[Pagina precedente]...in molte qualcuna ci si acconfarà . E come alle infermità del corpo uno solo modo di curarlo basta, così alla malattia dell'animo una qualche sola curazione forse basterà .
Ma donde cominceremo noi? Investigheremo noi quante siano le perturbazioni dell'animo, opera né facile né picciolissima? Se, come si dice, ogni animo perturbato sente d'insania, e infinite sono le spezie della pazzia, saranno e infinite le perturbazioni. A Biante filosofo parea morboso quello animo quale appetisse le cose impossibili. Rido. E guardiamo, Niccola, ancora noi che questa nostra non sia manifesta infermità d'animo volere col nostro ingegno, a tanta opera debolissimo, trattar quello che sia impossibile pur connumerarlo.
NICCOLA. E' si legge appresso de' poeti che quel Sileno insegnò a Mida non temer la morte. Non referisco Platone e gli altri simili quali con suoi ammonimenti e ricordi giovorono a chi forse gli ascoltò. Così voi, non dubito, con tanta vostra copia, quanta ieri ne esplicasti, pari potrete giovarci e satisfarci. Né fie questa cosa a voi difficile e non atta. Vedemmo già prove maggiori del vostro ingegno, e preghiamovi e aspettiamo ne satisfacciate.
AGNOLO. A che penso io testé? A tutti quando siamo vacui di merore ci duole el dolore altrui; e quando siamo oppressi da dolore, ci agrata el dolore altrui, e ne' nostri mali pigliamo conforto da' mali altrui. Quinci el vendicare, el punire e rendere alle offese. Donde vien questo?
NICCOLA. E intendiamovi, Agnolo, e dilettaci. Seguite. Voi fate come fece Dario in Asia, qual dispargea qua e là fuggendo l'oro, le gemme e le cose preziosissime per meglio suttrarsi in fuga e per arrestare e ritardare chi lo perseguia. Così voi, per distorci da quanto ci promettesti, ora interponete nuove quistioni, degne certo ma da considerarle altrove. Noi vi preghiamo; donateci questa opera. E quanto sino a qui motteggiasti, sia quasi come proemio a questa materia.
AGNOLO. Così vi piace, e Dio ne aspiri. Su, convienci resummere una delle divisioni nostre d'ieri in questa materia; e diremo che le perturbazioni accorreno e insisteno ne' nostri animi o dalla commozione de' tempi, o dalla durezza della fortuna nostra, o da qualche sinistro caso, o da malignità e protervia degli uomini co' quali ne abbiamo in vita, o da qualche nostro detto o fatto con poca maturità e consiglio. Questa fu nostra divisione ieri. Aggiugnià nvi quest'altra, che alcuni sono rimedi che giovano a non più una che un'altra perturbazione. Alcuni giovano a una e non pari a un'altra nostra commozione e perversione di mente e ragione. Addurremo adunque prima a ciascun morbo que' propri rimedi quali adattati e bene accommodati svelgano e diradichino ed espurghino da noi ogni concetto e infisso rancore. Poi accoglieremo insieme que' tutti rimedi quali stimeremo atti a sedare ed estinguere qualunque molesto agitamento e furore fusse eccitato e commosso in le nostre menti e pensieri. E cominceremo a curare quelle contusioni e punture d'animo quali importò in noi la nostra imprudenza e temerità . Qui non bisogna preterire uno commune e grave errore di molti, quali si reputano constituti in vita quieta e tranquilla, succedendogli la fortuna e le cose grate secondo li suoi pensieri e voglie. E non s'avveggono costoro così sé essere in mezzo avvinti da veementissime oppressioni, e stimansi poi iniuriati dalla fortuna e affannati dalle avversità dove essi sono a sé stessi gravezza e molestia. Ed eccovi come a colui, omo fortunatissimo, diletta la casa, la villa, gli ornamenti; stima l'amplitudine, la dignità , el potere in sue voglie e sentenze più che altri; agradagli la moglie; gode vedersi fatto padre; gloriasi in ogni buona indole e speranza de' suoi nati. Oh inezia degli uomini! Oh ragione mal compensata! Questi sono, o mortali, questi a voi sono e' veneni dell'animo. Quinci insurge quello che corrumpe a' nostri petti la vera e degna virilità ; onde poi effeminati non tolleriamo noi stessi e inculpiamo la innocenza altrui de' nostri errori. Fu el troppo amare quella e quell'altra cosa, fu el troppo ricevere a te questa e quest'altra voluttà , seme e ignicolo di tanta e sì importuna fiamma qual t'incende ad ira e a dolerti d'avere interlassato e perduto quello che tanto ti contentava.
