[Pagina precedente]...tissimo, e ogni vostro detto molto mi si persuase. E ricordommi di quello che e' referiscono di Alessandro Macedone, quale essendogli presentato un forzerino bellissimo lavorato, non sapea che imporvi cosa preziosissima e condegna d'allogarla in sì maravigliosa cassetta. Pertanto comandò vi riponessero e serbassono entro e' libri di Omero, quali certo, non nego, sono specchio verissimo della vita umana.
Ma che volle Omero fingendo sì inaudita e ostinata pazienza in quel suo Ulisses? Se la pazienza è quella quale rende noi simili a chi nulla curi le offese, non sarà e' più lode al tutto nulla curarle e lasciarne altrui non solo el giudicio e determinazione, ma e ancora la fatica di punire e punendo render migliore chi teco mal visse? E se la pazienza sarà in noi quale fu in Ulisses in dissimulare di sentire quello che lo accuori, non io sono colui che tanto appruovi e preferisca questo instituto di vendicarsi in vita ch'io, per valermi di una onta, sostenga più e più strazi di me e di mia dignità . Né seppi mai meco sì adattarmi a non curare e sopportare la temerità e protervia altrui, che a me non paresse in quel tanto essere omo servile e da biasimarmi. Questi la lodano e prepongonla alle prime virtù, e dicono che la pazienza col starsi cortese vince le squadre delle Furie armate. Se egli è vittoria el ricevere assidui fastidi e trovarsi oppresso da gravissime e intollerabili molestie, essi dicono el vero. Io veggo e provo questo in me tutto el dì, che 'l mio essere sofferente a me frutta non altro che solo iniurie. El soffrire apre via e alletta la insolenza altrui esserti noioso: el soffrire d'ora in ora t'adduce e oppone nuove traverse e dure offese: el soffrire mai non fu utile se non quanto el mostrarsi e libero e uomo era periculoso. E quanto e' sia insuave, molesto, difficile e tedioso el sopportare la stultizia altrui, altrove sarà da disputarne. Ma giovi, quando che sia, fra 'l vivere e conversare della moltitudine questo dissimulare di nostre voluntà e questo negligere noi stessi e trascurare ogni nostra dignità , qual cosa voi chiamate pazienza. Dite, qual virtù sarà quella che noi sollievi oppressi da e' nostri casi avversi e dalle ruine de' nostri tempi? Diranno que' savi: non curare e' tuoi dolori. Facile precetto a dirlo, facile a dirlo. Ma colui el quale perdette e' noti a sé, domestici, coniunti, amici, e perdette l'altre sue commodità e onestamenti, e perdette sue fortune domestiche, amplitudine, autorità publica e luogo di dignità , e ora si truova in solitudine, assediato da ogni necessità , abietto, destituto, e forse malfermo e poco intero in suoi nervi e membra, come aiterà e soverrà a sé stessi? Voi forse a costui adducerete que' detti vulgatissimi e notissimi: non ti dispiaccia la cecità tua, non ti aggravi la surdità . Quando molte cose testé non vedi e non odi quali soleano adolorarti, assai vedi quando tu discerni le buone cose dalle non buone, le degne dalle non degne, e assai odi quando tu odi te stessi in quelle cose che faccino a virtù e laude. E bene hassi la notte in sé ancora e' suoi diletti. Le fortune, el nome, lo stato, la felicità del vivere, direte che siano cose caduce e fragili. Ed elle pur sono quelle per quali tutti e' mortali contendono col ferro e col fuoco, e per quali espongono suo sudore e sangue e vita; e voi vorrete ch'io non le curi né desideri? E pure mi duole, Agnolo, e duolmi non le avere. E bench'io mi disponga coll'animo e al tutto m'affermi a non curare e non desiderare quello che a me sia vetato e perduto, pur quando spesso ora vedo e' luoghi e cose, quando odo e sento questo e quest'altro, quando nel mio pensare trascorro di cosa in cosa, allora, come non solo dicea Dido presso a Virgilio:
agnosco veteris vestigia flammae, ma e in prima mi si rinnuovano mie triste memorie e raccendonmisi insieme e' miei dispiaceri oltramodo; e dico anche io:
dulces exuviae, dum fata deusque sinebant;
