[Pagina precedente]...tà che adoravo. Ma non li incontrai. Li rividi alla luce del sole e fui prudente. Forse tale differenza di contegno si può spiegare col fatto che da tanto tempo io dedicavo la notte all'amore per ritornare ai miei interessi di giorno. Io non dissi loro altro che desideravo di fare una corsa a Udine per salutare mia madre e subito partii, per Milano."
"Perché a Milano?" domandò l'Aghios trasognato.
"Per riavere quelle quindicimila lire che m'erano state prestate dal padre della Berta in acconto della dote" disse i Bacis stupito che l'altro non ricordasse. "Come potevo io ora non sposare la Berta se prima non saldavo quel debito?"
L'Aghios pronto causa il vino a tradire ogni movimento del suo animo, si mise a ridere di cuore. Ricordava che nel pomeriggio s'erano trovati in tre in una vettura e tutt'e tre avevano avuto delle somme di denaro in tasca: L'ispettore centocinquantamila (forse meno, perché era un uomo disposto alla vanteria), lui non cinquanta, ma trentamila e i Bacis quindicimila (a meno che non fossero solo diecimila). "In banconote?" domandò quando il riso gli permise di parlare.
"Io non ebbi quel denaro" disse il Bacis con tristezza, "e Dio sa quando l'avrò. Mio fratello Ugo che me le deve non può restituirmele e s'accinge invece a sposarsi. Anche lui ebbe nel frattempo un'avventura molto simile alla mia."
"Con due donne?" domandò l'Aghios, che oramai di ogni avventura vedeva in piena luce solo i dettagli meno importanti. E subito pensò: "Dev'essere una malattia di famiglia".
I suoi ricordi, come la sua percezione, rimasero chiari e non dimenticò che il Bacis rispose che si trattava di una sola donna bastevole ad impedire al fratello di pagare il suo debito. "Già " pensò l'Aghios che non dimenticava neppure la propria esperienza "Una sola donna basta per impedire tante cose."
Poi l'Aghios finì col pagare il conto. Con la mancia cinquanta lire per un po' di carne fredda e due pezzi di pane. Salirono nell'ultima vettura di un lunghissimo treno, la sola vettura adibita al servizio di persone. L'Aghios si sentiva tanto sicuro nelle gambe da ridiscendere dall'altissimo vagone per andare a prendere a nolo un cuscino. Lo pagò ed era già in procinto di allontanarsi quando gli venne la buona idea di prendere uno di quei cuscini anche per il suo compagno dì viaggio.
Glorioso risalì; scelse fra due compartimenti quello che meglio gli piacque e offerse l'ultimo suo dono al Bacis. Costui non avrebbe dimenticato mai più quella gondola, quella cena e quel cuscino, tutti doni di una persona ch'egli vedeva per la prima volta. Ma neppure lui avrebbe mai più dimenticato il Bacis, la Berta grassa e l'Anna sottile. Ma neppure Giovanni, quella pianta uomo che cresce dappertutto con un bell'istinto di servitore utile. Anzi, il signor Aghios si coricò pensando solo a Giovanni e a tutti i Giovanni ch'egli in sua vita aveva conosciuti. Avevano rinunziato a tutte le altre fortune che ci potevano essere a questo mondo e s'associavano indissolubilmente partecipandovi nel modo più modesto. Per essi non esistevano speranze in evoluzioni pazzesche che li avrebbero resi padroni e non esempi di fortune fatte per iniziative coraggiose indipendenti. Essi restavano attaccati al padrone come la pianta arrampicante all'albero. Nella sua mente fosca, prossima a chiudersi nel sonno, il signor Aghios pensò che Darwin non aveva inteso tutto. Non un animale aveva prodotto l'umanità , ma da ogni singolo animale era discesa una data specie di uomo. Tutti i Giovanni di questo mondo erano risultati per lenta evoluzione da quegli uccelli che sulle rive del Nilo nettavano i denti ai coccodrilli. Forse i coccodrilli soffrivano di carie e il pasto di quegli uccelli era, in proporzione di quello del coccodrillo, più abbondante di quello che i padroni lasciavano ai Giovanni.
