[Pagina precedente]...aveva in bocca, il signor Aghios l'aveva accesa proprio a scopo sociale, altrimenti egli avrebbe saputo restarne senza per lungo tempo. Ma la gentilezza! Mentì una seconda volta assentendo, ma ne fu subito consapevole.
Strano! Con gli sconosciuti si mentiva disordinatamente, senza un vero scopo. Con lo sconosciuto non c'era mai un vero accordo. Anche con chi intimamente si conosceva c'era spesso la stonatura, ma non così. Così era un gridìo discorde, come nelle orchestre quando ogni singolo suonatore tocca lo strumento per provarlo, sentirlo e regolarlo. La menzogna con coloro che ci conoscevano s'adattava a tutte le circostanze per essere più credibile. Nel treno che correva era suggerita dal capriccio, mancava dello sforzo consapevole ch'era un fine lavoro mentale. Il signor Aghios si toccò la bocca per frenarla e toglierle quella libertà . Egli voleva traversare il mondo serio, serio, non falsificandolo con parole che somigliavano ai sassi che il monello gettava per il solo bisogno di moversi, senza preoccuparsi dove andava a finire, magari nell'occhio del prossimo. Era dunque più difficile di saper muoversi con dignità fra sconosciuti e a lui era toccato di sbagliare perché poco uso alla libertà , come quei cani di catena che appena liberi guastano il giardino.
Ma c'era dell'imbarazzo nel suo animo e il signor Aghios, per moversi e svincolarsi, aperse il finestrino e comperò un arancio. Una lira! Egli non aveva fame, perché aveva mangiato poco prima di lasciare Milano. Ma non era male di avere un arancio in tasca per l'eventualità di essere colto dalla sete. Una lira, una lira intera!
Il fumatore di toscani era sempre occupato a tirare e sotto ai grossi occhiali gli occhi loscavano per veder meglio il sigaro. Tuttavia doveva aver seguita la transazione fatta dal signor Aghios perché mormorò: "Un arancio una lira. Almeno con questo prezzo non c'è da perdere tempo. Si dà la lira e non c'è resto".
"Né arresto del treno" disse il signor Aghios, pensando subito che con gli sconosciuti si dicevano più parole inutili che con gli amici. Allora si avrebbe dovuto tacere?
Non aveva scrupoli l'altro, perché si mise a parlare abbondantemente dei prezzi bassi di cui si aveva goduto nella sua infanzia. Accarezzava quei prezzi bassi come se fossero stati suoi cari congiunti decessi. E, ad onta degli scrupoli ch'egli aveva interi, anche il signor Aghios parlò di sue lontane rimembranze. Dopo le prime parole si trovò trasportato in tutt'altra epoca, quasi dimenticando che s'era mosso per riscontrare dei prezzi.
Una luminosa mattina di agosto sulla bella strada che va da Tricesimo alla Carnia. Lui e un suo amico, un pittore, in una carretta tirata da un cavallo, che ha il vizio ad ogni tratto di rallentare il passo per sentire meglio quello che si dice nel veicolo cui è legato. Non vi sono frustate, perché nella vasta verde campagna friulana, tra quelle colline che si sporgono cariche di alberi, nella quiete della mattina soleggiata, l'ira stonerebbe. I due giovini, nella loro gioia, sono buoni e amano il cavallino che insieme alla carretta, per una giornata intera costa due lire.
"Non è molto, ma neppure tanto poco", disse dottoralmente l'altro. "Anche oggidì in Brianza, ma d'inverno..."
Il signor Aghios subì tranquillamente l'interruzione. Egli era ora col pensiero tutto in un piccolo luogo della Carnia, Torlano, ai piedi della Carnia, un luogo che a lui, che allora era capitato per la prima volta in una parte nuova del Friuli, sembrava non friulano e neppure italiano. I tetti delle case erti, vicini alla perpendicolare, sembravano fatti per coprire delle case nordiche. Il signor Aghios non ricordava dettagli, ma ricordava tutto l'insieme nitido sorridente, con tanto colore italiano sulle linee quasi gotiche. Accanto a lui, il pittore guardava con gli occhi semichiusi e ambedue associavano la loro ammirazione, la società più intima umana. C'era anche un ruscello, imponente per certi strati azzurri nell'acqua qua e là profondissima e per la foga dell'acqua, viva per la sua recente caduta di montagna. E di tutto questo il signor Aghios tacque, perché non era cosa che appartenesse al signore dai grossi occhiali.
