[Pagina precedente]...o sarebbe cosa troppa divina non esser gaglioffo, se solo quella generazione di uomini soffrissero gli ultimi mali.
Ma non mi stendo, già che in recitare le miserie dei mortali mancherebbe el dì. Tanto dico che non solo riconoscerci uomini e pensare alle sorte e condizioni umane, come ieri dicemmo, fanno escludere le maninconie, ma e ancora giovano a espurgare le già concepute e al tutto infisse miserie entro all'animo. E non solo questo riconoscere te stessi, ma insieme qualunque cosa propulsa e distiene da noi le perturbazioni; questa medesima le evacua, e risanifica l'animo nostro già contaminato e corrutto. E massime quei luoghi d'argumentare, quali tu usurparesti in consolare altrui, que' tutti adduceranno a te stessi molta utilità . Quali forse saranno questi: se uno de' mortali fu quello da cui tu ricevesti ingiuria, - mala cosa la ingiuria, perché mai fu ingiuria sanza vizio, né vizio sanza colpa, - ma el vizio e la ingiuria rimane a lui, ed è non tua, ma sua di chi la fece. Se il male è d'altrui, non bisogna ch'e' dogga a te; e se forse furono e' cieli e que' ministri della volontà di Dio, quali e' teologi antiqui appellavano dii, quelli che così t'addussero in calamità , accettalo in miglior parte, quando tanti beni ricevesti da loro, quali per loro natura sempre furono benefici e liberali e cupidi di vederti migliore. Aggiugni che sempre fu officio de' prudenti provedere a sé che nulla gli oppressi. E simile sempre fu officio d'animo forte soffrire qualunque cosa avvenga avversa. Voglio ne' tuoi mali invochi aito da Dio. Ma non voglio in questo t'abbandoni e diati a intendere non potere in te di te quello che tu puoi. Resta, quando che sia, sollicitare gli dii con tanti tuoi voti e chieste. Eccita in te la tua virtù:
Sat sit mens sana in corpore sano. La mente nostra sarà sana quanto la vorremo esser sana. La fortuna buona ben possiamo appetere dagli dii. Ma da noi conviensi chiedere la virtù, da noi, dal nostro studio, da nostra diligenza impetreremo sapienza, ornamenti d'animo e lode di ben composta mente. Chiederai ne' tuoi casi avversi forse dagli dii sapienza e virtù, subito ti si presentarà la prudenza, quale a te veterà perseverare in questo tuo condolerti, onde a te niuno resulti profitto; ed eccoti colla prudenza insieme la temperanza, a quale null'agrada ogni tuo fatto e detto immoderato e non maturissimo. E in prima la giustizia, lume e splendore di tutte le virtù, e accusa e appellasi deserta da te, dove tu così quasi in pruova degeneri dalla virilità e dal giusto e retto stato di ben vivere, abbandonando te stessi e tuo officio. E alla fortitudine, a cui fastidia ogni tua imbecillità , e vilipende qualunque sia cosa non eccelsa ed erta, come sarai tu bene accetto, mentre che tu giacerai in solitudine e in umbra, marcendo te stessi? Sollievati adunque omai, e aita te stessi, e adattati a vincere, e vincerai per tua virtù quando vorrai, e aiteratti a vincere chi tu meno credi. Questa tua fortuna avversa t'insegnerà essere paziente; la pazienza confermerà la virilità , e colla virilità si vince, e vincendo in ogni milizia si diventa fortissimo e insuperabile.
