[Pagina precedente]...delle quattro zampe, era l'ingenuità stessa. E il signor Aghios pensò col cuore pesante ai grandi pericoli che la bianca bestia correva. "Guardati dal canicida!" pensò.
Grandi amici del viaggiatore sono i cani. Persino in Inghilterra somigliano ai nostri e ci fanno ritrovare in essi un pezzo di patria. Non meglio educati dei nostri, curiosi come questi di tutte le porcherie sulla via, invadenti, rumorosi, obbedienti quando conobbero la frusta, affettuosi e sempre stupiti che chi li ama non accetti di lasciar passarsi la loro lingua sulla faccia. Parlano la stessa lingua. E l'Aghios nella solitudine li amò e spiò scoprendone il carattere e le sue cause. Radicalmente differenti da noi, che guardiamo mentre essi annusano, è strano che fra noi e loro si sia costituita una relazione tanto intima, nostra grande fortuna, dal cane basata certo su un malinteso. Forse il gatto a noi s'accosta di più perché a noi meglio somiglia e meglio ci conosce. E il cane deve la sua sincerità al suo senso predominante, l'olfatto. Il suo modo di percepire gli fa credere che a questo mondo ogni tradimento sia subito scoperto perché egli non vede le superfici ingannevoli, egli analizza proprio l'anima delle cose, il loro odore. Può essere che anche il suo senso lo truffi o ch'egli spesso addenti degl'innocenti dall'odore sgradevole, ma egli non lo sa e se è impedito nel suo proposito s'adatta, ma ringhiando. Tante volte una legge superiore lo arresta e lo incatena e, senza convinzione, egli deve subirla; vi è abituato. Ma il proposito di tradire egli non può accogliere, pensando ch'egli col suo senso sarebbe capace di scoprirlo e tanto meglio dunque il suo padrone, che non sarebbe il suo padrone se non avesse dei sensi più perfetti dei suoi.
Mondo sincero perciò quello degli odori. Pare però che si allontani dalla realtà più di quello delle linee e dei colori. Il povero cane è sempre il truffato perché male informato. Tuttavia qualche dolore gli è risparmiato. In nessun posto egli 'e straniero. Il suo senso è essenzialmente socievole. Ogni incontro casuale si fa subito intimo e al naso vengono offerte per la verifica le parti più recondite. Rifiutarle è una vera sgarbatezza che provoca la reazione più violenta. Che vita più naturale che non la nostra! Nella vita più affollata di Londra un uomo è all'altro nient'altro che un impedimento a procedere. Come fare? Anche se il signor Aghios fosse stato accettato quale dittatore della vita di società, egli non avrebbe saputo imporre il sorriso reciproco di saluto fra sconosciuti. Esso, imposto, sarebbe divenuto una smorfia orrida e mai avrebbe potuto significare un sincero saluto di fratello. L'affetto è anch'esso una fatica; e nessuno vi si sottopone per regola; il vero riposo è l'indifferenza. Dai cani, diretti dagli odori, l'indifferenza di fronte alla vita non c'è mai. Non sono mai semplici indifferenti stranieri, ma sempre amici o nemici.
Un treno non è una cosa piccola, ma il signor Aghios nella vasta stazione non trovava il suo. Doveva pur esserci nella stazione, in qualche posto, l'indicazione necessaria per trovarlo, ma il signor Aghios non la vedeva. Di solito sua moglie lo dirigeva. Il signor Aghios fiutò inutilmente a destra e a sinistra. Vide un facchino che gli correva incontro. Era il fatto suo. Gli consegnò la piccola valigetta che tanto facilmente avrebbe potuto portare da solo e domandò del treno. Sentì il bisogno di scusarsi: "È leggera, ma mi pesa perché sono vecchio".
