[Pagina precedente]...barba, aggiunse mentendo: "Non v'è traccia di macchie sulla sua faccia".
Mentiva. Bastava indirizzarsi fra uomini una sola parola per correre il rischio di dover dire una menzogna. Si era nella verità fra sconosciuti soltanto. La macchia bluastra, non raggiungibile dal fazzoletto, perché vagante secondo le rifrazioni della luce, c'era su quella faccia, ma non bisognava parlarne. Perciò anche in viaggio si perdeva la propria libertà . Come di tutte le cose, anche del viaggio la parte più bella era l'inizio. Partendo si correva via immediatamente liberi dal groviglio di affari e affarucci che gremivano la vita. Per un istante si respirava liberi. Non si serviva da puntello a nessuno e nessuno più vi puntellava. Ma però con la prima parola gentile non meritata (la macchia su quella faccia c'era!) avveniva la ricostruzione del puntello che impacciava i movimenti. Si dava e si domandava l'appoggio. "Nessuno mi dirà ch'io abbia parlato così per far piacere a quel coso grosso. Parlai così perché sto meglio se dico cose gentili ".
Il coso grosso disse anche lui una cosa gentile: "Io non so perché ella dica di avere un aspetto strano. Non vedo in verità . Davvero non vedo!". Scandiva con pedanteria le sillabe. Era un altro puntello che si cacciava sotto la spalla del signor Aghios. Però aveva sofferto quando la buona creanza l'aveva obbligato di costruire lui l'appoggio all'altro dicendo una menzogna. Ora invece si sentiva sollevato dalla gentilezza che riceveva. Rientrava con un sospiro di sollievo nel consorzio umano, non accorgendosi che anche quel puntello poggiava su una menzogna di cui non sentiva dolore, non avendo potuto inventarla lui. Eppure avrebbe dovuto ricordare che poco prima la propria faccia gli era apparsa strana, anzi, bestiale, con quei mustacchi grossi.
Ringraziò e avrebbe volentieri attaccato conversazione con chi gli aveva regalato un complimento. Ma non trovò l'argomento. Le prime parole che avevano scambiate vertevano su una parte del loro corpo. Continuando così si correva il rischio di somigliare ai cani.
Il signor Aghios guardò con desiderio verso il corridoio ch'era tuttavia affollato e ove si fumava, ciarlava e rideva. Avrebbe scommesso che la sua bella fanciulla dagli occhi azzurri c'era sempre ancora; altrimenti non ci sarebbe stata tanta gioia e gli uomini sarebbero venuti a sedere nel compartimento semivuoto. Per poltroneria, malgrado il desiderio, non si mosse. Nel momento di stornare l'occhio dalla porta s'avvide che un'animata conversazione s'era sviluppata nell'altro canto della vettura. Uno dei giovini, quello ammalato, si teneva penosamente teso verso il suo interlocutore per arrivare a sentirlo e aveva nella sua faccia emaciata tutta l'espressione di persona che viene costretta ad una fatica spiacevole.
L'altro invece doveva gustare molto l'occasione di tenere una predica. Era un ragazzo circa dell'età del figlio del signor Aghios. Era biondo come lui e con lui aveva un'altra somiglianza che stupì il signor Aghios. Parlava proprio di una cosa di cui il signor Aghios aveva recentemente sentito parlare dal figlio suo. Anche in viaggio si poteva scontrarsi nelle cose note che ingombravano la casa, perché la moda funestava nello stesso tempo le case e i treni. Lo studente parlava dell'origine delle malattie nervose e della cura delle stesse mediante la psicanalisi. Il signor Aghios sentì solo queste parole: "La malattia ha la sua prima origine in una ferita morale ricevuta nella prima infanzia e di cui, per non soffrirne, si soppresse il ricordo. Per avere tale importanza, tale ferita deve essere stata inferta proprio nella prima infanzia".
