[Pagina precedente]... il giovanotto si destò, si levò e uscì sul corridoio a guatare la penombra, la fronte poggiata sul vetro della finestra.
Il Borlini si chinò all'Aghios: "Chi geme in pubblico, si prepara a domandare dei denari in prestito".
Era una gentilezza e l'Aghios sorrise per ringraziare, ma non sentì gratitudine. Se si doveva guardare con diffidenza un uomo che gemeva, allora si faceva meglio di restare celato fra le proprie pareti e non moversi. Sentire un gemito e diffidare? Solo diffidare? Era proprio come chi si mette a correre sentendo chiamare aiuto, perché il grido è in sé un avvertimento di pericolo.
Il giovanotto ritornò al suo posto e si sdraiò nel suo cantuccio proprio nella posizione di prima. Intanto il signor Aghios intese ch'egli non poteva soccorrerlo neppure con una parola. La buona educazione imponeva così.
Quando si sorprende un gemito si deve fingere di non averlo sentito. Non per niente si era un gentiluomo. Tutto doveva continuare come se il gemito non fosse stato emesso. "Non devi intrudere" ammonì se stesso il signor Aghios.
III. Verona-Padova
Ma prima di abbandonare Verona la vettura accolse tre nuovi ospiti che al signor Aghios parve di riconoscere. Il contadino, la moglie e la figliuola ch'egli credeva di aver visti alla stazione di Milano. Gli pareva soprattutto di riconoscere il gonnellino, rigonfio molto, della fanciulla. Questa gli pareva più giovinetta di quella che aveva visto dormire alla stazione, perché questa non poteva avere neppure dieci anni. Ma non si poteva dirlo, perché un bambino con gli occhi aperti non somiglia ad uno che li ha chiusi. La madre era ben vestita con un fazzoletto di seta annodato sul capo in luogo del cappello. La sua faccina sotto a quel fazzoletto, un po' incartapecorita forse dalle intemperie, era ammorbidita dagli occhi azzurri, serii, ma vivi. Il contadino era privo di colletto, ma vestito pulitamente alla cittadina. Quel fazzoletto sulla testa della contadina, nitido e bianco, era adorabile. La donna inchinavasi agli antenati per sottomettersi al marito che non li curava.
Il giovanotto nel cantuccio fu obbligato di ritirare le gambe. Lo fece senza dire una parola, ciò che al signor Aghios parve scortese, lui che voleva il suo viaggio soffuso di gentilezza. Del resto a lui pareva d'imbattersi in conoscenti e avrebbe voluto aprire loro le braccia. Doveva però diffidare, perché al signor Aghios mancavano due qualità : L'orientamento e il riconoscimento delle fisonomie. A Milano, dopo esserci stato tante volte, non sapeva andare da solo dalla stazione a piazza del Duomo ed era incapace di trovare sulla via chi conosceva ed incapace di non salutare tutti gli sconosciuti. Per essere sicuramente conosciuti da lui bisognava averlo praticato da molti anni. Come è tanto difficile di apprendere da vecchi una lingua, così egli non sapeva più stampare nel suo cervello la fisonomia di gente nuova. Forse era la stessa deficienza che gl'impediva l'orientamento. Infatti, intorno al naso e agli occhi degli uomini, ci sono delle vie, androne e piazze di cui, per la loro minutezza, è difficile d'intendersi. Li conosceva o non li conosceva quei contadini? I biglietti ferroviari erano ora tenuti in mano, fissati negligentemente col pollice sulle altre dita robuste e rudi della donna, mentre a Milano li aveva tenuti il contadino. Ecco una differenza e il signor Aghios fu più dubbioso che mai.
Anche il Borlini guardò quei biglietti. Si chinò all'Aghios, come per dirgli qualche cosa d'importante, e gli soffiò nell'orecchio: "Quei biglietti sono di terza classe".
Il treno correva da una decina di minuti e la fanciulla si guardava intorno come se cercasse qualche cosa. Poi si piegò sul grembo della madre e mormorò: "Mama, voio veder".
Anch'essa aveva la testa coperta dal fazzoletto annodato al mento. La faccia sua era rosea e fresca, gli occhi azzurri, più chiari che della madre, grandi, la cornea bianca, luminosa anch'essa. Parlavano il veneto ed era difficile fossero venuti da Milano.
