[Pagina precedente]...ose che senton gli altri infiniti uomini, costui solo non è uomo. Se negli animi umani abita la carità , se v'ha luogo l'amore, convien che vi cappia l'ira e la indignazione e simili. Che maraviglia adunque se uno animo umano desidera e' suoi? Miracolo sarà , anzi immanità non gli desiderare, e desiderandogli non dolersi di non gli avere. Se v'è sentimento delle cose nocue e nimiche, chi sarà che nulla si dolga in le sue calamità ? E' si vuole ben consigliarsi colla ragione, adattar l'animo a virtù. O Agnolo, rammentavi quel detto di quello antico Gione: «tanto duole a un calvo quanto a un ben capillato quando tu lo peli». Ma che noi pure ne trastulliamo con parole dove bisognerebbono e' fatti? Dicea Cesare presso a Sallustio: qualunque consiglia conviene che sia libero d'ogni perturbazione. E noi vorremo che l'animo urtato dagli impeti avversi, caduto in miseria, perturbato dal dolore, ben consigli sé stessi. L'animo non sano, dicea Ennio poeta, erra sempre.
Ma non voglio estendermi, ch'io sarei prolisso. Tanto vorrei da questi dotti come da un duttore e addirizzatore del naviglio, non che e' mi disputasse, - e' si vuole alla tempesta ridursi in porto e ivi fuggire ogni impeto di venti avversi, - ma mostrassi qual via e modo mi riduca là dove io mi riposi in ozio e tranquillità . Così questi filosofi, medicatori delle menti umane e moderatori de' nostri animi, vorre' io m'insegnassero non fingere e dissimulare col volto fuori, ma entro evitare le perturbazioni ed espurgare dall'animo con certa ragione e modo quello che essi giurano potersi.
AGNOLO. Vedi, Niccola, queste sono materie dove bisognerebbe ragionarne con più ozio e con più premeditata ragion di disputare. Io resterò d'oppormiti com'io cominciai, ché ti vedo apparecchiato a confutarmi, e sento l'ingegno tuo acuto e pronto; e non m'è occulta quest'arte tua con quale tu studi nascondere quell'arte vulgata dello argumentare disputando; e dilettami. Ma credi tu ch'io non conosca che tu giudichi di queste cose quello che giudicano tutti e' dotti, che chi vuole opporsi alla fortuna, sostenere e' casi avversi e curare nulla altro che la virtù, può? Non insistiamo più in questo, ma consideriamo questo potere quale e di che natura e' sia. Io non potrei dipingere né fingere di cera uno Ercole, un fauno, una ninfa, perché non sono essercitato in questi artifici. Potrebbe questo forse qui Battista quale se ne diletta e scrissene. Tu, Niccola, come neanche io, non potresti atto schermire, lanciare, lottare. Potrebbe questo qui Battista in questa sua età robusta, quale in simile cose diede opera ed essercizio. Non potrebbe, no, Battista, come quel Milone atleta, portare uno bue vivo in ispalla, né, come Aulo Numerio, centurione e commilitone di divo Iulio Augusto, contenere con una mano l'impeto di più giumenti, né come quello Atamante qual Plinio vide andare pel teatro vestito di cinquanta corazze di piombo e calzato con coturni che pesavano libbre cinquecento. Né forse potrebbe Cicerone ben lodare Clodio suo capital nimico, sendogli in odio e in dispetto suoi detti e fatti. Così compreendiamo che alcune cose da natura non si possono; alcune non da natura non si possono, ma da nostra inerzia, desidia e concetta opinione sono da noi stessi vetate. Tu dicesti, ciascuno vorrebbe vivere soluto e libero in queste cose quali più sono facili a disputarne che a sofferirle. Ma quel ch'è difficile a questi disputatori, a noi non par possibile. Guarda, Niccola, s'egli è così, che dove ogn'uomo può, rari vogliono ben meritare di sua virtù. Raccontasti uno e un altro splendido e curioso delle cose caduce. Chi ti loda in loro