Tutto questo il signor Aghios già sapeva. E quando il figliuolo suo gliel'aveva detta con aria dottorale, come se fosse stata scoperta da lui, il signor Aghios aveva mitemente consentito. Anche lui vedeva che la ferita fatta in un organismo nel suo sviluppo si moltiplicava con lo sviluppo. Poi l'ignoranza del bambino, dava all'offesa una importanza enorme. Ora, invece, nella libertà del viaggio il signor Aghios si ribellò. Come si poteva asserire una cosa simile? Ogni ferita doleva ed ogni ferita - se ne aveva il tempo - incancreniva e si dilatava. Non soffriva lui, a quasi sessant'anni, di ogni offesa altrui e di ogni proprio dubbio? La carne, composta di tanta parte di liquido, era sempre poco resistente e l'ignoranza poi ci accompagnava fino all'ultimo alito, grande abbastanza per indurci a concedere importanza a tutte le cose che non ne hanno veruna e farcele sentire pesanti, affannose, origine di malessere e malattia. Certo, il tempo ci voleva e il più lungo tempo è quello che trascorre dall'infanzia alla morte. Perciò si potrebbe dire che le avventure dell'infanzia sono le più lunghe e solo perciò le cattive avventure le più pericolose. S'avverano piccole nei piccini e s'evolvono a grandi per affliggere gli adulti.
E il giovanotto continuava a dire: "Una seconda avventura può aggiungersi più tardi ad inacerbire la prima, ma mai può assurgere ad un'importanza per sé".
Qui, ad onta della sua lontananza dal predicatore, la quale avrebbe dovuto impedirgli d'intervenire anche per il rumore assordante del treno, il signor Aghios s'apprestò ad urlare la sua protesta. Aveva taciuto col figliolo suo, ma qui non c'era ragione di tacere. Ci si trovava nella grande libertà del viaggio.
Ma in quel momento il giovanotto sofferente, che aveva provato delle difficoltà per stare a sentire, si lasciò ricadere sul cuscino dietro di sé, allontanandosi da chi gli parlava e disse: "Ne parlerò col medico condotto". Era stanco e si coperse gli occhi. La posizione faticosa gli aveva dato il sentimento del mal di mare.
Il predicatore apparve per un momento stupito e offeso. E il signor Aghios dovette trattenersi per non ridere. Parlare di cose simili col medico condotto? Certo il predicatore non era medico, ma non era neppure medico condotto e credeva perciò di avere un maggiore diritto di parlare di scienza.
Poco dopo il giovanotto si levò, prese a mano la sua valigetta e uscì sul corridoio per essere pronto ad abbandonare il treno alla prima fermata. Alla fermata il signor Aghios lo seguì per guardare due cose. Prima di tutto volle vedere se il giovanotto veramente scendesse o se avesse voluto abbandonare un luogo ove era stato posposto ad un medico condotto. Scendeva realmente in una stazioncella piccola e il signor Aghios lo seguì con l'occhio come si moveva lento e sicuro e spariva nella casuccia, la porta del piccolo luogo per la quale entrava così la grande scienza della psicanalisi. Poi il signor Aghios guardò nel corridoio sperando di rivedere la giovinetta dagli occhi azzurri ch'egli era stato in procinto di abbracciare. Non c'era. Che cosa facevano dunque tutti quegli uomini in piedi? Essendo uscito sul corridoio il signor Aghios volle darsi un contegno e accese una sigaretta in mezzo a quegli uomini che, in piedi, aspettavano di arrivare alla meta. Egli non ambiva di parlare con loro, perché sul corridoio si sentiva come sulla via. Non era nella propria società , cioè nel proprio compartimento. Guardò fuori della finestra e cominciò a contare i pali del telegrafo come andavano via. Poi, per lungo tempo, non li contò più e fu consapevole di essere rimasto nel più assoluto riposo di pensiero a guardare senza vedere. I pali e la campagna o una parte di vita fuggono senz'essere visti o sentiti. Quando ritornò in sé, dubitò che una cosa simile possa esistere, ma non ricordò che ci fosse stato, in quello spazio di tempo, il menomo movimento della memoria o del pensiero. E forse, a riprova del riposo assoluto avuto, ridestandosi il signor Aghios giunse al suo mondo con un giudizio sintetico: "Io sono un vecchio che non amerebbe nessuno e da nessuno sarebbe amato se non ci fossi io stesso che amo e da cui sono amato". Bisognava rischiarare il mondo a cui egli ritornava. Sorrise, perché non ci fu amarezza. Le cose erano così e ne risultava una situazione comoda come la sua età esigeva. Poi la sua asserzione andava attenuata: Non si poteva dire ch'egli amasse qualcuno, ma egli amava intensamente tutta la vita, gli uomini le bestie e le piante, tutta roba anonima e perciò tanto amabile. Anzi, se fra gli uomini non ci fossero state anche le belle donne, egli avrebbe potuto aspettare la morte con la serenità di un santo. E finita la sigaretta, ritornò al suo posto con la coscienza di aver chiuso un viaggio lontano, inserito nel corto viaggio che s'era appena iniziato. Era stanco di quel viaggio e s'assise con un respiro di soddisfazione.
