[Pagina precedente]...teva diventare un grand'uomo oppure un triste depravato o infine un uomo comunissimo come lui stesso, il signor Aghios. Meno felice in tutti i casi. Anche per far valere delle grandi qualità ci voleva dell'accortezza. E non avendo questa, si poteva vivere come se la si avesse avuta e traboccare per afferrare le cose di cui l'uso non è concesso che per quella conquista che designano come legittima. O infine poteva adattarsi di vivere la vita più comune, riservando il libero movimento delle grandi qualità nei brevi intervalli in cui viaggiava.
Addio caro, piccolo fratellino.
Eppure dopo di essersi congedato da lui, il signor Aghios s'imbatté in lui anche una volta. Per dimostrare anche una volta la bestialità del bambino, il Borlini raccontò che una mattina Paolucci si destò affannato e raccontò di aver sognato di asini e cavalli, che gli correvano addosso minacciosi, per dargli calci. E il Borlini, vantandosi, raccontò ch'egli interruppe il racconto domandandogli: "Ti davano dei calci con le zampe anteriori o con le posteriori?". "Con le anteriori!" disse il bambino. "Ebbene!" disse il Borlini. "È un sogno impossibile, perché quegli animali non possono dare dei calci con le gambe anteriori."
Il signor Aghios rise, ma pensò: "Povero Paolucci! Una vera crudeltà ! Spezzare i sogni dei bambini con la scienza".
E quando Paolucci definitivamente lo abbandonò, egli restò proprio solo col Borlini. Molto solo! Ci furono dei momenti in cui egli rivide uno per uno i simpatici veronesi che lo avevano abbandonato a Porta Vescovo e alla Centrale e ripensò ai due contadini (quell'indimenticabile donna dagli occhi dolci e dalla pelle bruciata!) e pensò che il suo viaggio sarebbe stato ben più lieto se uno qualunque di costoro fosse rimasto al posto del Borlini. Peccato che quel giovanotto, reso interessante da tanto dolore, continuasse a dormire nel suo cantuccio.
E bisognò parlare col Borlini. Stavano là , seduti a guardare, traverso la finestra, la notte oramai completa, e cortesia voleva di far sentire la propria voce. Disse subito una bugia lamentando di dover sobbarcarsi alla fatica del viaggio. Aveva preso lo slancio al complimento (che per sua natura è menzognero) e disse la bugia completa: Per lui il viaggio era una tortura.
E in un lampo il signor Aghios evocò delle immagini che dovevano rendere vera quella bugia. In prima linea la bambina di poco prima, che aveva immaginato il viaggio come qualche cosa che meglio si senta e si veda. Anche lui era come la bambina. Il vero viaggio sarebbe stato quello con la diligenza traverso a vere vie naturali (chiamava naturali quelle prive di ferro) e ai luoghi abitati, con gli arresti non alle stazioni, che in Italia mai davano l'immagine del luogo di cui erano la porta d'ingresso, ma davanti ad un'osteria del luogo, parte di esso, ove i cavalli si rifocillavano o cambiavano. Neppure in automobile la via, il luogo, la gente non era tanto intimamente sfiorata dal viaggiatore. E il viaggio, in compagnia del Borlini, era meno viaggio che mai.
Il quale rispose all'osservazione dell'Aghios con una domanda: "Quante volte viaggia lei in un mese?".
Ed il signor Aghios disse un'altra bugia: "Due o tre volte al mese". Era già la seconda volta - disse - che in un mese andava da Trieste a Milano. Quest'ultima comunicazione era vera. La prima volta su e giù con la moglie; la seconda volta si concludeva ora col suo ritorno da solo. Ma prima, da anni, non s'era mosso da Trieste.