Ma gli raccontò che in quella perla del Friuli lui e il suo amico andarono a rassodare il loro entusiasmo ad una merenda. Fu una merenda a periodi. Dapprima un latte squisito, tinto da un po' di caffè e pane casalingo ancora caldo e un burro autentico, un po' ingenuo e aspro. L'appetito aumentò e, vennero due uova al tegame. Poi un po' di salame tenerello, perché anch'esso nato appena e non ancora cristallizzatosi nel nuovo assetto. E giovine anche il formaggio che seguì, e il vecchio signor Aghios sapeva che il formaggio vetusto è buono, ma che il giovanissimo ha pure i suoi pregi. La merenda fu chiusa da una bottiglia di vino di Torlano. Oh! il vino di Torlano! Giallo e luminoso di luce propria e vivo come l'acqua di Torlano, scesa allora allora dalla montagna. E il vecchio s'incantò a ricordare quella roba giovine e quel vino vecchio (aveva tre anni, di quegli anni lunghi della montagna) e la propria fresca gioventù resa geniale dal grande pittore triestino, sparito tanto presto e che guardando il ponte di Torlano sapeva come Manet l'avrebbe ritratto. Ma a Torlano, dove la montagna incombeva, il ponte non avrebbe potuto restare solo e giganteggiare. Tutto era sparito. Era impossibile che Torlano esistesse ancora, quand'era morto il pittore che l'aveva baciato, e lui era là molto simile a quanto era stato, ma non più simile di una fotografia ad una cosa viva. Ed ora, che guardava indietro, era immobile come una fotografia. Pare che ricordare non sia una vera azione. Il ricordo lo si subisce immobile. Chi ricorda e chi è ricordato s'immobilizzano.
Il suo compagno lo richiamò al movimento del treno. "E il conto fu piccolo?" E infatti il vecchio sentì, ritornando in sé, la spinta del treno che lo fece piegare per innanzi.
Aghios sorrise. "Non basta ancora. Anche il cavallo ebbe la sua merenda: Granturco, perché non c'era avena. In un cortile vasto (lo spazio a Torlano non manca) fu lavata accuratamente la carretta ch'era sudicia, perché, essendo stata guidata dal pittore, aveva finito talvolta fuori della strada carrozzabile."
"Ebbene!" disse il grosso uomo. "Io scommetto d'indovinare a quanto ammontò il conto. Due lire o, tutt'al più, due lire e cinquanta."
"Ella sbaglia di una lira intera" disse il signor Aghios.
L'altro fece atto di non credere. Parve anche fosse in procinto di protestare. Poi s'accontentò di far conti e mormorò: "Due tazze di latte, pane à volonté... quattro uova al tegame... due formaggi. Una lira e cinquanta a me pare poco".
Al signor Aghios, che pur tanto amava la sincerità , la protesta dell'altro parve scortese e anche imprudente. Che cosa poteva lui saperne dei prezzi di Torlano nel milleottocento e novantatré?
E brevemente aggiunse: "Io fui tanto stupito di tale conto, che proposi al pittore di dare una lira intera di mancia, nel quale caso la merenda avrebbe costato proprio quello ch'ella dice. Ma il pittore m'ingiunse di dare solo venti centesimi di mancia, perché pretese che altrimenti il mondo si guastava. Io feci come egli disse. Così truffai Torlano e, tuttavia, come si vide, il mondo si guastò".
Meno male che il suo interlocutore a quest'osservazione dell'Aghios vivamente assentì ed anche rise, perché una constatazione molto giusta fa sempre da ridere. Volle però aggiungere la sua pezzetta e disse: "Chissà se anche Torlano è tanto guasta?"
"Io spero di no" disse l'Aghios fervidamente. E non pensò ai prezzi, ma a quell'acqua bene incanalata che cantava la sua mite canzone a quel ponte e a quelle case grandi abitate da gente semplice, ma nutrita di buone cose.
I due s'erano ormai fatti abbastanza intimi e si presentarono. "Ragioniere Ernesto Borlini."
