[Pagina precedente]...delibera della fortuna altrui. Se noi non fussimo insieme così a un modo miseri, l'uno sarebbe fastidio all'altro. Che maraviglia se e' fortunati cercano e' pari a sé fortunati». Parole degne di memoria; però le raccontai.
Ma quanto a noi bisogni, così faremo: consiglierenci colla nostra fortuna, e in le calamità saremo non queruli, e in le buone speranze del vendicarci saremo non rigidi né superbi. E intanto asconderemo e' nostri mali aspettando qualche accommodata occasione e luogo di satisfarci. E faremo come presso a Silio poeta fece Annibal, udita la morte del fratello, quale:
compescit lacrimas... vincitque ferendo
constanter mala, et inferias in tempore longo
missurum fratri, clauso immurmurat ore.
E se pur ti duole né puoi sofferire te stessi, e forse te conosci tale quale conoscea Tibullo poeta sé, ove e' dicea:
Non ego firmus in hoc, non haec patientia nostro
ingenio, frangit fortia corda dolor,
farai come presso d'Omero fece Ulisses, quando quel citarista cantava in cena cose a lui forse iniocunde, che si coperse el capo e lacrimò; poi, finito el cantare, si discoperse e mostrossi lieto bevendo a grazia degli dii. Così noi cederemo alla nostra imbecillità quanto potremo occulto e coperto. Ma che cerchiamo noi in questi nostri ricordi? Onde possiamo noi accogliere altronde erudizione accommodatissima che da Omero, poeta certo divino, qual sì atto e con tanta grazia esplicò quello si debba in vita dove esso scrive in qual modo e con quanta ragione Ulisses tradusse e' casi suoi? Vide Ulisses costumi di molti uomini, e vide le consuetudine di molte città ; scorse lontani paesi, e sofferse varie e dure e molte fatiche in vita, fra l'arme, in mezzo l'onde e tempesta del mare, con tanto e sì intero consiglio che egli acquistò indi nome e immortale fama; e pertanto affermano che fu uno sopra tutti gli altri prudentissimo ed essercitatissimo. Riconosciamo adunque gli andamenti suoi per meglio sapere in tempo seguire e' suoi vestigi bisognando.
Doppo a tanti suoi naufragi Ulisses, tornato alle gente sue sconosciuto e mal vestito, vide la casa sua fatta quasi come una taverna pubblica, piena di gente lasciva e immodesta qual dissipava e consumava ogni sua domestica entrata. Addolorò, e deliberò vendicarsi; ma intanto si contenne e seco disse: o cuore che altrove già tempo obdurasti nei tuoi mali, sostieni. Fu chi diede a Ulisses un calcio, e Ulisses quieto e muto, e per più dissimulare, simile a un gaglioffo porgendo la mano pregò a uno a uno chiunche ivi era in sala; in qual sala forse più volte avea ricevuto e onorato e' principi di Grecia. Ancora di nuovo percosso con uno deschetto, e lui pur quieto e saldo, niuna parola, niuno atto, se non quasi come fusse un sasso; nulla più che un poco mosse el capo. Vollono que' temerari pacchiatori che facesse a' pugni con quello Irone, omo abiettissimo, qual volea cacciar Ulisses di casa; e lui nulla ricusò, e pugnando non volle quel che e' potea; ma per non impedire quello dove e' tendeva a maggior fatti, gli diede un pugno de' suoi lieve. Ancora di nuovo Ethisippus gittò uno stinco di bue per ferire Ulisses nel capo, e Ulisses, quieto, solo acclinò el capo. Oh pazienza in uno uomo incredibile, fermezza inaudita e rarissima! Oh essemplo degno di memoria fra e' mortali! In casa sua da gente insolentissima e perfino da' gaglioffi mal ricevuto, svilito, percosso, ributtato, e lui né in parole né in gesti mai scoprirsi. Tutte le ubriachezze degli altri sofferse, con tutti dissimulò el suo sdegno, a tutti si diede giuoco e strazio, a ogni altrui iniuria tacito e paziente, perché così bisognava al suo instituto. Lui solo: quella brigata e molta e bestiale. Lui non atto per ancora a vendicarsi: coloro presti e pronti a superchiarlo d'iniurie. Lui né discoprirsi sanza estremo suo pericolo né partirsi sanza intollerabile tristezza e acerbità d'animo: loro e ivi lieti e pieni di vino, e altrove molti e pertanto quasi insuperabili. Adunque deliberò soffrire e dissimulando aspettare se il tempo o la stultizia di chi l'offese aportasse occasione e luogo alcuno di rimeritarli e vendicarsi. Solo a quella Melancum, fanticella di Penolopes, quale infestava Ulisses con parole femminili e proterve, si rivolse col piglio grave e collo sguardo sì terribile ch'ella impaurì. Prudentissimo Ulisses non volle quella molestia quale e' potea deporre sanza interturbare suo incetto. Fece come amonia Plutarco, che non si vuole
ultro et sponte offerirsi alle molestie e maninconie non bisognando. Ma dove così attagli, fie nostro officio non recusare occasione alcuna per quale ne adopriamo in virtù. Così adunque fece Ulisses. Ultimo, quando fu tempo, quella brigata inzuppata di vino, stracchi del ridere, lassi dalla sazietà e pienezza; e Ulisses pronto e sobbrio coll'arco in mano prima tenta le cocche, rivede la corda e ogni suo nervo, prepara e sé e sue saette a quel che avvenne. Nulla volle preterire onde potesse per sua negligenza o precipitata voglia di vendicarsi avvenire che e' forse meno si satisfacesse in tanta impresa. Indi vedi con quanta virilità e' rende opera a chi da lui meritava male.