Aveva parlato al facchino per farselo amico. Già sentiva il bisogno degli amici occasionali che non attentano alla propria libertà. Il facchino, un uomo tozzo e svelto, sorrise e borbottò qualche cosa in meneghino, che il signor Aghios non intese. Buona che c'era stato il sorriso e il signor Aghios, con buona volontà e passo celere, seguì l'amico che, la valigetta in mano, lo precedeva correndo. Lo seguiva e già l'amava. Come era bella l'invenzione delle mance! Specialmente delle piccole, quelle che non dolgono. Perciò egli era piuttosto avaro, perché regalando molto in una volta, il piacere era breve e si restava poi paralizzati per lungo tempo. Sua moglie era più generosa e quando trovava un bisogno che non poteva essere lenito che con una somma grossa, essa la dava. Ma era un modo di disporre della roba altrui, perché agli altri bisognava poi dire: "Ho disposto già altrimenti di quanto vi spettava". Egli era veramente generoso solo talvolta, per volontà della moglie, com'era molte altre cose ancora quando essa lo voleva.
In viaggio bisognava conquistarsi degli amici, perché altrimenti si percorre questa terra ch'è la vera, la grande nostra patria, col cipiglio dello straniero. Ed il signor Aghios sfruttava le sue piccole mance da vero avaro e voleva con esse comperare non molta, ma un'amicizia duratura. Perciò cominciava col pagare un prezzo inferiore alla tariffa. Di solito l'altro non protestava, ma restava a guardare, interdetto, il poco denaro che teneva nella mano aperta. Allora appena il signor Aghios metteva in quella mano una moneta alla volta, finché essa si chiudeva e sulla faccia del facchino appariva un sorriso. Così quel sorriso, che aveva tardato a nascere, si stampava meglio nel ricordo del signor Aghios e gli appianava qualche miglio di strada. Talvolta, prima ch'egli arrivasse a dare tutta la mancia, il facchino si stancava e se ne andava con una brutta parola. Il signor Aghios se ne andava allora con la mancia in tasca, ma aveva avuto tuttavia la sua soddisfazione perché egli si divideva da un nemico bensì, ma non da uno straniero.
Bisognò scendere per uno scalone sotto terra e risalire, dopo aver percorso un corridoio, alla banchina sulla quale bisognava aspettare il treno non ancora giunto da Torino.
Il facchino domandò al signor Aghios se doveva aspettare con lui. Se non fosse stato necessario di parlare in meneghino il signor Aghios avrebbe trattenuto l'amico dell'ultima ora. Così invece lo congedò e restò nella solitudine allietata dall'ultimo suo sorriso di ringraziamento. S'erano guardati per un istante negli occhi quasi a dichiararsi la loro reciproca benevolenza. E il signor Aghios, per aumentare tale benevolenza, aggiunse alla mancia una sigaretta.
Molta gente aspettava sulla banchina. Accanto ad una colonna erano accatastati molti poveri bagagli, una sola valigia chiusa, due ceste legate, di cui una chiusa da un panno rosso e l'altra verde sbiadito. Una donna sedeva sulla valigia con un poppante in grembo e una fanciullina di dieci anni, ben difesa dal freddo da un vestitino consunto, dormiva su una cesta, la testa appoggiata sul fianco della madre.
"Sloggiano?" pensò il signor Aghios. Vide poi avvicinarsi un contadino che, mentre correva, esaminava dei biglietti ferroviari certo allora acquistati. La giovine donna ebbe un respiro vedendolo. Doveva aver sofferto di essere rimasta sola tanto a lungo. Quello non era un viaggio con tutta quella famiglia. Un'emigrazione, una fuga.
Poi il signor Aghios non guardò più la gente che lo circondava e s'incantò per qualche minuto a guardare il fumo che denso usciva dal camino di una locomotiva fuori della stazione. Il vento lo spingeva. Uscendo dal camino a nuclei, veniva subito diminuito e diffuso dal vento. Ogni nucleo, nell'atto che subiva tale distruzione, pareva si spogliasse e tradisse l'esistenza entro di lui di una testa, un grugno, un essere animato. E tale testa, prima di disfarsi, spalancava degli occhi smisurati per guardare meglio e per guardare meglio finiva con lo spalancarsi tutta. Una processione di teste spaventate e minacciose. "Poche linee di vita bastano a significare l'essenza della vita, la paura o minaccia" moralizzò il signor Aghios.
Il treno entrò sbuffando in stazione. In quell'istante il signor Aghios sentì la voce della moglie che lo chiamava: "Giacomo!".