quello che non fu loro debito? E di che disputiamo noi, di quello che fecero, o pur di quello che e' poteano e potendo doveano fare? E se dalla vita e costumi loro dobbiamo argumentare e statuire le ragioni e modo del vivere bene e lodati, raccontiamo quegli altri molti più che questi, pur filosofi, quali furono contenti d'una sola e trita vesta, quali per loro diversorio abitavano un vaso putrido e abietto, quali vissero non d'altro che di cavoli, quali sì abdicorono da sé ogni cosa fragile e caduca che né pure una scodella volsero ritenere a sé. Non te li racconto, ché fuggo anche io esser prolisso; ma tu, omo litterato, riducetegli a memoria e teco pensa donde questi miei così poterono quello che que' tuoi non volsero, e pensa donde que' tuoi non volsero quello che volendo poteano pari a' miei. Troverrai che questi così poterono perché volseno vincere sé imprima e' suoi appetiti e volontà ; quelli non volseno frenare e moderare sé stessi, però soluti e sciolti meno poterono contenersi in suo officio. Seneca fuggì cadere in insidie e veneno di Nerone. Dicea quel prudentissimo Agamenon, presso ad Omero, doversi riprendere niuno quale o dì o notte che fusse, fuggissi di non incontrarsi al male. Altra cosa è vitare gl'incommodi, altra vinto succombere sanza prima concertare e provare sé stessi e sua virtù. Quello è prudenza provedere e schifare el dispiacere; questo si è ignavia abbandonare sé stessi. E sarà fortezza fare come e' dicono che fa la palma, legno qual sempre s'accurva e impinge contro al suo incarco. Questo ti confesso potrà meglio chi più sarà essercitato nelle durezze de' tempi, nella asperità del vivere, e chi già fece e' calli sofferendo. Diresti; che cagione adunque perturba in noi tanta ragione e officio? Rispondere'ti quello che testé m'occorre a mente; e considerianci, Niccola, s'io m'abatto al vero. Gli animi nostri gli fece la natura atti ad eternità , simplici, nulla composti, non da altri mossi che da sé stessi. La eternità credo io non sia altro che una certa perfezione e continuazione inviolabile di vita e d'esser sempre uno e medesimo. Quello che fu prima coniunto e ascritto alla vita si pruova essere el moto. E' movimenti dell'animo non accade raccontarli qui, ma restici persuaso che l'animo può mai starsi ocioso, sempre si volge e avvolge in sé qualche investigazione o disposizione o appreensione di cose, quali se saranno gravi, degne e tali ch'elle adempiano l'animo, nulla più altro vi si potrà immergere; se saranno lievi, galleggeranno mezzo a' flutti della mente nostra, e, come avviene, di cosa in cosa ondeggeranno e' nostri pensieri persino che picchieranno a qualche scoglio di qualche aspra memoria o dura alcuna volontà , onde poi ivi noi sentiamo gli urti dentro al nostro petto iterati e gravi. Perturbasi ancora in noi l'animo dissoluto dalla ragione e condutto dalla opinione a iudicare falso delle cose buone o non buone, come tutto el dì vediamo non rari infetti da questa commune corruttela del vivere, quali e piangono e godono più per satisfare al giudicio e sensi altrui che a sé stessi. Ma io di me voglio esplicarvi in qual numero io sia infra e' mortali. Io, Niccola mio, s'io fussi uno di que' calamitosi, desidererei le mie care cose, e non affermerei essere in me sì assoluta e perfetta virtù che non mi dolesse la perdita de' miei; ma cercherei le vie e modi da levarmi ogni molestia dell'animo. E per quanto e' mi paia conoscere, egli è in pronto e quasi in grembo di ciascuno el potersi acquietare da ogni perturbazione e prima ch'elle offendano e poi che tu le concepesti. E poi che 'l ragionare ne condusse a questo, riconosciamo insieme s'io erro.
