[Pagina precedente]...oeta tragico, quando egli adduce uno e uno altro degli dii venuti a consolare Prometeo relegato e alligato a quel sasso al Caucaso, non diceano: O Prometeo, non curare e' tuoi mali e non gli sentire; ma diceano: Quello che a te è imposto dal summo Iove, quello che tu non puoi recusare, quello che a te è necessità soffrire, soffrilo con quanto men puoi agitare e infuriare te stessi. E Prometeo pur si lagnava con parole immoderate, e dicea: Io pur feci ch'e' mortali mai più morranno. Io imposi loro molta speranza e molto cieca; e insieme aggiunsi quel vivo e celeste ardore. E qui l'Occeano, massimo degli dii, li rispondea: «Tu, o Prometeo, lascia questo tuo fasto ed elazione antiqua. Usurpa testé nuovi costumi quando el cielo serve a nuovi tiranni, e al tutto modera a questa tua lingua e procacità . L'ira di chi può tanto in te quanto tu pruovi, si sederà colla tua summissione molto più che coll'alterezza. L'ira che ti incuoce si spegne e medica colle umili parole; e gioveratti non raro parere men savi e men dotti che noi non siamo. Della Necessità sono ministri e' Fati triformi e le mai dimentiche Erine».
Così dicea l'Occeano a Prometeo. E appresso di Euripide, pur greco poeta e tragico, dicea Ulisses ad Eccuba quando e' gli nunziava che l'essercito de' Greci constituiva per utile e salute del nome di Grecia sacrificare agl'iddii la sua figliuola: «Pensa tu, o Eccuba, ora non più lungi a' tuoi mali, e dà senza contumacia quello che tu non puoi denegare a' casi tuoi». Sempre fu opera di savio usare senno ancora in le cose non buone. E noi che faremo in le nostre avversità ? Nulla udiremo questi ottimi ammonimenti degnissimi di mandarli e osservà lli a perpetua memoria? Anzi, come el puledro, pur ne combatteremo e straccheremo subagitando e resteggiando qua e qua, obdurati in nostra contumacia contro a chi ne osserva a regge? E non ci mitigheremo né sosterremo chi ci contiene legati e frena? Indi e come reputeremo noi, disposti a nulla desiderare quello che fia irrecuperabile, costui a cui da ogni minima favilla di sue già estinte memorie si raccendono maggiori cure al petto, né s'avvegga del suo errore altronde che dalle sue proprie lacrime? E che piangi, uomo effemminato? Perdetti; non ho; vorrei. E' fanciugli vezzosi imparano piangere dalla troppa indulgenza della mamma, e quando e' non impetrano da lei quello ch'essi chieggono, allora giova el piangere per satisfarsi. E noi in questo siamo e più leziosi e con men senno ch'e' fanciugli, dove pur perseveriamo contorcendoci e singhiozzando in nostri convenevoli e piagnisteri, e vediamo e conosciamo che nulla giova. Quando a casa di Febe convenirono molti dii per confortarlo nel caso di Fetonte suo figliuolo, piacque a Febo convitarli, e apparecchiò loro secondo el costume antiquo quello epulo e lettisternio consueti. Erano infra que' divi el Pianto e ancora el Riso, fratelli gemini e nati in un solo parto, figliuoli nati della dea Mollizie e di quello Fauno quale e' chiamano Stolidasperum. Pirteo, ordinatore dello apparecchio, procedeva disponendo a' convivati loro luoghi e seggi. Quando e' divenne a questi duoi fratelli, e' si fermò, ché non potea non maravigliarsi mirando quanto e' fussero in ogni loro effigie e liniamenti troppo simili; né appena discerneva indizio alcuno per quale e' riconoscessi l'un dall'altro, che stavano ambedue simili colla faccia straformata dagli altri dii. Vedevigli colla bocca di qua e di qua inversata, collo ciglio contratto e innodato, con gli occhi lucciolosi e rappresi, colle mani e petto e umeri implicati e discommessi. Solo una differenza vi s'aggiugneva: questo è che l'uno di loro ti si porgea tutto bavoso e tutto muccilutoso; l'altro era non in tutto quanto costui a vederlo sozzo e iniocundo. Miravagli Pirteo e dicea: «Non saprei chi mandarmi di voi inanzi a sedere; ma qualunque