TUTTI I SONETTI ROMANESCHI 1, di Giuseppe Gioachino Belli - pagina 1
Giuseppe Gioachino Belli
Tutti i Sonetti romaneschi
Vol.
1°
Introduzione
In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, lindole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene unimpronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo.
Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza.
Oltre a ciò, mi sembra la mia idea non iscompagnarsi da novità.
Questo disegno così colorito, checché ne sia del soggetto, non trova lavoro da confronto che lo abbiano preceduto.
Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie.
Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlare loro ciò che non può vedersi nelle fisionomie.
Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle deglindividui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto alla immobilità comandata dalla civile educazione, si lasciano alle contrazioni della passione che domina e dallaffetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que corpi informa e determina.
Così i volti diventano specchio dellanima.
Che se fra i cittadini, subordinati a positive discipline, non risulta una completa uniformità di fisionomia, ciò dipende da differenze essenzialmente organiche e fondamentali, e dal non aver mai la natura formato due oggetti di matematica identità.
Vero però sempre mi par rimanere che la educazione che accompagna la parte dellincivilimento, fa ogni sforzo per ridurre gli uomini alla uniformità: e se non vi riesce quanto vorrebbe, è forse questo uno de beneficii della creazione.
Il popolo quindi mancante di arte, manca di poesia.
Se mai cedendo allimpeto della rozza e potente sua fantasia, una pure ne cerca, lo fa sforzandosi di imitare la illustre.
Allora il plebeo non è più lui, ma un fantoccio male e goffamente ricoperto di vesti non attagliate al suo dosso.
Poesia propria non ha: e in ciò errarono quanti il dir romanesco vollero sin qui presentare in versi che tutta palesarono la lotta dellarte colla natura e la vittoria della natura sullarte.
Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttora, senza ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso: insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dalluso, ecco il mio scopo.
Io non vo gia presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia.
Il numero poetico e la rima debbono uscire come accidente dallaccozzamento, in apparenza casuale, di libere frasi e correnti parole non iscomposte giammai, non corrette, né modellate, né acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio delle orecchie: attalché i versi gettati con simigliante artificio non paiano quasi suscitare impressioni ma risvegliare reminiscenze.
E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio.
Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più abbandonata senza miglioramento.
Nulladimeno io non milludo circa alle disposizioni danimo colle quali sarebbe accolto questo mio lavoro, quando dal suo nascondiglio uscisse mai al cospetto degli uomini.
Bene io preveggo quante timorate e pudiche anime, quanti zelosi e pazienti sudditi griderebber la croce contro lo spirito insubordinato e licenzioso che qua e là ne traspare, quasiché nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principii miei, onde esaltare il mio proprio veleno sotto legida della calunnia.
Né a difendermi da tanta accusa già mi varrebbe il testo dAusonio, messo quasi a professione di fede in fronte al mio libro.
Da ogni parte io mi udrei rinfacciare di ipocrisia e rispondermi con Salvator Rosa:
A che mandar tante ignominie fuore,
E far proteste tutto quanto il die
Che sè oscena la lingua è casto il cuore?
Facile però è la censura, siccome è comune la probità di parole.
Quindi, perdonate io di buon grado le smaniose vociferazioni a quanti Curios simulant et bacchanalia vivunt, mi rivolgerò invece ai pochi sinceri virtuosi fra le cui mani potessero un giorno capitare i miei scritti, e dirò loro: Io ritrassi la verità.
Omne aevum Clodios fert, sed non omne tempus Catones producit.
Del resto, alle gratuite incolpazioni delle quali io divenissi oggetto replicherò il tenor della mia vita e il testimonio di chi la vide scorrere e terminare tanto ignuda di gloria quanto monda dogni nota di vituperio.
Molti altri scrittori ne dialetti o ne patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere in Italia, e vari di questi meritar laude anche fra i posteri.
Però un più assai vasto campo che a me non si presenta era loro aperto da parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popolo, ma usate da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: donde nascono le lingue municipali.
Quindi la facoltà delle figure, le inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dellarte.
Non così a me si concede dalla mia circostanza.
Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.
Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge.
Sterili pertanto didee, limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli.
Alcuni termini di senso generale e di frequente ricorso vi suppliscono a molto.
Ed errato andrebbe chi giudicasse essersi da me voluto porre in iscena questo piuttosto che quel rione, ed anzi una che unaltra special condizione duomini della nostra città.
Ogni quartiere di Roma, ogni individuo fra suoi cittadini dal ceto medio in giù, mi ha somministrato episodii pel mio dramma: dove comparirà sì il bottegaio che il servo, e il nudo pitocco farà di sé mostra fra la credula femminetta e il fiero guidatore di carra.
Così, accozzando insieme le vari classi dellintiero popolo, e facendo dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera, ho io compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il quale spiccano le più strane contraddizioni.
