[Pagina precedente]...civile, facessero lume e compagnia dovunque e' volesse andare. Non volle adunque Pericle, castigando l'altrui errore, contaminare sé stessi e ricevere a sé la perturbazione quale gli era importata; e non la ricevendo, la fece lievissima e spensela tanto quanto e' deliberò sofferendo e vincendo sé stessi aversi uomo e meritare della virtù sua. Che ti parse di quel Metello numidico cacciato da' suoi cittadini romani non per altro se non perché in lui splendea troppa virtù? Quale, sendo in Asia in teatro mezzo dello spettaculo, gli fu nunziato che la sua patria lo rivocava a grazia con amplissimo beneficio. In tanta sua letizia osservò constanza, e in suoi gesti nulla fu veduto mutarsi.
Adunque in le cose prospere e in le cose avverse troviamo che gli uomini possono in se stessi quello che molti niegano potersi. E meravigliomi del giudicio loro s'egli stimano non potersi moderare le nostre volontà e appetiti in queste cose caduce e fragili, quando e' vedono che chi non abandoni se stessi, può contro alle cose gravissime e durissime più quasi che la natura non li richiede. Quanti sono che soffersono estremi cruciati e intollerabili dolori con animo invitto e fortissimo! E chi non sa che in noi, moderati gli appetiti e frenate le volontà , nulla resta donde ne insurga alcuna perturbazione? Potranno adunque gli uomini le cose da natura acerbissime e molestissime, e non potranno le cose facili e paratissime? Muzio Scevola pose la mano in mezzo el fuoco, e Pompeo vi pose el dito; e molti altri raccolti da Valerio istorico si vede poterono, e dove e quanto a loro non dispiacque, esser constanti ed erti contro non solo a movimenti lievi dell'animo ma e contro a gravi dolori.
Ma che raccontiamo noi questi uomini rarissimi? E dimmi: non vediamo noi tutto el dì e' nostri servi abietti, oppressi dalla lor fortuna, attriti da' disagi, lassi dalle fatiche, in mezzo de' loro mali e ridere e cantare? Chi gli domandasse: perché ridi? credo risponderebbono: perché mi piace; e perché canti?: perché così voglio e cantare e star quieto e rallegrarmi a mia posta. Pesa loro la lor fortuna? S'ella pesasse, non sarebbono alla levità del ridere o del cantare espediti. S'ella non pesa, donde vien questo altronde che dal volere con ragione quello che per necessità li conviene sofferire? Fanno costoro pertanto, così volendo, men grave il suo male, o più forti sé a sostenerlo; o forse in prima così volendo solo col volere propulsano da sé ogni molestia.
Non adunque reputeremo sì grave né sì acerbo quello che sia in noi farlo quanto vorremo minore e men difficile. Ma intervienci come alla colonna: mentre ch'ella tiene sé in stato ritta e in se stessi offirmata, ella non solo se sustenta ma e ancora sopra ivi regge ogni grave peso; e questa medesima colonna, declinando da quella rettitudine, pel suo in se insito carco e innata gravezza ruina. Così l'animo nostro, mentre che esso se stessi conforma con la rettitudine del vero e non aberra dalla ragione, qual sopravi imposto incarico sarà che lo abatta? Fa che lo animo penda a qualche obliqua opinione, per sua proclività ruina e capolieva. Rammentami vedere la nostra gioventù a quel giuoco de' pugni, dando e ricevendo le picchiate, contundersi e infrangersi el viso, le mani, el petto, tornare fiacchi, lividi, senza aver dato in tanto dolore un picciol gemito. E di que' medesimi forse poi vidi qualche uno punto da una zenzada con gran voce mostrare la sua levità e impazienza. E questo onde avviene se non che ivi l'opinione adritta a virilità lo 'nduce a volere soffrire, e volendo gli si rende el dolore picciolo e da sofferirlo; qui la mollizie effemminata dell'animo per se stessi bieca e obliqua ad impazienza e intolleranza puerile?
Dicea Ermete Trimegisto antiquissimo scrittore: «la volontà , o Asclepi, nasce dal consiglio». Chi adunque ben consiglia, ben può quanto e' vuole. Vuolsi adattare l'animo a virtù. Conduceravvelo la ragione; e sempre sarà l'animo osservatore della ragione purché la sinistra volontà nollo svii; e sempre fie pronto donde tu possa ben consigliarti in vita col modo e via di tradurti grato a te stessi, accetto agli altri e utile a molti.
Né si vuole giudicare quello che tu possa di te stessi prima che tu lo pruovi; e provando, se bene non fussi, diventerai atto a vincere ogni insulto avverso vincendo te stessi. Ma noi, alcuni, troppo ne disfidiamo, e come in milizia chi sia inesperto e timido, così noi fuggiamo al primo strepito e ombra degli inimici, e prima succumbiamo coll'animo che noi conosciamo quanto possa chi ne urteggia. E come e' dicono che molti arebbono acquistata sapienza dove e' non avessono prima persuaso alla opinione sua d'esser savi, così, contro, non pochissimi rimangono sanza lode dove non si fidorono potere quanto volendo li era lecito potere. Così mi pare qui tra noi resti assai esplicato che noi uomini bene consigliati tanto potremo di noi stessi, di nostro animo, volontà , pensieri e affetti, quanto vorremo e instituiremo.