La fortuna per sé, non dubitare, sempre fu e sempre sarà imbecillissima e debolissima a chi se gli opponga. Ma tu, non aggiugnere a' reflui e ritrosi della fortuna e' sinistri impeti di te stessi. Pure intraversandoti contro a te e contro all'ozio tuo, e contro a ogni dovuta quiete dell'animo tuo, fuggi combattere contro a te, e resta ferire assiduo ivi dove tu ti senti più debile e men provisto e armato. Fuggi in ogni tuo ragionamento, quale tu hai fra te, ogni parola in condolerti e ogni gesto e ogni gratificazione a te stessi, quale tu, presente gli amici e inimici tuoi, altrove non useresti. E come in mare l'ancora, così in ogni estuazione tua d'animo e mente fondavi e affermati con integra ragione e virilità . E a questo molto insieme a te gioverà consolar te stessi con qualche lieta memoria delle cose passate o qualche grata espettazione delle cose che siano per avenire, contraponendo a' mali tuoi ogni tuo bene e lode quale a te sia o dalle tue fortune addutto o alle membra tue aggiunto o imposto nel tuo ingegno. E gioveratti far come Eneas, quale ne' duri suoi casi ed errori:
fatis (inquit) fata rependo meis. A tanti espettati beni, non ingiuria, si debbono queste e maggior fatiche. Quanti meno sono che potessero soffrire coll'animo non rotto ed equabile queste durezze, tanta sarà lode maggiore la mia bene averle sofferte. E quanto bello assettò Virgilio, ottimo poeta, in più luoghi questa ragione di consolarsi afflitto e mestissimo. Sono versi qui di Battista in suoi poemi toscani in quali imitò Virgilio:
Grave più cose già soffrimmo altrove,
e darà el tempo a queste ancor suo fine.
Ed Eneas presso a Virgilio:
Forsitan (inquit) et haec olim meminisse juvabit.
In tanto suo furore e ultima immanità Dido adiudicatasi e precipitosa in morte non potette quinci non consolarsi:
Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi.
Appresso d'Omero, Ettor ferito a morte consolava sé stessi con sperare a sé gloria immortale ed eterna fama; e dicea: «satisfeci al mio fato, esco di vita forse in età non matura, ma esco non sanza qualche piena e bene appresa gloria quando feci più e più cose degne di memoria e posterità ». E Ulisses, sofferti a sé molti oltraggi da Alcinoo re Feicorum, quando e' vide seco reconciliati gli dii e secundargli commodi e' venti al suo principiato corso in mare, dimenticava seco stessi ogni cosa avversa passata, e molto seco si consolava con tanta presenza d'ogni bene.
Così a noi converrebbe e castigarci con giuste amonizioni, e confirmarci con vere e integrissime ragioni, e consolarci con buona speranza, ioconde memorie e dolci contentamenti d'animo. Ma noi desidiosi e ignavi, quali tante ragioni e ammonimenti addutti da me sino a qui, e tanti modi di vendicarci in libertà e sottrarci dalle ingratissime nostre molestie, non attagliano forse, giacendo e gemitando desideriamo a' nostri sconci aver chi con sua qualche arte e senza alcuna nostra opera e diligenza noi restituisca ad integrità e a fermo stato d'animo e di mente. Vorrebbesi aver quaggiù fra noi quel Peion medico degli dii, qual mai si parte dalla presenza di Giove, e assistegli continuo in cena; e costui non però so se e' potesse in noi quello che non potemo noi in noi stessi, se già quella Elena, figliuola di Giove, presso ad Omero, non gli porgesse quella pozione con quale ella inducea oblivione d'ogni male a chiunque ne bevesse. Questa sarebbe cosa utile fra noi mortali; benché Diodoro, greco istorico, dice trovarsi una certa spezie di farmaco chiamato elena, composto dalla moglie di Tono medico, qual farmaco spegne le lacrime ed estingue il merore. Ma voglio ridere con voi, Niccola; né però dirò cosa non accommodata a questi ragionamenti, quando dagli dii ministri della natura e compensatori della condizione umana interviene, come dicea Ulisse ad Achille, che a' nostri mali d'animo non è chi per ingegno o per impiastri o medicamenti alcuni possa rimediarvi. Dianci a qualunque aito e amminiculo ci sollievi fiacchi e afflitti da sinistri incarchi. Rido. E' dicono che Bacchus fra 'l numero degli dii si chiamava
Liber pater, po' che e' liberava l'animo dalle cure e sedavagli el dolore e rendevalo ringiovanito. E questo facea solo col vino, frutto della terra alacre e iocundissimo. Molti impongono a Flacco, poeta lirico, calunnia quale s'ascrive a tutti noi vecchi, e accusanlo che fu bevitore; e questo arguiscono perché in molte sue ode e' loda el vino. Certo, come e' dicono di noi stracchi omai del vivere,
aquilae senectus. Pertanto non vorrei in mie parole parere men sobbrio ch'io mi sia sempre stato in ogni mia vita. Voglio in questa causa da me essere preiudicato e preconstituito questo, che io in ogni altro uso del vivere biasimo la immodestia del vino. E vidi e notai in molti altrove robusti e vivacissimi uomini che la intemperanza del vino gli atterrò e abbreviò loro vita e privogli di sanità . E non mi estenderò di raccontargli in quanti modi l'essere poco sobbrio oppressi e' nostri corpi di gravissime infermità . Ma Omero chiama el sonno domatore d'ogni acerbità , e introduce che ad Ulisses, dopo quel suo miserabile naufragio, giunto che fu el terzo dì al lito, la dea Atena, qual una sempre lo sovenne in ogni sua avversità , sopragiunse e trovollo giacere in su un suo quasi covile quale e' s'avea fatto di frasche e di frondi; e forse lo trovò repetendo e' suoi mali condolersi della sua calamità . Per questo mossa a pietà la dea Atena, non come in quel suo naufragio, gli sustese el velo o la vesta ove e' posasse el petto e le sua membra; ma solo gl'indusse, per suttrarlo alquanto da tante miserie, el sonno, e adormentollo. Stratonices presso a Iesippo istorico, presa da' nemici vincitori, deliberò uscire di servitù e uccidersi; ma in quel curare e procacciare quanto forse ella cercava per satisfarsi con men dolore e con più degnità , fu interpellata e compresa dal sonno. Dormì, e in quel dormire si spense tanto suo furore e immanità .