Simile faremo e noi. Se forse al tutto deliberiamo satisfare a' nostri sdegni, provederemo col maturo consiglio quel che bisogni, aspetteremo con sofferenza quel che attagli, useremo non stizza, non subitezza, ma virilità e fermezza d'animo dove e quando così ci si presti luogo e tempo a satisfarci; e in ogni nostro discurso escluderemo ogni fretta e ardore di volontà . Mai venne tardi quel frutto qual venne in tempo; e persino alle pine, frutto durissimo e tardissimo, hanno suo tempo e maturità . E piacciati bene sperare delle voglie tue quando elle sono giuste. Favoreggiano e' cieli alle iuste imprese. In questo mezzo seda te stessi, e non aggiugnere al tuo dolore nuovo stimolo e cruccio; ma ripensa una e un'altra volta quanto e' sia necessario teco statuire tanta impresa. Ciò che tu potevi restare e ricusare di fare, questo fu non necessario. Ma tu forse stimi questa offesa, e misurila col viver tuo, e pesila co' tuoi costumi. Oh cosa dolce el viver nostro, se tutti e' mortali fossero e buoni e simili a te! Ma forse tu argumenti così: questo mai feci io, né questo fare' io. Non torresti el suo capro a Dameta, né Dameta torrebbe el bracco ad Atteone, né Atteone torrebbe a Platone que' libri pittagorici tanto pregiati.
Trahit sua quemque voluptas. E molto più la necessità , e non meno la natura e consuetudine del vivere alletta e tira e' nostri animi a vari costumi e vita. Ma non ci stendiamo. Vuolsi tanto diminuire alla ricevuta offesa quanto a chi offese s'aggiunse o ragione o condizione di così farti e così trattarti. Era Codro povero; però tolse a Crasso. Era M. Celio formosissimo; però accedette a quegli amori di quella Clodia. E simile, in questo comparare e accogliere tutti e' calculi, forse t'occorrerà che l'offesa ti si presenterà maggiore fatta in quel tempo, fatta in quel luogo, fatta da costui quale tu amavi e di dì in dì obligavi ad amarti con assiduo beneficio e grazia. Non insistere quivi, però che ogni tempo è alieno, e in ogni luogo è indegno d'usarvi iniustizia. E se cosa niuna, come si dice, a noi sta acerba se non quanto la stimiamo, né stanno e' tuoi incommodi posti nella stultizia altrui, ma seggono in la tua opinione, a lui qual fu incontinente e immoderato se ne aggradi el biasimo non a te s'aggravi el dolore. E scopertasi occasione di vendicarti, qual sarà maggiore vendetta che adducerlo a pentersi d'avere offeso chi e' non dovea? Questa vendetta fie più facile essequirla col beneficare chi t'è iniquo che col superchiarlo d'offese. E sarà beneficio gratissimo e laude prestantissima donar questa nuova grazia alla amicizia antiqua; e sarà officio d'animo degno d'imperio con questo rarissimo beneficio fundare nuova benevolenza. Ma qualunque siano e' tuoi pensieri, tanto ti rammento che in ogni tuo deliberare e statuire tua impresa, mai acceda dove la perturbazione t'alletta; ma come chi navica, se 'l vento preme questa banda, tu in quell'altra osta e offirmati. Non favoreggiar sempre alla causa tua, ma confirma teco ogni ragione e scusa di chi ti spiacque. Così seguiranno tuo corsi in vita, sopra e' flutti e tempesta del vivere, equabili e sicurissimi.