Il suo vis-à -vis intendeva certamente d'annodare discorso, perché teneva in mano un mezzo toscano e gliel'accennò guardandolo supplice coi grandi occhi rischiarati dagli occhiali: "Lei è uscito sul corridoio per fumare, ma visto che il signore già me lo permise, avrebbe niente in contrario di lasciarmi al mio posto a fumare questo mezzo toscano?".
Grande cosa il fumo! Specialmente in un compartimento per non fumatori. Ecco che la vita sociale per esso s'iniziava anche fra sconosciuti, come dai cani, sebbene meno entusiasticamente.
Con eguale gentilezza il signor Aghios consentì e volle essere più gentile ancora, aggiungendo alla gentile parola un atto gentile. Per quanto non ne avesse voglia, avendo fumato giusto allora, trasse di tasca un'altra sigaretta e disse sorridendo: "Del mio permesso profitterò anch'io". Poi, però, non trovava gli zolfanelli. Doveva rovistare tre tasche del soprabito, tre della giubba (non quattro perché quella interna di petto il signor Aghios trovò tanto gonfia che subito ricordò che v'erano i denari), due del panciotto e due dei calzoni. Intanto il grosso signore fu anche una volta molto gentile e gli porse uno zolfanello acceso.
Addirittura commosso, il signor Aghios ringraziò. L'altro gli sorrise, ma nulla rispose essendo occupatissimo col suo toscano che doveva essere un poco umido.
Poi, però, la conversazione si ravvivò perché il signor Aghios, avendo ricordato che sua moglie sempre diceva che le donne ne avevano troppo poche di tasche e gli uomini di troppe, si mise a ridere ad alta voce e dovette dare una spiegazione della sua ilarità .
Il grosso suo compagno di viaggio rise, ma piuttosto per compiacenza che per proprio bisogno. Poi protestò. Non vedeva la giustezza dell'osservazione: "Io so sempre tutto quello che ho in ogni singola tasca. Vuole il mio biglietto? Eccolo! Il mio specchietto? Gli occhiali per leggere?". Anche quelli erano grossissimi. Aveva grande ordine, forse necessario con quegli occhi difettosi. Aveva un mondo di cose quel signore, come un armadio ambulante e tutte al loro posto. L'idea era buona di tenere tanto ordine nelle tasche ed il signor Aghios si propose di adottarla. Anzi avrebbe messo in una delle tasche un bel registro contenente la pianta delle tasche con l'enumerazione degli oggetti contenutivi. E pensò con buon umore e senza risentimento, che il suo nuovo amico non aveva fatto vedere il portafogli. Anche lui non aveva toccato quella tasca. È un bel sentimento quello di sentirsi furbi.
Poi, per rassicurare anche meglio quel signore ch'egli non aveva riso di lui, il signor Aghios escogitò una gentilezza da usargli. Ricordò ch'era il vanto di tutti i fumatori di toscani di saper sopportare tanto veleno. In verità egli non sentiva tanta ammirazione, perché sapeva che il fumo del toscano non si usava lasciar andare ai bronchi e polmoni, ma si espelleva subito, non appena avutone in bocca il sapore. Ma valeva bene la pena di dire una bugia per garantire intorno a sé tutta la necessaria gentilezza. E disse: "Come fa lei a sopportare tutto quel veleno?".
Curioso! L'altro non sentì tali parole quali un complimento. "Non credo di avvelenarmi più di lei con le sue Macedonia. Lei ne gettò via una or ora e ne ha già accesa un'altra. Questo è il terzo mezzo toscano che fumo oggi e fino a questa sera, dopo il pasto, non fumo altro. So come vada con le Macedonia. Scommetto che lei ne fuma una quarantina al giorno!".
Non era vero. Questa ch'egli ...
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