di voi si move prima, l'altro lo seguiti». E questi due stavano pur quasi stupidi, né cosa favellavano, ma rompevano in voce e gesti inettissimi e disonestissimi. Pirteo, vedendogli così osceni e transformati, si maravigliò che 'nfra 'l numero degli dii ottimi e massimi fussero due sì osceni e iniocundissimi monstri. E nel maravigliarsi, quando esso guardava fiso costui, gl'intervenia che fingeva per maraviglia in sé viso simile a chi e' pendea col guardo e colla mente. E quanto summirava quest'altro, simile imitava quest'altro. Gli dii chi surrise della inezia loro, chi forse si condolse di tanta loro disadattaggine, ed esclusongli dicendo: «Né tu hai viso da onorare un simile convito, né tu hai faccia da consolare e' calamitosi». E certo pur sì, chi vedesse se stessi quando e' piange, o befferebbe tanta svenevolezza o dorrebbegli tanta sua bruttezza. Dirai: e chi può tenere le lacrime nei suoi mali? Natural desiderio. Vedi sino alle bestie pe' boschi e pe' diserti danno segni manifestissimi del loro furore. Forse come per altre molte cose, e per questo ancora in prima sono bestie, se desiderano quello ch'elle nulla possono trovare, o se credono col suo urlare e accanirsi trovar più tosto e con men fatica quello ch'elle siano forse per asseguire. E tu, uomo, che piangi? Se tu avessi altro che fare, certo non piangeresti. E' Ierosolimitani in quel suo ultimo eccidio in quale perirono più di secentomilia conosciuti ebrei oppressi dalla fame, non solo non piangeano, ma si dimenticavano sepellire e' suoi cari e amati. Ulisses presso a Omero, - non senza voluttà rammento spesso el nostro Omero, quando anche a te e' pare specchio della vita umana, - in cena, a chi chiedea da lui che recitasse e' casi suoi, pregò che lasciassino prima ch'e' satisfacesse alla fame e sete sua quando la fame fa dimenticarmi ogni altro merore. E que' compagni di Ulisses non prima che doppo cena appresso l'isola Hyperionis cominciorono a piangere e' suoi perduti cari e amici. E chi troverai tu a chi non superabbundino tuttora cose maggiori e più necessarie e utili e più degne che 'l piangere? E se pur questa insania del piangere ti diletta, almeno fuss'ella con qualche scusa.
Lasciamo a dietro l'altre cose in pronto esposte e manifeste quale, quando che sia, onesterebbono le nostre lacrime. Chi è che mai pianga pur uno di tanti suoi dì perduti oziosi o adoperati in vizio e vituperio? E qual ti pare mal maggiore o perdere quello che mai si possa, non dico recuperare ma né ristorare, o perdere quelle cose quali siano e nate per perdere e atte a riaverle? Non voglio stendermi in amplificare e coadornare questo luogo. Tanto dico che se pur lice el piangere a noi uomini tinti di lettere, sarà quando o perderemo tempo o commetteremo qualche errore. Ma né qui ancora voglio teco essere rigido e austero. Come in la battaglia el fortissimo milite, ove e' si sente stracco e oppresso, così tu cedi alquanto
ad secundos, at non inter triarios ordines, e ivi astergi el sudor e priemi fuori el sangue circumpresso a quella scalfittura ricevuta in te dove tu non eri bene armato. E ancora non ti inculperò se tu darai qualche lacrimetta delle tue all'uso e l'oppinioni degli altri, quasi segno e testificazione della umanità tua. Ma in questo odi e tu el tuo Omero dove Ulisses dicea: conviensi por modo a' nostri pianti acciò che di queste femminelle qualcuna vedendoci col viso madido e mezzo non ci reputi forse ebbri. E certo sarà alienissimo d'ogni constanza virile porgersi tale che sia o simile alle femminelle o simile a chi sia poco sobbrio e continente. E sarà nostro officio e proprio d'uomo far non più che solo come fece Enea presso a Virgilio, quale in tanti pericoli suoi e circumstanti mali solo
ingemuit et palmas ad sidera tendit. Le molte lacrime, gli acerbi pianti, l'urla e stridi femminili, a nulla sono degni d'uomo.
