[Pagina precedente]...a accomodato nella gondola e si fregava ancora il ginocchio. Mormorò: "Non fa nulla. È stato proprio per colpa mia. Avrei dovuto far meglio attenzione". E al signor Aghios, che anche lui s'informava come si sentisse, disse che non valeva la pena di parlarne.
Poi, mentre la gondola s'avviava sull'acqua trasparente, illuminata dagli ultimi bagliori dimenticati del sole già sparito, una sorpresa dolce, una carezza, venendo dal lungo viaggio traverso la campagna autunnale, il signor Aghios diede ordine a Bortolo di portarli in piazza per la via più breve. Al ritorno sarebbero passati per il Canal Grande.
"Io mi chiamo Giacomo Aghios" disse il signor Aghios volgendosi al suo vicino. Probabilmente era stato spinto a questa presentazione dall'osservazione fatta poco prima dal gondoliere dì non sapere il nome del giovanotto.
Questi strinse la mano portagli dall'Aghios ed esitò per un istante. Ma poi l'esitazione fu spiegata: "Strano! Anch'io mi chiamo Giacomo. Giacomo Bacis. Il nome rivela la mia origine friulana. Anche il suo mi pare?".
"No! No!" disse il signor Aghios ridendo di cuore. "Io discendo da una razza molto più antica della celta."
"Greca?" domando il Bacis ammirando.
Il signor Aghios annuì. "È comodo" disse "di appartenere ad un'altra razza. Così è come se ci si trovasse sempre in viaggio. Si ha il pensiero più libero. È così che quando si tratta di modo di vedere italiano io non sono d'accordo neppure col modo di vedere greco. L'ultimo greco col quale fui d'accordo è Socrate."
"Io" disse il Bacis, "sono di quei friulani che sanno due lingue e un dialetto. Sono in viaggio anch'io." Rise per la prima volta dopo la stazione di Milano di un riso abbondante, quasi infantile, che lo portò subito più vicino al cuore del signor Aghios, il quale anche pensò: "Com'è intelligente il mio nuovo amico. Immediatamente intese intera la teoria che fa del viaggiatore una persona di eccezione, mentre io per elaborare un concetto tanto semplice impiegai quasi 60 anni".
Passato il Ponte della Ferrovia poterono gettare un'occhiata al grande canale. La modestia della penombra crepuscolare su quell'acqua e su quei marmi ne rilevava il colore e la linea. Subito entrarono nel rio dove le forme grandiose del canale si riducevano e variavano in motivi capricciosi ch'erano la continuazione, anzi, la integrazione della forte melodia che non ancora aveva liberato i loro sensi. Davvero a Venezia si può credere che di tutte le costruzioni grandiose siano avanzati dei pezzi e che tali pezzi siano serviti a costituire piccoli organismi, che all'altro somigliano nel dettaglio e ne differiscono radicalmente nell'espressione.
E la gondola della benevolenza (perché c'era lui, il signor Aghios, e il suo nuovo amico che egli sottraeva ad una grande tristezza e il gondoliere che tanto volentieri per lui vogava) procedeva nel rio oscuro, misterioso, allargantesi ora per una vasta marmorea scala d'approdo, ora ristretto fra mura sormontate dal verde, ancora evidente nell'oscurità , di alberi incredibilmente vivi nell'ambiente dell'acqua salata e delle pietre.
"Magnifico!" mormorò il Bacis.
All'Aghios batté il cuore dalla compiacenza. Era come se gli fosse stato indirizzato un ringraziamento vivissimo, il più fervido che la nostra lingua comporti. E a sua volta egli mandò un saluto riverente agli antenati pirati che sulle loro piccole piroghe erano corsi per il mondo a cercare oggetti preziosi per portarli nella loro strana casa e disporli in modo da renderli tutti ugualmente preziosi. Chi sa donde era venuta quella pietra bianca che nel rio scuro segnava dinanzi ad una porta l'altezza dell'acqua. Era possibile che in mezzo al combattimento il pirata si fosse fermato a guardare quella pietra intensamente, ricordando la propria abitazione dormente nel rio tranquillo e si fosse caricato del grosso oggetto solo per disegnare sulla casa già completa una linea nuova?
