".
E dicendo così mi toglie la gatta, facendone io un poco di resistenza; poi, strappata l'altra di mano alla fantesca, le da al fattorino che si menava dietro (avendonegli ella prima acconce in un sacco) e falle portare a casa sua.
E io gli dico: "Fate che dopo gli otto dì mi si rimandino, che le voglio ammazzare, le traditore"; e promesso di farlo, mi chiede i .XXV.
ducati: che col far sagramento di portàgliene fra dieci giorni fino a bottega, ne lo mando contento.
Passati i dieci e i quindici, ritornato chiedermegli, avendogli io un fazzoletto, rimescolandogli tuttavia dico: "Molto volentieri, ma vo' prima le mie gatte"; "Come le vostre gatte?" risponde egli, "elle si fuggiro su per i tetti tosto che si lasciaro per casa".
Quando che odo quello che sapea inanzi che io lo sapessi, con un viso di madrigna gli dico: "Fate che le gatte ritornino, se non le vi costeranno altro che .XXV.
ducati tignosi; le gatte son promesse, e si hanno a portare in Barbaria le mie gatte; le mie gatte, messer mio, hanno ritornar qui, qui hanno a tornare".
Il poveruomo appoggiato in su la finestra, vedendo per i gridi che alzava ragunar persone nella strada, sanza dirmi altro, come savio, la diede giù per la scala, dicendo: "Và, poi, e fidati di puttane".
ANTONIA.
Nanna, io ti vo' dire una mia fantasia.
NANNA.
Dimmelo.
ANTONIA.
La bellezza di questa dalle gatte è sì gentile, che per suo amore ti seranno perdonate quattro di quelle scommunicate.
NANNA.
Credilo tu?
ANTONIA.
Ci giuocherei l'anima mia contra un pistacchio.
NANNA.
Non sarà poco.
Uòh, uòh, uòh...
mi è caduto il ciamorro ..
uòh, uòh, uòh...
questa ficaia mi ha saputo tenere il sole molto male.
E non ci sarà ordine che ti narri di molti ch'io sciloppava di sorte che faceva credere loro che la sinagoga dei Giudei fosse in aria alla foggia che si dice che è l'arca de Macometto...
uòh uòh, uòh, uòh, ...
io non posso più fiatare, son già fioca, la scesa mi fa cader l'ugola.
ANTONIA.
Il noce suol far trista ombra, e non la ficaia.
NANNA.
Dimmi il parer tuo in tre parole secondo la tua impromessa, che io affogo...
uòh, uòh, uòh...
io sto male.
Mi sa peggio di non poterti contare come io riformava i miei amorosi, che se io avessi perduto non so che: fingendo carità inverso le lor borse, non voleva che si sfoggiasse in ricami, né in pasti, né in cose disutili, e ciò faceva perché i denari si serbassero pe' miei appetiti, e i goffi mi lodavano per discreta e amorevole alla robba loro.
Oimè, io crepo...
oh, oh, oh...; mi duole anco di non poter contarti quella dalle spalliere, con la quale ci feci stare chi le impegnò, chi l'aveva in pegno, colui che me le comperava, duo che stavano a vedere farne mercato, quello che me le portò a casa, e uno che si abbatté mentre che io le faceva appiccare in camera.
ANTONIA.
Deh, sfòrzati di contarmela; deh sì, Nanna, dolce Nanna, cara Nanna.
NANNA.
Egli accadé che messere aitamelo-dire, messe...
messer...
io muoio, non ci è ordine; perdonami, che te la dirò un'altra volta, con quella di monsignore appresso, il quale fuggì ignudo per tutti i tetti della contrada..., oimè, io spasimo, Anto...
Antonia mi...
mia, chò!
ANTONIA.
Maladetta sia la scesa e la salita, e questa gentil creatura del Sole che ci ha guasto il ragionamento.
E forse, che non ti volea dire, che non era da credere che il primo dì che entrasti nelle moniche avessi veduto tante cose, né manco ti credo che tu ti domesticassi col baccelliere così alla bella prima.
NANNA.
Io te lo dirò pure: io mi feci suora sendo mezza donzella; e circa lo aver veduto tante ciance in un tratto, credimelo che io vidi anco pe...
pe...
peggio, tossa ribalda, chò!
ANTONIA.
Sì, ah?
NANNA.
Sì, sì, sie.
Ma diraimi il parer tuo in tre parole, come mi promettesti?
ANTONIA.
Per tornare alla promessa che io ti feci di risolverti in tre parole, non la posso osservare.
NANNA.