Appresso de' Litii, populi civilissimi, era una legge che chi pur volesse piangere si vestisse con veste di qualche femmina. Ma tu, se pure a que' gemiti virili forse v'aggiugni una e un'altra lacrima, e sfoghi qualche intimo sospiro, ponvi modo. Numa re de' Romani, omo religiosissimo e piissimo, vetò ch'e' morti si piangessero più mesi a numero che fussero gli anni quali que' morti erano stati in vita; né volse ch'e' fanciugli da anni tre in giù punto si piangessero. Il Senato di Roma, ricevuta la clade
apud Cannas gravissima e da viverne tutta quella età adolorati, comandò si sedasse ogni lutto in Roma, né più si protraessero e' pianti loro che sino al trigesimo dì. Cesare dittatore el terzo dì impose fine a ogni lutto domestico e pubblico con qual si degnasse e onestasse le essequie della sua morta figliuola. Così e noi, quanto potremo subito, porremo fine a queste inutilissime inezie.
Né pero tanto mi fastidia questa levità femminile del piangere e scalfirsi le guance e pelarsi el capo, quanto mi pare da odiare e fuggire quella insania di molti quali per loro concette maninconie sviano el sonno, interlassano el cibo, perdono se stessi, fuggono e vedere ed essere veduti dagli altri uomini, e in sua solitudine e umbra stanno stupidi e quasi stolidi, dolgonsi e predicano essere sé sopra tutti e' mortali miseri e infelicissimi; né però restano aggiugnere a sé stessi continua infelicità e miseria mentre che così si crucciano e tormentano con sue triste memorie e conceputi dispetti e dispiaceri.
Ma noi siamo e imprudentissimi ove male conosciamo lo stato nostro. Se, come dicea Socrates, tutti accumulassimo in un sieme e' nostri mali, a ciascuno parrebbe men peso riportarsi que' suoi antichi incarchi quali e' portò quivi, che di nuovo entrare sotto a questo inusitato peso e molestia quale a lui converrebbe se tutta la summa de' mali universi de' mortali si distribuisse per sorte equale a tutti. E quanto sarebbe somma più abile quella di Priamo, di cui si cantano que' versi troppo teneri e molto veementi ad eccitarci a compassione de' mali altrui, e a contenerci e ritrarci da ogni nostro inconsulto discurso in nostri effetti e immoderata voluntà :
Haec finis Priami fatorum; hic exitus illum
sorte tulit, Troiam incensam et prolapsa videntem
Pergama, tot quondam populis terrisque superbum
regnatorem Asiae...
Non mi estendo in raccontarti le calamità sue. Felice lui, se di tutta quella summa qual dicea Socrate, non più a lui fusse stata imposta dalla fortuna sua che solo la parte sua.
Appresso ..... era una consuetudine che gl'infermi giaceano fuori a' vestibuli e intrate del tempio. Chi entrava a salutare Iddio, vedea e udia ogni progresso di quella infermità , e dicea: questo medesimo intervenne al tale, e intervenne a me: fecivi quello e quell'altro rimedio, e sanificammo. Contrario uso mi pare el nostro ch'e' medici, onde impariamo sanificarci, stanno a' vestiboli de' tempî nostri. Quanto mi sollievano, Niccola, questi afflitti e lassi dalla sua fortuna e morbo, quali tu vedi nudi, sauciati, in età stracca, imbecillissimi, sedere e giacere su dove tu poni e' piedi, e pregarti limosina e pietà . Indi, Battista, indi prenderemo ottimi e salutiferi rimedi. Colui povero e priegami; io ricco, e dono: colui ogni suo membro nudo; io persino alle mani e molta parte del viso (membra da volerle espeditissime) tengo vestite e obinvolute: colui scabbioso, leproso, immundissimo, tutto carco di malattie e lutoso di fetido e virulento umore; io nitido splendido e tutto vezzi. Di tanta oscenità e fedità toccherebbe parte a me, se ogni cosa si distribuisse per sorte; e non si distribuendo, io pur sono lungi molto più felice che costui. O costui è poltrone, gaglioffo, e piacegli essere non altri che e' si sia omo; e pure è di quel medesimo luto che tu. E tanto più debba moverti a pietà , e insieme tanto più debba muoverti a riconoscere la tua sorte e la sua calamità , quanto in lui sono e membra e mente men sane che in te. E appresso dimmi: quello antiquo Mecenas nobilissimo,
editus atavis regibus, quello amico e nutritore di tutti e' buoni studiosi, quanto ti parse egli per tanta sua nobiltà degno della sua assidua molestia? Costui molta sua età sostenne in sé perpetua febbre, sanza dormire solo uno minimo momento d'ora. Tropp...
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