[Pagina precedente]...li disse che i gioielli non si comperavano per lettera. Specialmente per le perle non bastavano pesi e misure. Ricevendo un ordine simile, l'animo di un vecchio gioielliere naturalmente accettava il raro dono che la Provvidenza gli offriva.
Finché l'affare non fu liquidato, del beneficio antico che il signor Aghios gli aveva reso non fu parlato, ma una volta il Meuli ardì di vantare la sua grande correttezza per cui subito aveva accettato di annullare un grande affare conchiuso. Il signor Aghios non poté sopportare in silenzio una cosa simile e gli ricordò il suo beneficio che al Meuli aveva reso possibile di calare a Venezia ad afferrare il suo bottino. Il Meuli socchiuse gli occhi come se avesse voluto costringerli ad un grande sforzo per penetrare nella notte dei tempi. Si ricordò e sorridendo disse: "Era a quel tuo beneficio ch'io dovevo la preferenza che volevi accordarmi? A questo mondo la più bella posizione è quella di essere un beneficato".
Il signor Aghios rimase incantato dall'osservazione acuta e conservò la sua amicizia all'amico sconoscente. Costui, evidentemente, almeno in una lingua, sapeva dire delle cose fini. Però, quand'ebbe a trattare con lui degli affari, tenne gli occhi aperti. Così fra loro due tutto fu chiaro e la loro amicizia non s'offuscò per la brutta avventura.
Il Bacis era nel mezzo della piazza tuttavia ammirando e l'Aghios lo raggiunse.
"Adesso" propose "c'imbarchiamo sulla nostra gondola e facciamo una gita magnifica fino alla stazione."
S'avviarono. Della storia di Venezia l'Aghios sapeva con precisione una cosa: L'incendio del palazzo ducale e la sua data. Era stato rifatto in furia? Avviandosi alla piazzetta l'Aghios pensò: "Dovrò pur verificare se sono bene informato". Dinanzi a quella leggiadra costruzione, una festa che nessuno penserebbe contenere anche la tristezza dei piombi e dei pozzi, l'Aghios fece osservare al Bacis la disformità fra finestre e finestre e il grande balcone al centro. La parte più ricca era quella ch'era stata risparmiata dall'incendio. Avevano voluto risparmiare nella ricostruzione o avevano inventato qualche cosa di nuovo? Certo non avevano cercato di celare tale disformità , perché appariva già dalla posizione, della nuova costruzione. Oh! come l'Aghios amava quel palazzo in cui gli pareva che si fosse sposata Venezia sontuosa e Venezia modesta! Ecco un'opera ch'era diventata intera per effetto di una forza naturale: Il fuoco. Ed un ministro d'Italia aveva proposto di rifare il palazzo com'era prima dell'incendio, ma chi accanto al palazzo era cresciuto vi si era rifiutato. Oggidì, se vi fosse un incendio a Venezia o altrove, non vi sarebbe altra salvezza che ritornare al disegno antico come si fece col campanile, ma prima? Prima l'incendio non poteva essere che un'occasione a variazioni sull'antica pianta, viva ancora tanto da saper ricrescere.
Montarono in gondola aiutati dall'uomo del bastone, sempre pronto a Venezia in tutti i traghetti. Il pesante signor Aghios fu ben lieto dell'aiuto e beneficò sorridendo il buon uomo che si dimostrò molto servizievole. Quando fu seduto accanto al Bacis gli disse: "Quest'uomo del bastone è una vera necessità di Venezia e, come tante altre cose di Venezia, a chi non la conosce pare superflua".
Come passarono il signor Aghios disse i nomi dei palazzi che conosceva. Più volte fu corretto da Bortolo, che dall'alto seguiva la conversazione come se fosse stato seduto in gondola. Il mezzo più lento di locomozione di questo mondo è la gondola a un remo, perché una parte della forza del gondoliere va spesa nell'arresto e si procedeva lentissimi, non più presto che in un museo.