e viemmi lacrimato prima ch'io m'avegga del mio o volete errore o volete dolore. Diresti: e perché piagni? Rispondere'ti come rispose Solone filosofo: piango perché sento che 'l pianger nulla giova al mio dolore. Ma in questo chi mi ripreendesse? Noi vediamo natural desiderio fino alle fere silvestre intorno a' nidi e presso a' covili suoi dar segni manifesti de' loro incommodi. E prudentissimo fu quel detto del figliuolo di Nestorre presso del nostro Omero: io non lodo el piangere. E piangere nulla e' morti suoi mi par biasimo, quando questo solo onore si debba a' miseri mortali usciti di vita. Vedi che Priamo, re prudentissimo, alle essequie del suo Ettor, fortissimo figliuolo, comandò si celebrassero e' pianti interi nove dì, poi el decimo dì si sepellisse e facessonsi le essequie, e l'undecimo dì ordinò se gli construisse el sepolcro onoratissimo. Ed ebbe in queste funerali cerimonie chi con modi e canti e versi piangiosi eccitava mestizia e sospiri a chi udiva e vedea. Simile lodano Marco Fabio che, perduto el fratello, recusò la grillanda, insigne publico onoratissimo. Ma che raccontiamo noi essempli de' principi mortali, o donde meglio compreenderemo quel che in questo s'appruovi presso de' dotti e famosissimi scrittori, quando la Dea degl'iddii, presso a Omero, prese el velo nero nel suo merore e cordoglio?
AGNOLO. Or così fa, Niccola; tu omo qual sopra gli altri sempre fusti in ogni tuo vita sempre pazientissimo, segui meco argumentando e dissuadendo la pazienza. S'io volessi mostrarti quanto el sapere, come e' dicono, vorare la inezia del volgo e piegarsi alle temerità de' venti e aure populare sempre fu cosa commodissima, e s'io volessi esplicarti quanto l'essere non subito, non precipitoso, non aventato in suoi movimenti d'animo e volontà , sia cosa necessaria in vita, atta a virtù, conveniente a bene e beato traducere ogni suo età piena d'officio, piena di frutto, piena di merito, nulla difficile, nulla iniocunda, nulla disconveniente a chi sia ben confirmato con ragione e bene instituito ad onestà , e dato ad acquistar lode e buona grazia fra i mortali e posterità , non mi basterebbe el dì; tanta copia d'ottimi argumenti mi si inondarebbe e suppeditarebbe. Forse altrove a tuo posta ne disputaremo. Per ora, quanto accade al nostro proposito, a me nulla dispiacerà ti consigli colla necessità e colla opportunità de' tempi tuoi. Che dici tu? E' mi dolgono le offese. Io desidero le cose pregiate. Che adunque? E che faremo? Al primo impeto ne scopriremo e ostaremo armati. Guarda, Niccola, quanto sia utile questo consiglio. Dirai: e a te, Agnolo, che ti pare? Vedi quanto io mi ti dia facile e largo. Non vorrei essere udito da questi miei filosofi. Dico, Niccola, e tu, Battista, della sofferenza si vuole avere o nulla o troppo. Nell'altre cose giovi usare mediocrità . In questa, dove tu non puoi presentarti e averti libero, ubbidisci a chi più può. Ad Euripide poeta parea la inobbidienza della moltitudine più che 'l fuoco valida, e più atta a destruere e consumare le cose. E dicono che la moltitudine sempre fu insuperabile. Omero dicea che 'l male sempre vince; ma quanto e dove e a chi bisogni cedere t'insegnerà la necessità . E iudica necessario el cedere sempre dove tu cedendo non peggiori tuo stato; e quello che per ora si può mutare se non in peggio, iudicalo ottimo. Nel resto ti concedo che dove a te sia lecito, mostrati uomo non al tutto sanza stomaco. Spegni, attuta l'arroganza di qualunque te incende ad ira. E così adunque a me non dispiacerà ti consigli colla necessità e colla opportunità de' tempi tuoi in ogni tua impresa e faccenda. Né ti distolgo da' tuoi sensi e proclività umane; né ti interdico che a te non dolga perdere e non avere tuo care cose e amate. Ben ti rammento non perseveri col dolerti, né pur seguiti essere e a te grave e a' tuoi bisogni inutile e sinistro, e che desideri e che chiedi quel che e' mortali pregiano e prepongono, e per quale s'espone el sudore, el sangue, la vita. Questo, s'egli è possibile acquistarlo e recuperarlo col dolerti e col piangere, come molti fanno, segui; vivi