Stava per prendere sonno quando un pensiero addirittura imperioso di benevolenza gli fece riaprire gli occhi. Guardò il suo compagno di viaggio. Alla fioca luce che c'era nella vettura lo vide giacere sull'altro banco, parallelo al suo, i biondi capelli lucenti giacere come lui, abbandonato sul cuscino. Con la differenza però che si teneva gli occhi coperti con una mano. Forse sotto a quella mano piangeva. Ed il signor Aghios pensò: "Guarda questi due uomini. Io ho in tasca il doppio (e forse il triplo) di quello che occorre per salvare da tanta angoscia quest'uomo. Non posso però darglieli, perché altrimenti, almeno per, altri tre mesi, dovrei continuare a pagare degl'interessi esosi. Insomma io non voglio pagare degl'interessi e voglio invece ch'egli soffra sposando Berta e faccia soffrire questa e specialmente quella povera Anna, che sta per cadere in mano di quella bestia di Luigi, ch'è appoggiato da quel mostro in natura ch'è Giovanni, l'ideale dei servitori".
"Senta, Bacis!" chiamò e l'altro lasciò cadere la mano dagli occhi e lo guardò. "Io, certo, non c'entro coi suoi affari, visto che non ho i mezzi per aiutarla. Ma per il momento non c'è che una premura: Impedire che Anna faccia un passo precipitoso. Non c'è urgenza. Il bamboccio è ancora lontano. Perché non si confida con suo zio? Quando non si può pagare, non si può pagare e non si paga. È ridicolo credere di essersi venduto per aver preso a prestito dieci o (sia pure) quindicimila lire. Si resta debitori e amici come prima. L'altro conteggia gl'interessi e può farlo. Poi nella vita, prima o poi, capita il colpo di fortuna. Si paga e si è più liberi di prima, quando pure si era liberi per propria risoluzione. Il colpo di fortuna può capitare a lei o può capitare a me. Sarebbe una gran bella cosa per lei che capitasse a me. Le giuro che verrei subito a Torlano a liberarla del suo impegno. Io avrei ora trentamila lire in contanti, a Trieste, naturalmente (e si toccò la tasca di petto), ma non posso dargliene neppure una parte perché mi occorrono tutte subito domani. Anzi, è per consegnare dinanzi ad un notaio quei denari ch'io ora faccio questo viaggio, che sarebbe stato ben noioso se io non avessi incontrato lei."
L'altro ringraziò a mezza voce e ricoprì gli occhi con la mano quasi a difenderli dalla luce. Il signor Aghios si sentì profondamente amareggiato. Era certo ch'egli non poteva dare quello che gli veniva chiesto, ma era ben doloroso che il suo viaggio, intrapreso per cospargere la Lombardia, il Veneto e il Friuli della sua benevolenza finiva (la notte era il riposo e non contava per il viaggio) con un atto d'egoismo come in qualche breve favola di religiosi. Lui era l'uomo ricco, l'altro il povero, lui la bestia, l'altro (visto ch'era il povero) l'intelligente, quello che vedeva il mondo com'è nella vera luce, dove c'erano da difendere tutt'altri beni che la vile moneta.
Eppoi un'altra cosa l'amareggiava. Se egli avesse presa con sé la moglie, forse tutto avrebbe potuto accomodarsi. Lui era l'avaro che non dava che le mance piccole, ma la moglie dava proprio quello che occorreva... se consentiva. Raccontandole tutta la storia come stava, essa. forse, si sarebbe commossa. Si avrebbe potuto offrire al poverino diecimila lire (quindicimila in nessun caso).
Scoppiò. Si rizzò, trasse di tasca il proprio biglietto da visita e lo porse al Bacis. "Se non trova di meglio venga me a Trieste o mi scriva. Non perda ogni speranza ed intanto impedisca alla povera Anna di commettere delle bestialità ."
Anche l'altro si rizzò. Ma fu come un atto di cortesia senza convinzione. Mormorò: "Grazie. Verrò a Trieste". Si ricoricò e riportò la mano agli occhi non appena il signor Aghios accennò a sdraiarsi di nuovo.
VI. Venezia-Pianeta Marte
Il signor Aghios era oramai più tranquillo. Solo gli bruciava lo stomaco per il tanto vino bevuto. La sua coscienza era oramai tranquilla come se egli già avesse dato il denaro. In sostanza egli l'aveva dato, perché avrebbe patrocinato con la moglie la parte del Bacis. Ora toccava alla moglie di comportarsi bene anche lei.