Il Borlini si stupì nel sentire il nome dell'Aghios. "Greco? " "D'origine, ma lontana." Era da lungo tempo che l'Aghios non pensava al suo nome greco perché chi lo conosceva accettava quel nome come se fosse stato italiano. Certo nella sua vita, causa quel nome, spesso egli aveva rovistato nel proprio animo curioso di scoprirvi qualche cosa del più geniale dei popoli. Tante volte aveva analizzato qualche propria parola per vedere se poteva considerarla arrivata da paesi lontani e tante volte aveva accarezzato una propria idea come sorprendente, nata in un cervello atteggiato altrimenti dai cervelli dei suoi vicini. Adesso pensò: "Se l'origine valesse qualche cosa, io, dunque, mi troverei in viaggio tutto l'anno". Ma molta sua superbia era sparita dacché egli aveva accanto il figliuolo che ne sapeva più di lui.
Rapido il pensiero del vecchio si ripiegò su se stesso. Subito egli dovette ridere. Somigliava egli a Dante o a Omero? In complesso non c'era niente da perdere scegliendo una nazione o l'altra. Umiliato dal proprio riso, passò a considerare le tabelle statistiche. Delitti passionali e fazioni da una parte e dall'altra. Nulla da guadagnare mettendosi di qua o di lì. Eppoi quanti italiani non erano greci senza saperlo? No! No! Anche lui, per trovarsi in viaggio, doveva pagare il biglietto ferroviario.
"Ho piacere ch'ella non sia greco!" disse il Borlini. "Io, i greci, non li posso soffrire."
L'Aghios ebbe una smorfia d'imbarazzo. Che cosa poteva dire a quel grosso uomo che in quel momento gli aveva serrata la mano e che subito gli dichiarava che metà dei suo organismo gli era odiosa? Il signor Aghios si rassegnò a pensare: "Se tu odii i greci io me ne infischio. Di te non so che il nome, Borlini, e m'è odioso perché lo porti tu". E tacque. Non occorreva abbandonare la propria famiglia per litigare.
I due cominciavano a conoscersi ed era una intimità . Improvvisamente il signor Aghios fu nettato dal suo disgusto da un suono strano, nuovo, che interrompeva le tre, quattro o più note prodotte dal procedere del treno. Il giovinotto, nel cantuccio, ch'era rimasto immoto con una mano sugli occhi, emise un vero gemito. Il gemito è veramente un suono d'intimità . Tutta una via cambia d'aspetto se un suono simile vi è emesso in modo da esser sentito. L'indifferente viandante s'arresta e pensa: "Oh! poverino! Guarda quello che gli accade e può domani accadere a me che ogni giorno passo per questa stessa via".
L'Aghios e il Borlini, stupiti, guardarono il gemente. Troppo a lungo tacquero e ciò rese accorto il giovanotto che lo si osservava. Levò la mano dagli occhi e guardò i due compagni di viaggio. Lo guardavano, il Borlini proprio chino per innanzi per accostarglisi meglio.
"Sta forse male?" domandò l'Aghios, subito fraterno.
"Perché?" domandò il giovanotto stupito. Aveva dei begli occhi bruni sotto una chioma quasi bionda. "Scusi tanto!" disse l'Aghios. "Ha sognato forse e ha emesso un gemito."
"Può essere" rispose il giovine. "Ciò mi avviene talvolta. Mi scusino. Io non sono malato. Pensavo a certa mia sventura e perciò gemetti. Mi compatiscano." Chiuse gli occhi e si riadagiò nel suo cantuccio. Poco dopo trasse a sé la tenda e se ne coperse il capo. Voleva una grande oscurità quel disgraziato, perché nella vettura la luce era scarsissima. S'era già al crepuscolo, eppoi il cielo s'era coperto.
Il signor Aghios continuò a guardarlo. Oh! quanto avrebbe desiderato di poter lenire il primo dolore in cui s'imbatteva in quel suo viaggio. Un gemito, poi, è il suono più familiare che un uomo possa indirizzare ad un altro. Lo s'intende subito. È più intelligibile di una parola, perché sfuggito all'organismo che lo formò e non lo volle come tutte le sue funzioni. Così il polmone respira e il cuore batte. E il suono va direttamente al cuore degli altri che sanno anch'essi formarlo e perciò l'intendono.
Invece il Borlini guardava il dormente con quei suoi occhi rotondi sotto agli occhiali, con piena, grande diffidenza. Quando avvenne la solita rivoluzione all'arrivo a Verona e la gente di tutto il vagone si mosse, uscendo a prendere aria sulla banchina della fosca stazione o per restare nella più luminosa delle città ,...
[Pagina successiva]