in assiduo e profondissimo dolore tanto che tu a te satisfaccia e asseguisca e' tuoi desideri ed espettazione. Fa come fece quel M. Livio, uomo onoratissimo in Roma, quale sperava e a sé stessi promettea el consolato, ma poi repudiato dal populo e caduto dalle sue espettazioni in quella petizione del consolato se lo reputò ad ignominia, e per questo si commise in solitudine, e fuggì piazza, teatri e templi, e fuggì ciascuno luogo pubblico e celebre, e fuggì la patria, e visse anni otto in villa vita cordogliosa e squallida. E se tu pur vedi che 'l tuo lagnarti, e questo tuo condolerti entro a te e questo tuo vivere in tristezza e merore nulla t'apporti d'alcuna di tante cose qual tu vorresti, che stultizia sarà la tua non abdicare da te quel che ti strazia e atterra? Nulla si truova grave e molesto a' nostri animi quanto l'attristarsi dell'altre perturbazioni. La libidine ha in sé un certo ardore, la immodesta letizia ha in sé una inetta levità , la paura ha in sé non so che diffidarsi e troppo umiliarsi. Ma questa egritudine d'animo qual chiamano tristezza, questo dolersi e vivere tedioso a se stessi, ha in sé maggior mali insiti e infissi. Dicea Omero che la miseria presto c'invecchia. E tu così vedi e' cordogliosi deformati, languidi e fedissimi contorcersi ne' loro intimi crucciati, e simile a un trave annoso e corroso da tarli putrirsi e insordidirsi. Adunque e che insania fie la tua pur nutrire in te quel che ti seduce e distiene da ogni tua speme ed espettazione? Che pur segui tu ove nulla giova e molto nuoce el condolerti e attristirti? Non senti tu che questo tuo involgerti e sospignerti col pensiere in questa ortica di tuo triste e ingrate memorie ti rende inabile a discernere e distinguere quel che al bene a te s'acconfaccia in vita, e rendeti inutile ad escogitare e preordinare le cose buone e opportune e abili per evitare e propulsare e' pericoli e difficoltà quale tuttora incorsano e da molte parti noi urtano in vita. Se a te dolgono e' tuoi incommodi, tu a te stesso in questo ne dai cagione quale dolendoti male curi e' fatti tuoi. Se a te dolgono le tue voluttà perdute, riconosciti omai in colpa, ove tu non fughi da te ogni tristezza, e te dai ad altri nuovi diletti e amenità e piaceri. S'e' tuoi onestamenti e gradi perduti ti perturbano, tu in questo rimanti di sinestrar te stessi ove dimostri non esserti per tua prudenza persuaso già più tempo che tu eri non dissimile dagli altri mortali, e sentivi e riconoscevi te subietto ed esposto a' casi vari e volubilità della fortuna. E che giustizia fie la tua se tu pure obdurerai recusando in te alcuna delle condizioni dovute a chi vive? E che officio di prudenza sarà la tua non riconoscerti uomo? E che modestia sarà la tua non por, quando che sia, fine e termine alle tue querele? E che lode d'animo grande e fermo sarà la tua, se tu nato a imperare e regger gli altri, non saprai moderare te stessi? E se in cose alcune bisogna moderazione e ragione e virtù, certo bisogna contro al dolore. Oreste per dolore divenne furioso. Cleobolo filofoso, estinto da sue grave maninconie, uscì di vita. Eccuba fingono che per acerbissimi morsi de' suoi dolori diventò cane e arrabbiò. Niobe fingono che addolatara si convertì in sasso. Adunque se pel dolore si diventa e furioso uomo e arrabbiata bestia e insensato sasso, qual sarà che non curi con ogni sua opera e forza lunge propulsare da sé questo dolersi? Ma tu, Niccola, in ogni mia argumentazione vedi tu come io a te nulla vieto che tu non sia in tue opinioni e volontà uomo sì, ma proibisco non diventi efferato e immanissimo. E tu pur quivi t'affolti, e come la coturnice rinchiusa nella gabbia pur vorrebbe uscire per quel poco che a lei pare non bene intero, tu così quinci forse vorresti uscire in maggior disputazione ed estenderti in più lati campi d'argumentare contro a' detti miei. Oh! egli è cosa molesta e veemente el dolore, e vince: egli è cosa difficile e dura el non sentire e non cedere a' mali suoi. Eschilo p...
[Pagina successiva]