Bene adunque dicono che 'l sonno è dolce dimenticatore d'ogni male. Allettatore ottimo del sonno pare pure a me, il dirò, Niccola, el vino. Consiglio di Diomede: bei e mangia; poi dormendo ti racconsolerai. Benché appresso del nostro comico, Cherea dica in le sue cure amatorie: «Io in villa mi straccherò facendo qualche opera, tanto che lasso poi dormirò». Omero trovò a questo nuovi rimedi, dove egli introduce quella Tetis che suade al figliuolo suo adolorato cosa quale io non voglio dire, ché sapete gli dice: «Figliuol mio, trastullati con qualche tenera fanciulla stanotte». E altrove afferma el tuo gravissimo Omero che 'l coito introduce sonno dolcissimo e innocuo. E' Greci chiamano le cure dell'animo
acidos. Indi nominorono Venere acidalia, ditta che lievi le cure dell'animo. Ma che diremo del vino? Rammentati in quanti luoghi egli adoperi el vino a sollevare le triste gravezze dell'animo. Iunone si lagnava non essere stata, quanto ella desiderava, accetta a Iove, e Vulcano, pincerna degli dii, gli diede el vino col quale ella dilavasse ogni tristezza. E Laodices, moglie di Elicanore, al figliuolo stracco in fatti d'arme diede el vino dolce, e disse: «el bere restaura le forze e rafferma l'animo». Scrive Iulio istorico che Massimino, uno de' successori a Cesare moderatore dello imperio romano, quel che solea in un dì mangiare quaranta libre di carne lui solo e bere una anfora di vino, e solea ricevere in certe tazze el suo sudore quando e' s'affaticava, e spesso monstrava tre sestari vasi pieni del suo sudore, - costui iudicato inimico della patria dal Senato, essarse in tanta ira che percosse per furore el capo al parete e corse per cavar l'occhio al figliuolo. Solo uno ottimo rimedio giovò a tanta sua estuazione: inebbriossi. E quanto io, non ardisco a biasimare questo rimedio, qual pur giova, benché a me e' non sia bello. Molte cose fatte piacciono quali sono non belle mentre ch'elle si fanno.
E ancor veggo che questo uso del vino non in tutto dispiacque a più e a più ottimi e degnissimi uomini. Solone e Archelao, nominatissimi e filosofi e principi, e Catone, vivo simulacro di severità e austerità in Roma, soleano lassare le cure dure e acerbe dell'animo e ammezzarle col vino. Piaccia questo rimedio del vino a chi e' forse s'attagli. A me aggradono alcuni altri rimedi forse non dissimili da questi, ma più degni e più convenienti a uno uomo moderato e constantissimo. E in prima mi piace quello omerico Achille, quale per requiescere dalle molte sue faccende militari solea sedare l'animo cantando insieme col plettro e colla lira, instrumento musico. Quinci credo el nostro Virgilio introdusse quel suo Polifemo in antro,
quem
Lanigerae comitantur oves; ea sola voluptas
solamenque mali de collo fistula pendet.
E certo in questo convengo io colla opinione de' pittagorici quali affermavano che 'l nostro animo s'accoglieva e com...
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