Il Borlini vivamente stava contando aiutandosi con le dita e mormorava: "Lodi (sporgendo il pollice), Vicenza (l'indice), Siracusa (il medio), Ancona, Siena, Perugia ... ". Dieci città e l'Aghios guardava quelle dita tozze che le segnavano e correva a vederne tutto l'aspetto in rapida sintesi: Lodi (non v'era stato, ma ricordava che la poverina non aveva saputo imporre il proprio nome alla sua squisita invenzione attribuita a Parma), Vicenza (il Palladio, le cui opere venivano spregiate da quel saputo del figliuolo suo, quei palazzi marmorei che l'Aghios vedeva lucere nelle vie poco popolose in una giornata festiva di sole), Siena (oh! quel duomo risultato più piccolo del proposito e piccolo per tenere tanta bellezza. Siena? Diecimila fiorentini ammazzati in un giorno!), Perugia (le volte, Assisi vicina e i campi verdi coi greggi bianchi, tutto un paese che sta aspettando un altro santo). Ma il Borlini non lo lasciò pensare più oltre. "Dieci volte!" esclamò. "Io lasciai Milano durante questo mese, e siamo al venticinque, ben dieci volte. E non me ne dico stanco, perché, per essere ben fatto, il dovere dev'essere un piacere."
Oh! Questa, poi, era grossa! Se il dovere fosse il piacere, allora non ci sarebbe merito. Egli, l'Aghios, aveva il vanto di aver fatto tutta la sua vita il vero dovere, abbandonando i suoi cari pensieri, le sue care fantasie, il vero piacere. Se lo avessero lasciato in pace, egli avrebbe percorso il mondo, non per guardarlo, ma per trovare maggiore stimolo a staccarsene, abbellirlo e offuscarlo. Anche il figliuolo suo diceva che ognuno a questo mondo faceva quello che doveva e perciò lui si divertiva, mentre altri (il signor Aghios) soffriva. C'era sicuramente una differenza! Ma dove?
Non protestò. Tutta quella conversazione non gli sembrava una vera conversazione. Perché avrebbe dovuto faticarsi a discutere? Si moveva la bocca così, per dar tempo al treno di procedere.
"Ella è dunque un viaggiatore di commercio?" domandò tanto per dire qualche cosa.
"Macché!" disse il Borlini con disdegno per chi non meglio lo giudicava. "Io sono l'ispettore viaggiante di una società d'Assicurazioni."
Il signor Aghios s'inchinò, come per congratularsi dell'alta carica. Ispettore! Era tutt'altra cosa di commesso viaggiatore!
Si vedevano in distanza, sotto la montagna, le luci di una borgata ai piedi di una collina. Luce tranquilla, immota! Del resto una luce lontana è sempre tranquilla, è sempre immota! Può soffiare il vento e, se non l'estingue, è come quella delle stelle; brilla con la tranquillità di un colore (se ce ne fossero di tanto brillanti). E per qualcuno in quella borgata doveva esserci il turbine. Ma la lontananza è la pace.
Ma bisognava intanto muovere la bocca e il signor Aghios disse delle altre bugie, senz'intenzione, per mancanza di sorveglianza: "Io non amo di lasciar sola la mia vecchia moglie".
"So che vi sono degli uomini fatti così" disse l'ispettore guardando attentamente il signor Aghios come se avesse voluto studiare un animale strano.
E l'Aghios insistette nella bugia: "Badi ch'io alla città non ci tengo affatto e che mi trovo altrettanto bene a Milano che a Trieste. La questione è che non so vivere solo".
E pensò: "Guarda, guarda pure, ad onta di tanto occhiale non ci capirai nulla". Stimo io! Se quello che diceva doveva contare, era impossibile d'indovinarlo. E disse ancora ch'egli amava la vita di famiglia. Cercò una parola più intelligente per addobbare la bugia e la trovò subito: Egli amava la vita di famiglia ove era necessario di pensare ora all'uno ora all'altro e mai a se stessi, alla propria miseria. Parlava della propria miseria in un momento in cui assolutamente non la sentiva, coi soldini in tasca pronti per le mance e il suo affetto per tutti i deboli in cui s'imbatteva, il suo affetto tanto grande da raggiungere anche delle persone che non aveva mai visto, come l'indimenticabile Paolucci.
Il Borlini brontolò: "La mia vita di famiglia è tutt'altra cosa. Quando ci sono io tutti pensano a me e così faccio anch'io, cioè penso a tutti loro. Quando viaggio allora, naturalmente, lascio la libertà a tutti, ma spero che a me si pensi. Io sono assorbito dagli affari e non penso che a questi. Ma perché ci sono, gli affari? Non forse per la famiglia? Quando penso agli affari, penso alla famiglia".