Al signor Aghios non importò affatto di dover apparire - causa le correzioni del barcaiolo - meno dotto. Egli aveva nel suo animo altre ricchezze di cui non gl'importava di parlare. Nel silenzio del Canalazzo s'imprimeva indelebile nel suo animo quella notte oscura, ma dalla luce ancora sufficiente per vedere le tante cose che brillavano. E fra tutte brillava anche quella barca della benevolenza con Bortolo, giovanile e sicuro, infitto perpendicolare a poppa e quel giovanotto accanto a lui, cui egli aveva saputo procurare una mezz'ora di svago dal suo grande dolore. Non di più, perché poco prima il Bacis aveva emesso un sospiro che somigliava ad un singhiozzo. L'Aghios aveva trasalito a quel suono di dolore. Rimase un momento incerto se doveva usare una parola di conforto, ma poi preferì di tacere. Non bisognava intrudere.
Ora il Bacis s'era abbandonato nella gondola come poco prima nell'angolo del vagone ferroviario. E per lungo tempo tacque. Sorprese e commosse il signor Aghios con una perorazione che doveva aver pensato per lungo tempo: "Certo io non sono la compagnia che lei, signore, meriterebbe. È questa la giornata più triste della mia vita e non dimenticherò mai più ch'ella, con la sua bontà , volle rendermela più sopportabile. Se lei non fosse intervenuto io m'aggirerei adesso attorno a quella triste, tristissima stazione".
"Eh! No la xe tanto trista quela stazion!" intervenne Bortolo di buon umore. "Basta saverse orizontar! Da rente ghe xe un boteghin de vin de quelo..." e staccò dal remo la destra per portarsela alla bocca e stamparvi un bacio.
Il giovanotto non rispose. Anche il signor Aghios tacque, per quanto gli dolesse di non saper premiare neppure con una parola lo sforzo di divertirli fatto dal povero Bortolo.
"Vedrà " disse improvvisando "che alla giornata più triste della vita ne seguono altre lietissime."
"Non è possibile!" disse vivacemente il Bacis.
"Eh! i zovini credi sempre d'essere in ultima malora!" borbottò Bortolo. "Daché mondo xe mondo a, quell'età se se copa una volta al giorno."
Quest'intervento era meglio riuscito del primo. Con un sorriso l'Aghios si rivolse al gondoliere: "Eppure fra voialtri gondolieri i suicidii sono rari anche da giovani".
Il gondoliere ci pensò un istante prima di rispondere e si curvò innanzi per un colpo vigoroso del remo. Poi, rizzandosi, confermò: "Xe proprio vero!". Si sporse ancora una volta inanzi, lento e riflessivo. Poi sciando: "Noi povareti semo tanto abituai a difender la nostra vita che non la demo via per gnente".
Con vigore, ma a bassa voce in modo da non esser sentito dal gondoliere, il Bacis avvicinandosi all'orecchio del signor Aghios disse: "Anch'io sono un povareto, ma il mio dolore è tale che della vita che sempre difesi non so più che farmene".
Era un dolore iroso che in quelle parole si manifestava. L'Aghios però poco pensò a quel dolore, ma subito, spaventato, a se stesso. Aveva fatto, bene di accollarsi un compagno simile, che poteva magari ammazzarsi a lui da canto. Oh! quanto gli sarebbe stata più cara la compagnia della moglie!
Anche lui con voce bassa, ma angosciata, disse al Bacis: "Io spero bene che in mia compagnia ella non si abbandonerà ad alcun atto contro la propria vita".
"Oh! sia tranquillo!" assicurò il Bacis. "Ho promesso d'essere domani a Udine e certamente domani sarò a Udine. Poi... io non muoio volentieri. Prima di tutto la speranza l'ho tuttavia. Lei è stato tanto gentile con me che le racconterò tutto quando saremo soli. Vedrà ! Io amo e ho tradito l'amore. Non sarebbe neppure un'azione decente quella di sparire ora. Le racconterò tutto. Già , rivelando il mio segreto a lei, io non comprometto nessuno. Lei domani avrà dimenticato il mio nome e tutta l'avventura."