La madre si chinò e disse: "Guarda alora. No ghe xe gnente da veder". Parlava a bassa voce. Pareva intimidita dalla compagnia di quei signori silenziosi.
Il signor Aghios, che non aspettava di meglio, fece posto alla finestra: "Vuol vedere! Ha ragione! Anch'io quando viaggio voglio vedere. La ponga qui".
La bambina guardò supplichevole la madre, la quale volse il guardo come a domandare consiglio al marito. Questi sorrise, "Se sto sior xe tanto bon, no vedo perché la picola no dovaria godersela. Zà no restemo tanto, perché ghe semo subito a ... ".
E subito preso in braccio il piccolo fagotto di vestiti, lo depose al posto lasciato libero dal signor Aghios.
La piccina guardò la campagna che fuggiva e per qualche minuto stette silenziosa. Poi aderì con tutta la faccia al vetro e il signor Aghios sorrise perché intese che faceva così per vedere meglio. Indi si volse al padre piagnucolando: "Mi voria veder".
"E no ti vedi?" domandò il padre stupito.
"Mi no che no vedo!" esclamò la fanciulla e volse alla madre i chiari occhi, resi anche più chiari dalle lacrime che cominciavano a formarvici. La madre accorse e sedette fra il padre e la bambina, così che il signor Aghios dovette spostarsi ancora una volta per fare luogo, fatica che gli fu resa più facile da un cordiale: "El scusa tanto!" del contadino, mentre il Borlini lanciava un biasimo parlante traverso ai suoi occhiali.
La madre domandò: "Ma coss'ti vol veder? No ti vedi tuto? ".
La fanciulla scoppiò in pianto: "No vedo el treno".
Il Borlini scoppiò in una risata e i genitori risero anche loro, un po' imbarazzati dalla bestialità della figliuola. Il solo Aghios fu commosso . Egli solo sentiva e sapeva il dolore di non poter vedere se stesso come viaggiava.
Il piacere del viaggio sarebbe tutt'altro se si avesse potuto vedere il grande treno con la sua macchina come procedeva traverso alla campagna, come un serpente veloce e silenzioso. Vedere la campagna, il treno e se stessi nello stesso tempo. Quello sarebbe stato il vero viaggio.
Domandò sorridendo: "È la prima volta che la cara bambina viaggia?".
"Sì!" disse pronta la contadina. "E se ghe ne parla zà da quindese zorni de sto viagio."
L'Aghios si commosse. Quindici giorni su questo viaggio e trovarsi poi in questa gabbia chiusa! Nella mente giovinetta il viaggio avrebbe dovuto concedere il piacere di una passeggiata senza fatica moltiplicato per infiniti numeri. Quale delusione!
Poi venne il peggio. Il controllore si presentò alla porta a rivedere i biglietti. Quelli dei tre ultimi venuti erano di terza classe ed essi dovettero sgombrare. È vero che alla prossima stazione sarebbero discesi, ma intanto dovevano cambiare di vagone. Per quanto il controllore fosse abbastanza urbano, tuttavia la sua voce ebbe qualche accento imperioso. La bambina non pianse più e si ficcò timorosa fra padre e madre ch'erano già in piedi. L'Aghios domandò al controllore: "Non si può chiudere un occhio per una stazione sola?". I contadini erano già usciti dallo scompartimento. Il controllore cortesemente disse: "Io faccio il mio dovere".
E l'Aghios deplorò di non aver avuto il coraggio di stampare un bacio sulla fronte della bambina, là , sopra agli occhi chiari che avrebbero voluto vedere il treno. Lui, di seconda classe, per affetto alla terza.
Il Borlini era tutto approvazione: "Ordine ci deve essere". L'Aghios non protestò, perché pensava a cappuccetto bianco come passava fra la gente sul corridoio.
"Quella del treno mi piacque" disse il Borlini. "Tanti bambini tardano molto a intendere le cose. Vuol vedere il treno e c'è dentro."
Poi raccontò di avere anche lui a casa due bambini, uno di sei e l'altro di quattro anni e mezzo. Egli s'era sposato tardi. "Sì! Dopo raggiunta la necessaria posizione." Il secondo vedeva tutte le cose che non importavano, le automobili che passavano lontane e non quelle che minacciavano di schiacciarlo e il palazzo alto e non la pietra su cui incespicava.
"Dovrebbe essere consanguineo di quella bambina che non vedeva il treno" disse il signor Aghios.
