[Pagina precedente]...v'era nulla che fosse schiavo? E a chi dire la propria libertà ? Per sentirla bisognava pur poter vantarsene. Anche nel sogno il signor Aghios era riflessivo. Pensò: "Io non sono solo, perché c'è la mia libertà con me. La mia sola noia è quella tasca di petto che duole".
Ma più che si procedeva nello spazio, più solo il signor Aghios si sentiva. Giacché andava al pianeta Marte egli pensò, per il sentimento d'onnipotenza che il sognatore sente, ch'egli avrebbe potuto foggiare quel pianeta a sua volontà . Previde quel pianeta. Ebbene, egli lo avrebbe popolato di gente che avrebbe intesa la sua lingua, mentre egli non avrebbe intesa la loro. Così egli avrebbe comunicata loro la propria libertà e indipendenza, mentre loro non avrebbero potuto incatenarlo con le proprie storie, che certo non mancavano loro.
Una voce proveniente dalla stazione di partenza già tanto lontana domandò: "Mi vuoi con te?". Doveva essere la moglie. Ma il signor Aghios voleva la libertà ; finse di non aver sentito e anzi aderì ancora meglio al suo carrello per celarsi. Così proseguì a grande velocità , che non si percepiva causa la mancanza di cose e di aria e, correndo, pensò: "Voglio che mio figlio non rimanga solo".
Poi la voce fioca, lontana di Bacis gli domandò: "Mi vuole con lei?".
Aghios pensò che l'intervento di Bacis l'avrebbe privato di ogni libertà . Appassionato com'era, con lui non si poteva parlare d'altro che dei fatti suoi. Gli aveva già pagato la gita in gondola ed era ridicolo volesse ora fare un simile viaggio a spese sue. Andare al pianeta Marte per parlare di Torlano? Non ne valeva la pena. Il signor Aghios si strinse meglio al carrello per continuare a celarsi.
Una voce dolce, musicale, ma vicinissima domandò: "Io sono pronta alla partenza, se mi vuoi".
In sogno una parola e il suo suono dipinge intera la persona che la emette. Era Anna, la fanciulla bionda, alta, dalle linee dolci, salvo le mani abituate al grande lavoro. Quell'Anna che s'era lasciata ingannare dalla sincerità della carne.
Il cuore paterno dell'Aghios si commosse fino alle sue più intime fibre. Egli la voleva con sé per allontanarla da Berta e da Giovanni che la umiliavano e anche dal Bacis del quale non c'era da fidarsi, il traditore che l'aveva ingannata con la sincerità della carne.
E subito essa fu con lui sul carrello, sotto a lui, coperta da quegli stracci che l'adornavano, ma che ricavavano ogni loro bellezza dal suo corpo morbido, giovanile, non ancora sformato dall'incipiente maternità . I capelli biondi svolazzavano nell'aria, che per essi c'era, sotto a loro. Ora non avrebbe più dovuto esserci del dolore alla tasca del petto. Ma un greve peso v'era tuttavia. Anna probabilmente vi si era afferrata per sentirsi sicura.
E si procedette così, senza parole, mentre il signor Aghios pensò: "È la mia figliuola. Le insegnerò a non fidarsi più di alcuna sincerità ".
Ora il motore del carrello doveva fare un chiasso indiavolato. Tutto lo spazio ne era pieno. E l'Aghios si domandò: "Ma perché la mia figliuola ha da giacere così sotto a me? È il sesso? Io non la voglio". E urlò: "Io sono il padre, il buon padre virtuoso".
Subito Anna fu seduta lontano da lui, ad un angolo del carrello, in grande pericolo di scivolarne nell'orrendo spazio e l'Aghios gridò: "Ritorna, ritorna, si vede che su quest'ordigno non si può stare altrimenti". E Anna obbediente ritornò a lui come prima, meglio di prima. E lo spazio era infinito e perciò quella posizione doveva durare eterna.
Uno schianto! Si era arrivati al pianeta?
Infatti il treno, fermandosi, sembrava volesse distruggere se stesso. Il signor Aghios saltò in piedi. Soffocava, ma arrivava a ravvisarsi. Fra quel carrello e questo treno c'era una confusione da cui era impossibile estricarsi. E la stessa confusione c'era fra la gioia che aveva provato poco prima e la vergogna che ora lo pervadeva. Ma la bontà del signor Aghios era infinita anche verso se stesso. Pensò: "Io non ci ho colpa". E subito sorrise.