Dati i popolani nostri per indole al sarcasmo, allepigramma, al dir proverbiale e conciso, ai risoluti modi di un genio manesco, non parlano a lungo in discorso regolare ed espositivo.
Un dialogo inciso, pronto ed energico: un metodo di esporre vibrato ed efficace: una frequenza di equivoci ed anfibologie, risponde ai loro bisogni e alle loro abitudini, siccome conviene alla loro inclinazione e capacità.
Di qui la inopportunità nel mio libro di filastrocche poetiche.
Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento didee.
Ogni pagina è il principio del libro, ogni pagina la fine.
Lortoepia ne Romaneschi non cede in vizio alla grammatica: il suono della voce cupo e gutturale: la cantilena molto sensibile e varia.
Tradotta la prima nella ortografia de miei versi, mostrerà sommo abuso di lettere.
Nel mio lavoro io non presento la scrittura de popolani.
Questa lor manca; né in essi io la cerco, benché pur la desideri come essenziale principio dincivilimento.
La scrittura è mia, e con essa tento dimitare la loro parola.
Perciò del valore de segni cogniti io mi valgo ad esprimere incogniti suoni.
Dalle vocali si avrà discorso più tardi.
Parliamo intanto delle consonanti.
La b tra due vocali si raddoppia, come abbito (abito), la bbella (la bella), debbitore (debitore) ecc.
La b dopo la m si cambia in questa: cammio (cambio), cimmalo o cèmmalo (cembalo), immasciata (ambasciata), limmo (limbo), palommo (palombo), gamma (gamba), ecc.
Ciò peraltro accade quando appresso la b venga una vocale.
Se la b sia seguit da r, alcuni la mutano in m e alcuni no: per esempio le voci imbriaco, settembre, ambra, da molti si pronunceranno senza alterazione e da taluni si diranno immriaco, settemmre, ammra.
La c si ascolta quasi sempre alterata.
Se è doppia avanti ad e o ad i, oppure ve la precede una consonante, contrae il suono che hanno nella regolar pronuncia le sillabe cia e cio in caccia e braccio, e lo prende ancora più turgido, che in questi due esempi non si ascolta.
Preceduta poi da una vocale, anche di separata parola, prolungasi strisciando, similare alla sc, di scémo, oscèno, scimia: per esempio, piascére, duscènto, rèscita, la scéna, da li scento, otto scivici (piacere, duecento, recita, la cena, dai cento, otto civici) e simili.
E qui giova il ripetere aver noi prodotto in esempio un suono soltanto similare, imperocché di simile, in questo caso la retta pronunzia non ne somministra.
Pasce, pesce, voci della buona favella, si proferiscono dal volgo come le voci viziate pasce, pesce (pace, pece) colla differenza però che in questi ultimi vocaboli il valore della s è semplice e strisciante, laddove in que primi odesi doppio e contratto: di modo che, chi volesse rappresentare con la penna la differenza di questi due suoni, dovrebbe scrivere passce, pessce (pasce, pesce) pasce, pesce (pace, pece): quattro vocaboli che il dir romanesco possiede.
Nella lingua francese si può trovare questo secondo suono strisciante della sc romanesca, il quale nella retta pronunzia dellidioma italiano sarebbe vano di ricercare.
Per esempio acharnement, colifichet, la chimie, séchapper.
Per ben leggere i versi di questo libro bisogna porre in ciò molta attenzione.
I fiorentini hanno anchessi questo suono, che coincide là appunto dove i romaneschi lo impiegano; ma dovendosi considerare ancora in quelli come un difetto municipale ed una alterazione del vero valor dellalfabeto italiano, non si è da me voluto dare per esempio che potesse servire alla intelligenza degli stranieri.
Appresso però alle isolate vocali a, e, o, e a tutti i monosillabi che non sieno articoli o segnacasi, la e conserva bensì il suono grasso ai luoghi già detti, ma abbandona lo strascico; per esempio a cena, è civico, o cento.
Si osserva in ciò la legge stessa che impera sulla c aspirata de fiorentini, i quali dicono la hasa, di hane, sette havalli, belle hamere, ecc., ed al contrario pronunziano bene e rotondamente a casa, è cane, o cose, che cavalli, più camere.
Come dunque i fiorentini diranno la hasa, di hane, le hose (la casa, di cane, le cose) così i romaneschi diranno la scena, de scivico, li scento (la cena, di civico, i cento); e allopposto per lo stesso motivo che farà pronunziare da fiorentini a casa, è cane, o cose, si udrà proferire a romaneschi a ccena, è ccivico, o ccento: imperocché in quelle isolate vocali a, e, o e ne monosillabi tutti (meno gli articoli, i segnacasi, di e da, e le particelle pronominali) sta latente una potenza accentuale che obbligando ad appoggiare con vigore sulla c iniziale de seguenti vocaboli, la esalta, la raddoppia, e per conseguenza nesclude ogni possibilità di aspirazione come se fosse preceduta da consonante.
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