Si volse a lei e forse non seppe celare un gesto d'impazienza. Egli l'amava com'essa meritava, ma la sua assenza non era stata lunga abbastanza per fargli desiderare di rivederla. Proprio era bastato il suono della sua voce per strapparlo a quella lieta benevolenza ch'egli riversava su tutte e cose e persone. Eppoi gli portava essa forse l'annunzio che non poteva più viaggiare solo? Ma egli sarebbe partito tuttavia.
La signora dovette indovinare parte del suo stato d'animo perché, interdetta, gli domandò: "Ti secco tanto?" e fece l'atto di ritornare sui suoi passi. Fu un attimo brutto.
Questo poi no, il signor Aghios non l'avrebbe ammesso. Si poteva pensare a questo mondo quello che si voleva, ma non bisognava rivelare quel pensiero tanto bello e giusto finché restava celato nel proprio animo e tanto ingiurioso quando sbucava alla luce del sole. "Non ti avevo riconosciuta!" disse subito. E, presala per la mano, l'attirò a sé. Essa si sottrasse all'abbraccio, perché era tanto bene educata che non avrebbe ammesso una cosa simile in pubblico. Ma fu subito convinta, perché essa credeva al marito. Era una fede di cui il signor Aghios in passato era stato beato. Da qualche tempo lo seccava. Era proprio un modo di semplificare troppo la vita. Oramai anche questa fede aveva qualche cosa di gelido come tutta la loro relazione.
Sorridendo essa gli disse che non era per rivederlo un'altra volta che gli era corsa dietro, ma perché aveva dimenticato di dirgli che la signora Luisi lo pregava di avvertire il gioielliere di Venezia che essa tratteneva il filo di perle offertole e che il signor Luisi avrebbe provveduto fra pochi giorni al pagamento.
Poi, sempre sorridendo, gli domandò: "Ricordi ancora quello che hai nella tasca di petto?".
L'Aghios portò subito la mano a quella tasca e, trovatala gonfia, ricordò: "Non dubitare! Ci penso sempre".
Ma qui essa non gli credette, perché s'era accorta che per ricordare di aver seco una somma forte di denaro, egli aveva dovuto toccare quella tasca. E s'impensierì, per i denari e non per lui. "Ho fatto tanto male di lasciarti partire solo." Si guardò irresoluta in giro. Poi sospirò, "Già! Ora non c'è più tempo".
Erano ambedue contenti che non ci fosse più tempo, ma il signor Aghios era anche adirato di sentirsi trattare quale un bambino. "Pensi forse ch'io perderò il denaro?" domandò risentito. "M'hai trovato distratto così perché proprio pensavo di fare un giro per Trieste per vedere se non potevo trovare il denaro più a buon mercato per la rinnovazione di parte del nostro debito." E mentre parlava guardò ancora una volta il camino della lontana locomotiva donde continuava a sbucare del fumo denso. Non era che fumo informe ora, non teste, non minaccia, non spavento.
"È una leggerezza di viaggiare con tanto contante in tasca" disse ancora la signora con voce calda che domandava scusa.
Sì! Era una leggerezza. Dal giorno prima avevano deciso di comperare un vaglia, anche per rendere quella tasca più leggera. Ma lo aveva disturbato di andare con quel denaro alla banca e aveva rimandato quell'operazione fino a quel giorno stesso. Poi, sul più bello, erano venuti a trovare il figliuolo tre giovini che con lui studiavano. Il vecchio s'era incantato a star a sentire i loro piani per l'avvenire ora che avevano finiti gli studii. Egli non avrebbe aperto bocca per paura di sentirsi correggere da quei dotti, ma ricordava che all'uscita dalla scuola egli era stato più timido, esitante, pauroso. Uno di loro trovava la sua posizione già fatta, ma riteneva che il suo intervento avrebbe significato un progresso per l'azienda in cui doveva entrare. Il secondo, poi, che non trovava nulla di fatto dai suoi antenati, con tutta calma s'apprestava all'emigrazione. Gli spettavano tante cose che l'Italia non poteva fornirgli. Il terzo invece manifestava un grande disprezzo per la politica, ma pensava di dedicarvisi. Non aveva alcun partito ancora e aveva tempo di pensarci. Intanto sarebbe entrato in un ufficio governativo. E il vecchio non s'accontentava di pensare che il mondo non fosse più quello in cui era nato lui, ma s'incantava a studiare quale dei due mondi avesse avuto ragione. Non c'era verso! Uno dei due a...
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