L'Aghios rimase ammirato. Quest'era la presentazione del vero uomo normale! Non gli era simpatico. L'uomo normale voleva che tutti pensassero a lui (e rivelò il suo vero pensiero confessando, dapprima, che così faceva anche lui, per disdirsi, poi, con una spiegazione che annullava la parola sfuggita). Forse tutti pensavano a lui per augurargli la morte. Come era migliore lui, che non domandava niente. Non gli pareva d'aver amato meno la propria famiglia perché non lo curava abbastanza. No! Egli l'amava meno perché sentiva il bisogno della famiglia maggiore, il mondo.
Fu una vera antipatia per il suo interlocutore che lo trascinò ad una discussione. Non bisognava permettergli di dire delle cose tanto ingiuste con quel tono di predicatore sicuro di sé. Seccamente, con piena sincerità , egli disse: "Io, invece, quando sono in famiglia penso a tutti loro e spero che quando sono assente tutti pensino a me". C'era la bugia nella seconda parte della dichiarazione, ma questa era risultata da un'istintiva modestia. Temeva di apparire troppo alto se avesse confessato che poco prima egli aveva desiderato che sua moglie, durante la sua assenza, non l'avesse ricordato. Troppo alto? Dicendo il suo intimo pensiero forse non avrebbe appartenuto tanto in alto.
Il Borlini si mise a ridere, di un riso sonoro, a scatti, il rumore di un motore che s'avvia: "Ma questa è poesia; vera, futile poesia! Sarebbe ella forse un poeta travestito?".
Dapprima il signor Aghios senti la parola come un'insolenza. Travestito? Ma poi guardò in se stesso con curiosità . Egli credeva d'essere un uomo che desiderava tante cose non permesse e che - visto che non erano permesse - le proibiva a se stesso, lasciandone però vivere intatto il desiderio. Egli poi non ne parlava neppure e stava facendo delle asserzioni che dovevano celare meglio - negandoli - quei desiderii. Era perciò un poeta travestito? Se avesse cantato di quei desiderii non permessi sarebbe stato un poeta non travestito. E negandoli? Se per negarli avesse saputo elevare la voce fino al canto, anche negandoli sarebbe stato un poeta. Che bestia quel Borlini! Come può travestirsi un poeta? Tacendo? Non è un travestimento infatti ma perché il silenzio pensò l'Aghios. Nella vita si può essere bestia quanto si vuole, ma non un poeta se non si sa cantare la propria bestialità .
Disse con semplicità : "Non so neppure di quante sillabe si componga un endecasillabo".
"Undici" disse il Borlini. "Lei, greco, lo deve sapere. Si traveste ancora."
"Ma che poeta" disse l'Aghios, ridendo un po' compiaciuto e un po' offeso. "Pensi che io ora corro a Trieste senza moglie e senza figlio per un affare urgente."
Non poteva aprir bocca senza dire qualche parola di troppo. E trovò una verità da dire e la disse subito, come se una parola vera potesse cancellare la vergogna di una parola falsa: "Si figuri se è un piacere viaggiare così, carico di denari". E si batté la tasca di petto.
Il Borlini si mise a ridere più a bassa voce, guardando con diffidenza verso il loro compagno che ancora sempre sonnecchiava nel suo cantuccio: "Anch'io ne ho del denaro in tasca, e molto. Da lei è un'imprudenza, da me una necessità ".
Il Borlini diventava veramente aggressivo ed il signor Aghios sconcertato tacque. Dopo una pausa alquanto lunga il grosso uomo riprese la parola in tono più di convinzione. Forse s'era pentito del suo tono troppo aggressivo.
"Pensi quello ch'io faccio per la mia famiglia eppoi mi dica se in contraccambio non ho il diritto di esigere che tutti i suoi membri pensino costantemente a me. Vi sono certi uomini a questo mondo che lavorano come me, ma nessuno più di me. Questi viaggi non possono essere considerati quali un riposo. Le pare?"
Al signor Aghios pareva che fino a quel momento in cui aveva incontrato il suo interlocutore, il viaggio fosse stato veramente un riposo. Ora, costretto di dar continuamente ragione a qualcuno che egli non amava, si sentiva afferrato da una famiglia e per di più da una famiglia che non amava. Poté perciò consentire con piena sincerità : "No, assolutamente non è un riposo!". Non era un riposo! Per godere del riposo bisognava aspettare Padova, varie ore!
"Pensi poi alla responsabilità che mi tocca assumere! Talvolta liquido ...
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