Egli aperse una finestra e l'aria si fece respirabile. Vide la campagna vuota: Una luce immota brillava dalla casa di un contadino. Tuttavia abbattuto dal grande sonno, la stanchezza del doppio viaggio, il signor Aghios ebbe ancora il tempo di guardare il giaciglio vuoto del Bacis, eppoi anche il posto ove era giaciuta la sua valigetta. Il Bacis se ne era andato discretamente, senza destarlo. Dovevano aver già passato Gorizia.
Senza convinzione, con la testa sul cuscino, l'Aghios pensò: "Peccato! Se ci fosse stato gli avrei dato subito le diecimila lire (non quindici)". Sorrise! Era bello di non poter pagare. Rimorsi non ebbe. La sua avventura, la più forte che avesse avuta durante la vita, non usciva dalla vita del suo pensiero solitario e perciò non aveva importanza. Tuttavia se il Bacis fosse venuto da lui a Trieste, egli, d'accordo con la moglie, avrebbe tentato di aiutarlo in piena virtù.
E s'addormentò profondamente dopo di aver tratto sotto la propria testa anche il cuscino del Bacis. Si sentiva perfettamente bene. Il vino era stato smaltito nella corsa traverso gli spazi siderei e non lo turbava più.
VII. Gorizia-Trieste
Si destò che albeggiava, squassato da un'altra fermata del treno. Saltò in piedi. Era una stazione abbastanza considerevole. Gorizia!
Ma dove era dunque disceso il Bacis? E l'Aghios fece con facilità la sua teoria su quell'abbandono. Certo il Bacis aveva rinunziato alla speranza di trovare quel denaro da quel suo parente a Gorizia e doveva essere disceso a Udine. Chissà quello che avrebbe fatto! Forse avrebbe finito col decidersi di sposare Berta per poter, da padrone, proteggere meglio Anna. Vedeva oramai quella storia tanto da lontano che ogni accomodamento gli pareva possibile. In fondo Anna era l'oggetto dell'amore e tale doveva rimanere. Cara! Cara! Quegli straccini, che la vestivano tanto bene, non doveva abbandonarli.
Verso le sette, quando il treno, con quel suo passo stanco di nottambulo che rincasa, cominciò ad arrampicarsi sul Carso, in un istante di noia, non sapendo che farsi nella sua solitudine, il signor Aghios trasse di tasca il portafogli e palpò le banconote. Sorrise ai propri sensi ingenui che sentivano un dimagrimento del pacchetto. Cosa vuol dire curarsi troppo di una cosa! Per rassicurarsi si chiuse nella vettura, calò le tendine e si mise a contare accuratamente le banconote. Non ve ne erano che quindici! Il Bacis ne aveva trafugate proprio quindici. Oh! Quale canaglia!
Il primo movimento dell'Aghios fu di correre al campanello di allarme. Vi pose persino la mano, ma dopo, da persona timida, esitò davanti a quella minaccia di persecuzione penale. E così ebbe il tempo di ragionare. Che scopo c'era di arrestare quel treno lento, che si batteva al di sopra Barcola, sobborgo di Trieste, per raggiungere il ladro ch'era disceso in una stazione non precisabile prima di Gorizia e da li s'era avviato col suo bottino verso Torlano ove non c'era ferrovia? Nessunissimo, perché il conduttore del treno non avrebbe mai acconsentito di cambiar rotta e portare lui e tutti i vagoni sgangherati verso la Carnia.
Il signor Aghios si morse le dita. Era tutto ira e vergogna. Vergogna di essersi lasciato turlupinare a quel modo. Addio sentimento della libertà del viaggio, addio benevolenza. Somigliava ad una di quelle figure sintetizzate tanto bene nelle nubi nere e minacciose, ma egli non ricordava né le nubi, né i cani e neppure le belle donne, i suoi aggradevoli monti compagni di viaggio. Alla stazione di Tries*
Nota: "Corto viaggio sentimentale" risulta incompleto per la morte dell'autore (Italo Svevo morì in seguito ad un incidente automobilistico nel 1928).