Ma non subito s'addormentò. È una cosa impossibile per un essere previdente di addormentarsi in un treno che s'accinge a correre. Per essere più sicuro il signor Aghios s'aggrappò al suo giaciglio, ma ciò implicò uno sforzo e non è una cosa facile di addormentarsi nell'atto di fare uno sforzo. Poi finalmente il treno si mosse. Assunse un passo piuttosto lento e pesante. Il rumore maggiore fu dato dapprima dalla propagazione del moto dalla cima alla coda del grande convoglio, perché fra i singoli vagoni fu uno sbattersi inquietante, tanto che il signor Aghios si rizzò per star a sentire. Per quietarlo il Bacis, senza levare la mano dal volto, mormorò: "Ciò avviene perché questo treno manca del freno Westinghouse".
Non occorreva la parola rassicuratrice, perché oramai il treno s'era avviato ed aveva assunto un passo tranquillo. Molto tranquillo. Il signor Aghios poté abbandonare ogni sforzo e abbandonarsi sul suo giaciglio. In un treno che procedeva con quel passo si avrebbe certamente dormito tranquilli. La musica che proveniva da quel movimento era fortemente ritmica e non violenta come da un treno celere: Una vera ninna-nanna. E lungamente il signor Aghios seguì quel suono o meglio da quel suono fu inseguito nella pace che precede il sonno. Esistono dei sonni di tutte le gradazioni e il suo grado più basso è quando i sensi non si sono ancora staccati dalla realtà . Il signor Aghios traverso le ciglia sentiva l'esistenza di quella fioca luce nella vettura e anche quel corpo del Bacis dagli occhi coperti dalla mano, giacente a meno di un metro di distanza dal proprio. E il sonno da lui cominciò quando quella musica là fuori cominciò a significare qualche cosa. Diceva: "Tutto va bene, tutto va bene". E il signor Aghios non si sentiva d'intervenire per far terminare la monotona ripetizione. Era tanto bello di addormentarsi al suono di una missiva tanto bella e tanto vera. Tutto andava bene infatti. Il Bacis gli voleva bene, avendo subito voluto rassicurarlo su quei suoni scomposti provenuti dal primo sobbalzo del treno. Tutto andava bene e si poteva finire.
Ma ancora una volta il suo sonno fu interrotto. L'arrivo a Mestre somigliò alla fine del mondo. Pareva come se una macchina potente si fosse messa a movere della ferramenta accatastata. L'Aghios spaventato si rizzò. Arrivò a vedere il Bacis tranquillo e immoto, la mano sempre sulla faccia, eppoi, tranquillizzato, lasciò ricadere la testa pesante sul guanciale mormorando: "Manca il freno Westinghouse".
Quando sognò il signor Aghios? Certo non subito dopo abbandonato Mestre. Presso Gorizia, quando alle quattro della mattina, il signor Aghios si destò, la distanza è lunga e il sogno sarebbe stato dimenticato come ogni altro sogno che certamente allieta anche il sonno più profondo. È piuttosto da supporsi che il sogno si sia prodotto in qualche stazione poco prima di Gorizia, quando il sonno fu meno profondo e qualche cellula desta poté sorvegliare e ritenere, il sogno.
Chissà poi se il sogno fu proprio quello che il signor Aghios ricordò. Quando ci si desta da un sogno, subito interviene la mente analizzatrice per connetterlo e completarlo. È come se volesse fare una lettera da un dispaccio. Il sogno è come una sequela di lampi e per farne un'avventura bisogna che il lampo divenga luce permanente e sia ricostituito anche quando non si vide, perché non illuminato. Insomma il ricordo del sogno non è mai il sogno stesso. È come una polvere che si scioglie.
Insomma il signor Aghios era avviato verso il pianeta Marte, sdraiato su un carrello che si moveva traverso lo spazio come sulle rotaie. Egli vi era sdraiato bocconi e invece di pavimento il carrello aveva delle assi su cui, dolorante, poggiava il suo corpo. Una delle assi passava sul suo petto e rendeva più pesante la tasca che vi era. Sotto a lui c'era lo spazio infinito e al di sopra anche. La terra non si vedeva più e Marte non ancora, né si vide mai.
Il signor Aghios si sentiva molto libero, molto più che in piazza S. Marco e anche troppo. Si guardava d'intorno e non vedeva altro che spazio luminoso. Dove esercitare la sua libertà se non ...
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