Dicemmo de' dispiaceri quali in noi occorsero da noi stessi, e dicemmo de' dispetti e iniurie ricevute dagli altri uomini. Ora investigheremo ragioni e modo di sedarci e acquietarci dalle perturbazioni commosse in noi da' tempi communi, da' casi e fortune nostre. Ma qui prima interporrò quanto mi si porge a mente che noi non rarissimo in nostre molestie e affanni incolpiamo forse e questo e quell'altro uomo di cose quali in prima surgono d'altronde che da chi noi le riputiamo.
Et tu, dicea Valerio Marziale,
sub principe duro,
temporibusque malis ausus es esse bonus.
E quale imperitissimo non conosce quanto possano e' tempi e ragion pubblice negli animi de' privati cittadini? Quinci avviene forse che tu truovi costumi perversissimi e modi di vivere pieni di fizione e falsità . Pènsavi tu se mai fusti in terra alcuna ove quanti vi siano uomini, tante vi siano trappole, quante vi s'usano parole, tante vi siano bugie e periuri. E conviensi fra simili uomini pendere col viver pubblico. E che la fortuna possa in noi mortali, o Niccola, che in noi mortali possa la fortuna, tu, o Battista, riconosci. Riconosci e' tempi nostri, quanti buoni vivono vita misera e non degna alle loro virtù. E contro, mira che monstri e quanto inauditi e incredibili crebbero nelle cose della fortuna; che dicea Iuvenale satiro poeta:
Si Fortuna volet, fies de rhetore consul;
si volet haec eadern, fies de consule rhetor.
E se così è che non pochissimo in noi possino e' cieli, fia nostra opera fare come chi giuoca: se gli avviene buono, vinca; se forse caddero sinistri partiti, moderigli con qual vi si adatti ragion migliore. E certo conviensi, secondo quell'ottimo proverbio antiquo, vivere oggi come si vive oggi. Dicono che ben consigliarsi e ben mantenersi son cose felicissime in vita. Sì; ma chi stimasse ben consigliato colui qual con dolersi de' suoi casi e fortune pur non volesse quel che a lui è necessità sofferire? Dicea Tales Milesio che la necessità vince. E qual si truova cosa che adduca necessità pari a' cieli? Onde ben disse Mannilio poeta:
Heu nihil invitis fas quemquam fidere divis.
E che così sia, vedi a Vergilio quel Laocon sacerdote, qual curando la salute della patria sua percosse col dardo quella macchina di quel cavallo di legno sacrato a
e pregno d'armati. Erano e' tempi fatali in eccidio di Troia, e però non gli fu creduto. Non vorrei errare adducendo da' cieli in tutte le cose de' mortali necessità inevitabile, e quel ch'io al tutto niego essere. Forse come e' medici allo infermo danno per giovargli quel che nocerebbe a' sani, e quel che e' vietano in altri, come incanti e filaterie, aggiungono a sé quando e' duole loro; così e noi, in nostre perturbazioni e mala fermezza d'animo, non senza qualche utilità ascolteremo chi forse disse che ciò che ora è, mai potrà non essere stato, e ciò che avvenne, qualche himarmones e fatal condizione e cagione fu, onde e' non potea non avvenire. E poi che quella e quell'altra cosa accrebbe, ella durerà non più nulla se non solo quanto in lei potranno que' suoi cieli e fati quali sono volubili e instabili. Adunque saranno le cose né sempre in uno essere né continuo in una quadra. Dicea Properzio:
Tempora vertuntur; certe vertuntur amores.
Et deus, et durus vertitur ipse dies.
Qual volubilità vediamo pari in le cose pubbliche come nelle private. Non fu sempre la fortuna pubblica de' Romani seconda e vittoriosa: trovorono Annibale quale in molta parte gli domò e distrinse. Né fu sempre la fortuna propizia ad Annibale contro e' Romani: abbattèssi a Marcello, qual mostrò ch'e' cartaginesi esserciti si poteano vincere. Adunque facciamo colla fortuna come scrive Laerzio Diogene che f...
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