Ad uno che volea fuggire la patria e irne in essilio, disse Socrate: «Più tosto, per mio consiglio, fuggi questa morosità dell'animo tuo, qual fa che dovunque tu sia abbi te non bene». Voglionsi adunque in prima deporre queste affezioni e adempimenti d'ogni suo diletto, qual cose son radici e capo di tante nostre ansietà e tormenti. Deporremole consigliandoci col vero e ubbidendo alla ragione. Queste a te mostreranno onde tu possa riconoscere le volontà e instituti di chi tu ami essere da natura volubile e inconstante; e mostrerannoti gli animi di chi ti si porge amico essere iunti a benivolenza teco solo tanto quanto fra voi durerà quel vincolo quale vi strinse ad amarvi insieme. Ché se vi collegò a tanta coniunzione qualche utilità o qualche gratissima ragione di convivervi insieme con festa e sollazzo, non voglio ti persuada avere la fortuna tra voi sempre equabile e secunda. Né dubitare, a te succederanno e' tempi tali quali per sua usanza e natura sino a questo dì succedereno a te e agli altri mortali. E tu riconoscilo quanto d'ora in ora e' furono vari e mutabili. Onde conoscerai che queste tue fortune, questo fiore e grazia di vostra età e forma, quando che sia, voleranno fra le cose perdute e spente.
Adunque, non preporre alle espettazioni tue tanta speranza, che tu escluda ogni ragione e consiglio per quale possi dubitare e presentire in te quello che può e suole avvenire ad altri con suo gravezza e tristezza. Eccoti padre a questi e questi figliuoli; eccoti fra' tuoi cittadini e altrove non rari amici, molti coniunti a familiarità , innumerabili conoscenze e commerzi; eccoti ricchezze pari a un re, amplitudine, autorità , dignità , quanto si può desiderare fra' mortali. Oh! te uomo e infelice, se forse arai ogni altra cosa, e non arai te stessi. Né pensare aver te stessi ove non possi moderarti molto più in le cose seconde che in le avverse. E non sempre, no, rimane el figliuolo erede al padre; né so se molti più furono padri e madre quali facessero essequie a' suoi minori che non furono figliuoli quali piangessero e' suoi maggiori. E questi nostri amici, chi affermerà che ne apportino in vita più piaceri che dispiaceri? Ben disse Valerio Marziale:
Nemini feceris te nimium sodalem: amabis minus, dolebis etiam minus.
Dico, Niccola, e dico a te, Battista: Oh perniziosissima peste a' mortali el troppo amore! Scrive Plinio che Publio Catineio Filotimo, lasciato erede in tutte le fortune di colui a cui e' fu servo in vita e molto amato, per troppo desiderio del padrone suo si gittò in mezzo del fuoco dove s'ardea e onorava el morto. Fu cosa questa d'animo impotente e furioso. Ma quali siano e' furori che tuttora traportino que' miseri mortali in quali arde troppo amore, altrove ne disputeremo. E queste nostre speranze e contentamenti quant'elle siano certe e stabili, lascio considerarlo a chi più spera e gode che non si li conviene. Questo bene ricorderei a chi mi volesse udire, che in ogni suo accogliere suo ragione e summa in questa causa, soscrivesse insieme le durezze e maninconie qual sono aggiunte e asperse con tante sue voluttà e letizie. E chi non vede ch'ogni umano piacere, altro che quello qual sia posto in pura e semplice virtù, sempre sta pieno d'infinite suspizioni e paure e dolori, ora di non asseguire, ora di perdere quello che gli dilettava e satisfacea? Appresso di Virgilio, Eneas fuggendo da Troia suo patria incesa ed eversa col padre in collo e col figliuolo a mano, non e' suoi armati nimici, ma e' coniuntissimi lo perturbavano. Leggiadro poeta!,
namque inquit:
et me, quem dudum non ulla iniecta movebant
tela neque adverso glomerati ex agmine Grai;
nunc omnes terrent aure, sonus excitat omnis
suspensum et pariter comitique onerique timentem.