Comincianci da questo capo. Le perturbazioni, voglio favellare così, piovono e versansi nell'animo nostro vacuo. Onde? Certo diranno alcuni surgere o dalla perversità de' tempi, o dalla nostra propria iniqua fortuna, o da qualche duro caso, o dalla nequizia e improbità degli altri uomini, o da qualche nostro errore. Altronde non vedo che in noi possa insurgere acerbità o tedio alcuno. Ma, dirò io, cosa niuna estrinseca potrà ne' nostri animi se non quanto noi patiremo ch'ella possa. E parmi accommodata similitudine questa. Come alle tempeste del verno ne addestriamo e apparecchiamo, coperti e difesi dalle veste, dalle mura, da' nostri refugi e ridutti, e se pure el tedio delle nevi, la molestia de' venti, le durezze de' freddi ne assedia e ostringe, noi oppogniamo e' vetri alle finestre, e' tappeti agli usci, e precludiamo ogni adito onde a noi possa espirare alcuna ingiuria del verno; e se saremo robusti e fermi, vinceremo ogni sua asprezza e acerbità e rigore essercitandoci ed eccitando in noi quel calore innato e immessoci dalla natura a perseverar vita alle nostre membra; se forse saremo malfermi e imbecilli, ne accomandaremo al fuoco e al sole e alle terme: così alle volubilità e impeti e tempeste della fortuna bisogna addestrarsi e apparecchiarsi con l'animo, e precludersi dalle perturbazione ogni adito, ed eccitare e susservare in noi quello ignicolo innato e insito ne' nostri animi quale v'aggiunse e infuse la natura ad immortale eternità . Addesterremo e apparecchieremo l'animo nostro contro a' commovimenti de' tempi e contro alle ruine de' casi avversi, in prima col premeditare e riconoscere noi stessi, poi col giudicare e statuire delle cose caduce e fragili, non secondo l'errore della opinione, ma secondo la verità e certezza della ragione.
Dicea Tales filosofo essere difficile el conoscere sé stessi. Non so in qual parte sia da interpretare questo suo detto, ma a me non pare difficile conoscermi uomo simile agli altri uomini, tali quali gli descrive Apulegio. E chi dubita nell'uomo esservi ragione? Sentilo ragionare, ed etti persuaso che l'animo dell'uomo sia immortale. Vedi e' suoi membri atti a mancare e perire; conosci quanto sia suo mente lieve e volubile e quasi mai senza ansietà ; affermi el corpo suo essergli in molti modi noioso; discerni infra gli uomini costumi al tutto vari e molto dissimili. Non puoi negare che in loro gli errori sono simili: ardiscono troppo, sperano con pertinacia, affaticansi in cose non certe né utili; loro beni caduci a uno a uno muoiono; la moltitudine perpetuo vive; mutansi di prole in prole; vola loro età ; tardi a sapienza, presti a morte, queruli in vita, abitano la terra. Adunque premeditando e riconoscendo noi stessi, ne accoglieremo pensando: a che nacqui io? venni io in vita forse per tradur mia età vacua e disoporosa? Questo intelletto, questa cognizione e ragione e memoria, donde venne in me sì infinita e immortale se non da chi sia infinito e immortale? E io, lascerò io me simile a un ferraccio macerare e marcire in ozio, sepulto in mezzo el loto delle delizie e voluttà ? Non giudicherò io mio debito, essercitandomi in cose pregiate e degne, ben cultivare me stessi e ben meritare di mia industria e virtù? Resterò io di spogliare e astergere da me assiduo ogni improbità e ruggine di vizi? Queste due cose qual dicea Seneca filosofo esserci date da Dio sopra tutte l'altre validissime, la ragione e la società , lascerolle io estinguere per desidia e inerzia e nulla valere in me? O forse le adoperrò solo in servire a questo corpo mio e a queste membra noiose e incommode? Non mi diletterà più adattarle a gloria e immortalità del nome, fama e degnità mia, della famiglia mia e della patria mia? Non premediterò io assiduo me essere nato non solo, come rispose Anassagora, a contemplare el cielo, le stelle e la universa natura, ma e ancora in prima, come affermava Lattanzio, per riconoscere e servire a Dio, quando servire a Dio non sia altro che darsi a favoreggiare e' buoni e a mantenere giustizia? Così mi si richiede; e io così
sponte e volonteroso delibero. Su, dianci coll'animo a queste opere ottime e gratissime al nostro padre e procreatore Iddio. A' buoni, a' quali deliberammo favoreggiare, non attaglieranno l'opere nostre non buone; né ben potremo mantenere giustizia se non saremo nimici d'ogn'ingiustizia. Adunque dedichiamo l'animo nostro a esser vacuo d'ogn'ingiustizia e pieno di bontà . Quinci saremo in ogni officio d'umanità e culto di virtù ben composti, e ben serviremo alla naturale società e vera religione, e preporrenci in ogni nostra vita esser constanti e liberi.
Dicono la levità esser vizio nimico a ogni quiete. Alla libertà ascrive Lisia oratore esser proprio far cosa niuna...
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