Il signor Aghios aveva una nozione molto superficiale della storia di Venezia e di Venezia stessa. Perciò con tanta facilità la sua scienza si convertiva in un sentimento. Anche dagli altri greci ogni ignoranza aveva creato il premio. Egli sapeva il nome di qualche palazzo, ma specialmente sapeva la differenza fra palazzi giacenti nei rii e quelli del Canalazzo dall'unica facciata adorna; magnifici quelli, alcuni però tronfi, in lotta con la magnificenza del loro contorno, mentre nei rii i palazzi erano quadrati e completi e s'adagiavano nel contorno, sua parte evidente. Non conosceva Venezia, ma la teoria su Venezia.
Poi il signor Aghios si dimostrò veramente incapace Cicerone. Era stato preso da un vivo desiderio del Rio di Noal, ch'egli non vedeva da vari anni e, in mezzo ai tanti rii per cui passarono e persino quando giunsero dinanzi alla Salute e a S. Marco, continuò a parlare di quel rio ampio, tranquillo e modesto, che non era stato addobbato da nessun altro che dalla propria vita tranquilla, la propria necessità di bellezza.
"Andiamoci! " propose a mezza voce il Bacis.
"Non si può" disse sospirando l'Aghios. "Adesso sono le otto. Perderemo sicuramente una mezz'ora in piazza. Poi ci vorrà , con questo benedetto Bortolo, più di un'ora per arrivare alla stazione e infine bisognerà anche mangiare qualche cosa, perché di notte con quel nostro treno non troveremo nulla fino a Trieste."
Del resto e nell'intimo dell'animo suo il signor Aghios lo riconobbe. Non sarebbe stato bene di vedere quella sera il Rio di Noal. Così desiderato da lontano, posto al disopra della piazzetta e della vista su S. Giorgio, diventava una cosa enorme. Lo adornava il desiderio e anche l'impossibilità di raggiungerlo.
E davanti al palazzo dei dogi il signor Aghios parlò ancora dell'unico ponte di legno che fosse a Venezia, situato anche quello nel suo rio... Poi egli stesso s'avvide che non era possibile di continuare a parlare del Rio di Noal a chi non l'aveva mai visto e stava guardando la Chiesa di San Marco intento e raccolto.
Poi il signor Aghios parlò del quarto d'ora terribile di Venezia, non durante la guerra, ma molto prima, alla caduta del campanile, e descrisse il terrore che aveva provocato lo stato del Palazzo, l'allontanamento della Biblioteca e la chiavatura delle mura che danno sul Rio della Canonica, fasciature che rappresentavano il pericolo enorme e anche un dolore come di mal di denti.
Il signor Aghios propose al Bacis di lasciarlo dinanzi alla chiesa intanto ch'egli avrebbe fatto un salto alle Mercerie per eseguire la sua missione. E avviandosi il signor Aghios con piena sincerità pensò: "Egli vedrà Venezia meglio se lasciato solo. Già io, il poeta, non so dire nulla che valga a comunicare le mie impressioni. La storia non la so, lo stile non conosco. Dunque?". E ammirò che bastava la compagnia prolungata di un solo uomo per togliergli la grande libertà del viaggio. Ci poteva essere meno libertà che quella di essere costretto di parlare di cose che non si sapevano? E poi pensò: "Non sarebbe perciò stato meglio di dividersi dal suo nuovo amico?". Gli sarebbe stato doloroso, perché egli era l'uomo dalle affezioni improvvise. E si levò dal dubbio pensando che per lui era meglio di passare la notte con persone che conosceva. Si toccò la tasca di petto.
Il signor Meuli, un uomo sulla cinquantina tuttavia biondo, ma calvo, grosso e curvo, era nella sua bottega occupato a fare qualche cosa di simile al bilancio della giornata in compagnia di un commesso. Esaminava delle annotazioni minute su un piccolo pezzo di carta, intanto che il commesso contava dei brillantini sciolti in una scatolina divenuto.
Vedendo entrare l'Aghios non sospese il lavoro, ma tenendo sempre d'occhio la cartina e il commesso gli domandò: "Qual buon vento ti porta?".
Il signor Aghios gli disse la missione da parte della moglie. Gli portava così un affare di oltre centomila lire, ma non parve che il Meuli ne fosse molto felice. Anzi assunse lui un faruccio di protezione e dichiarò: "Sono ben contento di non essermi impegnato per quel vezzo di perle. Allora resta stabilito così! Metto in disparte quel vezzo di perle per l'amica di tua moglie e non se ne parli più". Poi: "Ti fermi a Venezia?". L'Aghios gli rispose che doveva partire a mezzanotte.