Ma non mi estenderò in demostrarvi che 'l gaudio e lo sperare sono per sé all'animo perturbazione e morbo non meno che si sia la paura e insieme el dolore. Altrove sarà da disputarne. Basti avervi, quasi accennando, mostrato che per vivere vita quieta e tranquilla, bisogna moderarci e frenarci in ogni nostra voluttà e successo d'ogni nostra opinione ed espettazione. E se da qualche nostro o detto o fatto inconsiderato e immoderato, o da qualche passata desidia e inerzia nostra ne perturbiamo, siaci non ingrato quel pentimento per quale impariamo odiare e fuggire ogni immodestia e intemperanza. E se, come dice Catullo poeta, a ciascuno è attribuito el suo errore, ma niun vede quanto a lui sia magro el dorso, giovici qualche volta avere errato dove indi ne riconosciamo fragili e non più divini che gli altri mortali. E così indi a noi stia un certo eccitamento e stimolo a meglio meritar di nostra industria e solerzia:
Me dolor et lacrimae, - dicea Properzio poeta, -
merito fecere disertum. E quanti, perché fastidirono suoi brutti costumi passati, divennero ornatissimi di vita e virtù! Scrive Elio Sparziano istorico che Adriano principe, beffato in Senato per una orazione quale e' pronunziò con troppa inezia, deliberò emendarsi, e datosi con assiduità e diligenza agli studi divenne ottimo oratore. E non senza ragione Peto Trasea, presso a Cornelio storico, dicea che tutte le egregie leggi e onesti essempli quali sono infra e' buoni, nacquero da' delitti e mancamenti de' non buoni. Adunque si vuole non solo come dicea ....., presso a Terenzio, dalla vita altrui emendare la sua, ma in prima dal nostro proprio vivere e costumi si vuole di dì in dì prendere argumento e via a miglior stato di mente e d'animo, e succedere emendandoci e godendo in ogni nostro acquisto e accrescimento in virtù e laude.
Dicemmo delle perturbazioni quale in noi insurgono non altronde che da noi stessi. Seguita testé luogo da investigare in che modo rendiamo e' nostri animi quieti e tranquilli se forse da iniuria e improbità d'altrui fussimo concitati e vessati. Ma prima assolveremo quanto a questa parte bisogna intendere, che non raro crediamo nulla errare ed erriamo, che ne adduciamo in perturbazione e grave molestia col nostro inconsiderato discorso di ragione e imprudenza. E simile spesso ne stimiamo offesi da altri dove siamo d'ogni nostro dispiacere autori e apparecchiatori.
Che credi tu, Niccola, che sia facile a noi mortali schifare e non ricevere a sé invidia quando ella si succenda e infiammisi da tante parti, or dalle cose quali in altrui vediamo e sentiamo, ora da cose quali in noi riconosciamo? Grave, hui! Grave perturbazione l'invidia! Ma quanto ella possi ne' nostri animi assai ne scrisse el tuo Leonardo tragico, omo integrissimo e tuo amantissimo, Battista, in quel suo
Hiensale, quale egli apparecchiò per questo vostro secondo certame coronario, instituzione ottima, utile al nome e dignità della patria, atta ad eccitare preclarissimi ingegni, accommodata a ogni culto di buoni costumi e di virtù. Oh lume de' tempi nostri! Ornamento della lingua toscana! Quinci fioriva ogni pregio e gloria de' nostri cittadini. Ma dubito non potrete, Battista, recitare vostre opere; tanto può l'invidia in questa nostra età fra e' mortali e perversità . Quel che niuno può non lodare e approvare, molti studiano vituperarlo e interpellarlo. O cittadini miei, seguirete voi sempre essere iniuriosi a chi ben v'ami? E dovete sì certo, dovete favoreggiare a' buoni ingegni e meglio gratificare a' virtuosi che voi non fate. Son questi e' frutti delle vigilie e fatiche di chi studia beneficarvi? Ma della invidia e degli incommodi quali sono in le lettere, altrove sarà da disputarne. Tu, Battista, seguita con ogni opera e diligenza esser utile a' tuoi cittadini. Dopo noi sarà chi t'amerà , se questi t'offendono.
Per ora qui basti al nostro proposito constituire che la invidia in molti modi nuoce alle cose pubbliche e alle private: ed è un male occulto quale prima n'h...
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