Perché? eh, eh, chò!
ANTONIA.
Perché era cosa che lo poteva fare in quel punto ch'io dissi di farlo, perciò che noi donne siamo savie alla impensata e pazze alla pensata.
Pure ti dirò il mio parere, del quale piglia la rosa, e lascia star la spina.
NANNA.
Dillo.
ANTONIA.
Dico che, sbattuto una parte di tutto quello che tu hai detto, e credendoti lo avanzo, perché sempre si aggiunge bugia alla verità, e qualche volta per far bello il ragionare s'inorpella di fanfalughe...
NANNA.
Dunque mi hai per bu..., uòh, uòh..., per bugiarda?
ANTONIA.
Non per bugiarda, ma per trascurata nel favellare, e credo che tu voglia male alle moniche e alle maritate per altro, basta che io ti faccio buono che ci sieno più cattive fra esse che non ci doverebbeno essere.
Delle puttane non ne fo scusa.
NANNA.
Non ti posso...
uòh, uòh...
rispondere, e ho paura che questo tossire non diventi catarro.
Spàcciati, di grazia, nel darmi il tuo consiglio.
ANTONIA.
Il mio parere è che tu faccia la tua Pippa puttana: perché la monica tradisce il suo consagramento; e la maritata assassina il santo matrimonio; ma la puttana non la attacca né al monistero né al marito: anzi fa come un soldato che è pagato per far male, e facendolo non si tiene che lo faccia, perché la sua bottega vende quello che ella ha a vendere; e il primo dì che uno oste apre la taverna, sanza metterci scritta s'intende che ivi si beve, si mangia, si giuoca, si chiava, si riniega e si inganna: e chi ci andasse per dire orazioni o per digiunare, non ci troveria né altare né quaresima.
Gli ortolani vendono gli erbaggi, gli speziali le speziarie, e i bordelli bestemmie, menzogne, ciance, scandoli, disonestà, ladrarie, isporcizie, odi, crudeltade, morti, mal franciosi, tradimenti, cattiva fama e povertà ma perché il confessore è come il medico, che guarisce più tosto il male che si gli mostra in su la palma che quello che si gli appiatta, vientene seco alla libera con la Pippa, e falla puttana di primo volo: che a petizione di una penitenzietta, con due gocciole di acqua benedetta, ogni puttanamento andrà via dell'anima; poi, secondo che per le tue parole comprendo, i vizi delle puttane son virtù.
Oltra di questo, è bella cosa a essere chiamata signora fino dai signori, mangiando e vestendo sempre da signora, stando continuamente in feste e in nozze, come tu stessa, che hai detto tanto di loro, sai molto meglio di me; e importa il cavarsi ogni vogliuzza potendo favorire ciascuno: perché Roma sempre fu e sempre sarà, non vo' dir delle puttane per non me ne avere a confessare.
"Tu parli bene, Antonia" disse la Nanna, "e tanto farò quanto mi consigli".
E ciò detto fiocamente, fatta svegliare la fantesca che dormì sempre mentre ragionaro, ripostole in capo il canestro, e il fiasco vòto in mano, data alla Antonia le tovagliette che la mattina avea portate sotto il braccio, se ne ritornaro a casa.
E mandatosi per alcuni peneti per la Nanna, guardata la sua tossa dallo aceto, con un pan bollito si cenò, dando però altro alla Antonia, che stata seco la notte, la mattina per tempo si ritornò ai suoi negozietti co' quali trampellava la vita; che venutale a noia per la sua povertà, si confortava co' ragionamenti della Nanna, rimanendo stupita nel pensare al male che fanno tutte le puttane del mondo: che sono più che le formiche, le mosche, le zanzale di venti stati, quando ella sola era creditrice di tanto, e anco non avea detto la metà.
Il fine della terza e ultima giornata.
Signor Pietro Divinissimo.
Perché i frutti del vostro mirabile ingegno son tali che ciascuno gentile spirito gli cerca come si ricercano le cose di gran pregio, se io ho tolto presunzione di fare del vostro Dialogo, imprimendolo commodità a certi mie' padroni e amici, la Signoria vostra mi doverà perdonare tanto più se non lo ritrovasse corretto come uscì delle sue mani.
Perché quello che manca non è stato per nostra negligenza ma per la carestia che è in questo Paese degli impressori che abbiano bene cotesta lingua.
Come si sia per non mancare ad alcuni che ci ponno comandare egli si è dato alle stampe di questo mese di aprile .MDXXXIV.
nella inclita città di Parigi.
Artium et Medicinae Doctor>
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