Il Borlini non parve approvare l'osservazione. "Il mio è un po' più fine per quanto bestia anche lui."
Poi raccontò che pochi giorni prima era con Pucci a passeggio e videro due carabinieri col loro mantello un po' minaccioso sotto a quel cappello napoleonico. E il bimbo spaventato domandò se quei carabinieri sapevano ch'essi non erano dei ladri. "Si può essere più sciocchi di cosi?" esclamò il Borlini.
Subito l'Aghios prese interesse al chiacchierio vuoto del suo compagno. Come si sentiva amico del piccolo Pucci dal cuore palpitante di paura d'essere preso per un ladro o forse di esserlo! Il ladro poteva essere preso in flagrante, ma non c'era una prova così risolutiva per il non ladro. Era come la prova Wassermann. La negativa non era mai sicura. Il microbo del furto poteva esserci nel sangue, ma aspettare una buona occasione per dar segno di vita.
Poi il Borlini, fra una tirata e l'altra del suo minuscolo toscano che gli aveva consumato una scatola intera di cerini, disse ancora di Pucci, che aveva paura di notte, ma che si sentiva più sicuro se gli permettevano di tener nel letto un giocattolo, per esempio la palla di gomma. "C'è senso?" domandò il Borlini. "È però di buona razza" disse il Borlini, "e somiglierà presto a suo fratello che non ha di tali rane. "
Strana asserzione! Se non ci fosse stato l'obbligo della cortesia il signor Aghios, per la propria esperienza di sessant'anni, avrebbe potuto raccontargli che quando si nasce fatti in un modo, si resta così. Era invece un grande disgraziato, quel povero Paolucci ch'era nato in una famiglia che non faceva per lui. L'Aghios lo intendeva, perché anche lui aveva sofferto di paure quando ancora la vita non gli aveva insegnato quanto minacciosa essa fosse. Aveva sognato di quegli animalucci piccoli, rapidi, inafferrabili e schifosi, roditori e insetti quando ancora non aveva sospettato che prima o poi l'avrebbero raggiunto, e di grandi oscurità prima di sapere che l'oscurità era la nostra meta. E nel suo letto egli aveva portato con sé un cavalluccio di legno e dormendo lo stringeva al petto. Finora egli aveva creduto d'aver fatto così per bontà , attribuendo una vita bisognosa di calore a quel suo cavalluccio di legno che alla vita apparteneva per la sua forma ruvidamente sbozzata. Ma la palla? Quel Paolucci, il suo vero fratello, teneva in letto una palla! Quella poi non aveva bisogno di calore, con quella sua forma rigidamente rotonda che non apparteneva alla vita. E quando l'aveva vicina si tranquillava e aveva meno paura! Ma era un simbolo quello; s'attaccava al suo divertimento per dimenticare la vita (divertimento = diversivo, pensò l'Aghios senza che il suo figliuolo sentisse). Come il piccolo Paolucci aveva potuto assurgere a tanta altezza! Ma ora, in tutta la sua vita, che l'Aghios, sinceramente gli augurava lunga, egli non poteva apprendere nulla di più nuovo, nulla di più alto, nulla di più amaro. Perché viveva ancora? Il fratello suo! Quale avvenire lo aspettava! Anche lui, quando non aveva saputo simulare, aveva passato la sua vita fra sorrisi di scherno, correzioni imperiose o sprezzi. Per sua sfortuna e propria sventura il figliuolo suo non gli somigliava affatto, privo di paure, accorto e abile, sentendo il divertimento come il suo destino. Non sospettava che cosa fosse la vita e non se ne curava, come se egli alla vita non avesse appartenuto. La godeva dimenticandola. Studiava poco, ma sapeva maneggiarsi. Sapeva anche poco, ma aveva sempre pronti molti dati precisi che gli davano facilmente la vittoria. E aveva a disposizione molti libri in cui sapeva trovare tutto quanto gli occorreva per discutere.
E per lungo tempo il piccolo Paolucci fu il suo compagno di viaggio. Il Borlini ne disse ancora una parola: "Mentre suo fratello maggiore camminava sicuro, attaccato alla mano del padre, Paolucci si faceva sempre trascinare. Era come la moglie di Lot e guardava dietro a sé. Certo per vedere più a lungo le cose".
Paolucci Borlini po...
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