Il signor Aghios non protestò. Egli sapeva che del viaggio poco si ricorda. Passano fisonomie e s'accumulano confuse in un cantuccio della memoria, diventando collettività , nazioni, sessi, mai individui. Come nel sogno, ch'era tanto difficile di ricordare, perché piombava dalla notte oscura in un lampo di magnesio in cui s'agitavano cose e persone. Ecco, in un vagone si discorreva e tutto quanto si diceva aveva un sapore di teoria vaga, in quella vettura tanto simile a tutte e passando traverso un paesaggio che a quella vettura non apparteneva. Vero è: Vent'anni prima una giovinetta, ch'egli non aveva mai vista, s'era gettata durante la notte dal vapore in una cabina del quale egli aveva dormito. Per il fatto d'essere stato in quel piroscafo egli non dimenticò più il nome di quella giovinetta e la immaginava come, caduta in acqua e forse tuttavia galleggiante, guardava allontanarsi il piroscafo illuminato che l'abbandonava alla notte e alla morte. Alla mattina c'era stata una inchiesta a bordo ed egli nel rispondere aveva balbettato, sentendosi colpevole di aver dormito quando avrebbe potuto procurare il soccorso alla giovinetta forse già pentita dell'atto inconsiderato e che forse, prima di essersi rassegnata alla morte, aveva anche domandato aiuto ad alta voce. Ma qui c'era stata l'avventura rara e importante ch'è la morte. Tutto il resto aveva dimenticato. Certo non le sue osservazioni sulle belle donne, sui cani, sui gatti e persino sugli uomini. Non la fisonomia! Era difficile (almeno a lui) di ricordare una linea e invece facilissimo di ritenere un'espressione.
Il Bacis aveva richiuso gli occhi e s'era abbandonato sul cuscino. Il ricordo troppo vivo del proprio dolore l'aveva allontanato da Venezia.
E il signor Aghios lo lasciò tranquillo e si abbandonò alle proprie riflessioni. Costui aveva amato e tradito! In quelle parole c'era una tale sintesi di avventura umana che al signor Aghios parve di trovarsi di nuovo a guardare sul destino umano da un treno lanciato a piena velocità e di non arrivar a vederne altro che quella parte comune a tutti i mortali.
Nel grande silenzio della Laguna, dove egli non scorgeva altra vita che quella rinchiusa in quella gondola, ch'era in certo modo non la vita stessa, ma l'occhio che la guardava, il signor Aghios poté rifigurarsi, ad onta dei palazzi granitici fra cui passava e che non necessariamente implicavano la vita, l'assenza di vita su tutto il pianeta. Pochi giorni prima egli aveva letto in un giornale che oramai si riteneva che quando la terra era già abitabile, per un caso qualunque era stata infettata di vita da un altro pianeta. Dopo tutto si spiegava: I piccoli animali arrivati quaggiù liberamente si misero ad amare e tradire e invasero tutto, il mare e la terra, per svilupparsi e continuare ad amare e tradire in ogni loro stadio.
"Mi stago atento de no far susuro col remo per no sveiarve" disse Bortolo, cui era duro di star zitto per tanto tempo.
Si! Non era giusto di traversare muti la Laguna e nello stesso tempo di dimenticarla. Si passa dinanzi a Palazzo Pesaro, bruno tempio dalle pietre quadre, ma consacrato all'arte, e ad alta voce il signor Aghios menzionò il nome di Umberto Veruda, il grande pittore triestino il cui capolavoro vi dormiva.
Il Bacis aperse gli occhi per un istante e li richiuse subito. Ma il signor Aghios da quel ricordo si sentì vivificato. La Laguna apparteneva a tutti i veneti ed anche a lui. Era il pertugio per cui essi arrivavano al grande mondo.
Perché da tanta altezza egli improvvisamente scese tanto in basso da ricordare di nuovo il Meuli, l'uomo dalle sette lingue? Forse pel desiderio di svagare il suo compagno, che non pareva ormai più accessibile alle cose belle fra cui si movevano e, senza farne il nome, raccontò la sua avventura col Meuli, cioè il beneficio che gli aveva reso e come ne era stato compensato.
"Scometo" disse Bortolo "che de quela figura ludra de ... " E nominò un altro gioielliere.
L'Aghios protestò, ma Bortolo insisteva "Mi lo conosso! El xe proprio capaze de un'azion simile".
"Ma insomma non può essere lui, visto che non è triestino" disse l'Aghios impaziente. Per nulla al mondo avrebbe voluto lasciare una calunnia come traccia del suo passaggio per il Canalazzo.
"El xe de Corfù, ancora pezo" si lasciò sfuggire Bortolo. L'Aghios rise di tanta ingenuità , in persona che certamente lavorava e anche parlava per vedersi aumentata la mancia.
"E lei tratta tuttavia con quell'individuo?",domandò il Bortolo con vivo interesse.
"Altro che! E ben volentieri! È un buonissimo gioielliere; ha delle bellissime cose ed io gli raccomando tutti i miei amici avvert...
[Pagina successiva]