"Con quel treno merci?" esclamò il Meuli stupito.
"Non si poteva fare altrimenti. Arrivai a Venezia alle 20 e il treno celere per Trieste era partito alle 18. Io debbo essere a Trieste domattina di buon'ora."
Il Meuli lo guardò ridendo. La persona dell'Aghios gli pareva tanto lenta, che gli pareva impossibile fosse spinta a tanta fretta.
L'Aghios uscì da quella bottega un po' stupito di aver trovato il Meuli più curvo del solito e anche più cereo. "Che stia male? Era un uomo tanto occupato a far denari che poteva anche morire senz'accorgersene. "
Già la morte era il presupposto della vita e quando si trattava di un uomo come il Meuli non bisognava dolersene troppo. Non che l'Aghios gli augurasse la morte, tanto più che il posto lasciato libero dal Meuli sarebbe stato occupato da un altro Meuli, ma questo Meuli qui non aveva nessuno che lo avrebbe rimpianto troppo acerbamente. Lasciava alcune povere sorelle che finalmente con la sua morte si sarebbero arricchite.
Il Meuli era stato compagno di scuola nelle elementari a Trieste. Poi aveva cominciata una sua vita avventurosa traverso tutto il mondo. Egli non amava parlarne molto, ma si diceva ch'egli fosse stato persino aguzzino di schiavi sull'isola di Giamaica. Insomma era ritornato a Trieste senza un soldo e scalcinato. Portava con sé qualche cosa d'altro: Sapeva parlare correntemente sette lingue senza saperne scrivere una sola. Il signor Aghios, che pur sapeva l'inglese, rimase stupito al sentirlo discorrere in quel linguaggio con un cliente. Come pronunzia pareva che la parola uscisse da una bocca anglo-sassone. Era probabile ch'egli non conoscesse che quelle poche parole che proprio gli occorrevano, per salutare e imbrogliare, ma era tuttavia meraviglioso per il signor Aghios che studiava da tanti anni l'inglese e che quando apriva la bocca era come se l'avesse tenuta chiusa perché nessuno l'intendeva.
Il moderno pirata aveva portato a casa anziché il sasso con cui addobbare la propria casa, sette lingue con cui costruirla. Ma bisognava trovare il modo di sfruttare le sette lingue in luogo ove non fosse domandato di saperle anche scrivere. E con occhio da uccello da preda il Meuli scoperse il punto del globo più internazionale del mondo, piazza S. Marco. Bisognava calare colà . Ma non era facile, perché sarebbe stato grave arrivarci così e senza un soldo in tasca. Qui intervenne l'Aghios con una di quelle sue buone azioni che gli scaldavano la vita: Regalò al Meuli alcuni suoi vestiti, un paio di stivali e della biancheria e contribuì anche a rifornirgli le tasche.
Passarono degli anni e il Meuli fece la carriera chiacchierando con gli stranieri un centinaio di parole per ogni lingua e vendendo loro dapprima dei merletti e poi dei brillanti. Un bel giorno il signor Aghios ebbe per un istante l'animo pieno di gratitudine per sua moglie. Ciò gli avveniva qualche volta. S'accorgeva d'aver pensato poco a lei e nello stesso tempo ch'essa per lui assiduamente aveva lavorato. Quella volta però il caso volle, ch'egli si trovasse in tasca più denaro del solito. Decise di darle in regalo un vezzo di perle. Non s'intendeva affatto di quegli oggetti il signor Aghios, ma ebbe una trovata: il Meuli era tale suo vecchio amico e gli doveva tanto ch'egli di lui poteva fidarsi. Gli commise perciò l'acquisto e quando il gioiello arrivò lo presentò senz'altro alla moglie. La signora Eleonora gradì il dono, ma nello stesso tempo in cui ringraziò il marito volle saperne il prezzo e urlò subito che il Meuli l'aveva truffato. Quel vezzo di perle rappresenta un'adunanza di perle gobbe dalla gobba di tutte le varie grandezze e in tutte le direzioni.
Il signor Aghios s'adirò e corse a Venezia. Riebbe con facilità i suoi denari ma non gli bastò e volle delle spiegazioni dal Meuli, il quale infine, con una certa tristezza, g...
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