NICCOLA. Doh! Agnolo, che dura e iniqua sorte fie quella de' mortali se trovaremo in vita niuno sì inculto di dottrina, sì alieno d'ogni ragione, quale udendo queste vostre gravissime e approbatissime sentenze, non v'assentisca e confessi ogni vostro detto esser vero; e d'altra parte si truovi niuno sì perito e sì essercitato in cose lodate a bene e beato vivere, quale con opra affermi quanto e' con parole confessa doversi. E pensiamoci un poco. Se voi domandassi el fratello, el padre, la madre d'uno di quei fortissimi cittadini quali perirono superati da Annibale presso al laco Trasumeno qui presso a Cortona: «E che vi dolete? Queste vostre lacrime che giovano? Non sapete voi che il pregio di queste cose sottoposte alla fortuna non sta, in buona o mala parte, altrove posto che in la nostra opinione? Qualunque cosa avvenga a noi mortali mai sarà da chiamarla o riputarla male se non quanto ella a noi nocerà . Nulla nuoce se non quanto per lei si diventi piggiore. La ingiustizia, la perfidia, la crudelità fa non te piggiore, ma colui in cui ella abita. Per qualunque sopravenga fortuna avversa, per qualunque iniuria de' pessimi uomini, mai sarà chi diventi piggiore se non quanto e' vorrà , mal sofferendo se stessi, male avere. La morte sta a chi nacque natural condizione impostagli dal primo dì ch'egli apparisce in vita. E chi ben ripensa le miserie del viver nostro, la morte non è altro che uscire d'uno carcere laboriosissimo e d'una assidua fluttuazione e tempesta d'animo. Giovi a chi espose el sangue suo per salute della patria sua essere uscito di vita con laude, merito e grazia de' suoi», - dico, Agnolo, se voi usassi presso a que' calamitosi parole simili, che vi risponderebbono essi? Credo la madre, vinta dal dolore, arebbe poco atteso e meno inteso alcuna delle vostre parole. El padre forse, più maturo e d'età e di consiglio, risponderebbe: «Agnolo, voi dite el vero; ma a me quello che è grave continuo preme, e dove e' mi preme, non dubitate, e' mi duole». El fratello forse risponderebbe: «Se così fusse facile el soffrire gl'incomodi e le calamità con quale la nostra fortuna ne fiacca come è a voi, uomo dottissimo, el disputarne, rendovi certo ch'io m'arei levata questa molestia ingratissima dall'animo. Ma io sento dal dolor mio quel ch'io non so con parole esplicarvi, donde e' sia da non assentire a queste vostre ragioni qui addotte». Così credo vi risponderebbono. E forse se fra costoro vi fusse un di questi severi supercilii stoici, inventori e disputatori di queste discipline, so risponderebbe: «Non ci ricordate che noi perseveriamo in ogni officio e costanza. Queste cose caduce e fragili sono al tutto escluse da' pensieri e dalle voglie nostre, e sono gli animi nostri adiudicati a cose per quali viviamo beati e acquistianci immortalità ». Simili, credo, sarebbono le loro parole. Ma e' fatti quali sarebbono? Quanto converrebbono co' detti loro? E' me gli pare vedere disputare con una maiestà di parole e di gesti, con una severità di sentenze astritte a qualche silogismo, con una grandigia di sue opinioni tale che t'aombrano l'animo, e parti quasi uno sacrilegio stimare che possino dicendo errare. Odi que' loro divini oraculi: «Tu mortale cognosci te stessi. Di cose poche e minime si contenta la natura. A chi sia savio mai mancano le cose ottime, mai avviene cosa sinistra, sempre vive libero e sempre vive lieto». Poi ostentano quella ambiziosa austerità del ripreendere chi sé forse dia alle delizie; mordono chi curi le cose caduce e fragili; perseguitano chi succomba al dolore; inimicano chi tema e' pericoli; odiano chi non esca di vita con animo invitto e nulla perturbato. Uomini prestantissimi! Uomini rari! E voi con opra come approvate e' vostri detti? Qual fie di voi che potendo non volesse più tosto viver lauto e splendido, che povero e assediato da molti incommodi?
Crates filosofo volle la casa magnifica, gli apparati regi e vari ornamenti, vasi d'oro gemmati, mense argentee; qual cose e' predicava da nolle stimare. Aristippo, quell'altro filosofo, comperò una perdice cinquanta dramme. A Senocrate filosofo donò Dionisio tiranno una grillanda d'oro in premio perché e' vinse tutti gli altri a bevere. Lacides, pur filosofo, per troppo bere divenne paralitico. Non racconto Bione filosofo quale, domandato che cose facendo in vita lo rendesse lietissimo, rispuose: guadagnando. Ma mi maraviglio del nostro Aristotile che per delicatezza si lavasse nell'olio tiepido e per avarizia poi lo vendesse a' suoi cittadini. E Zenone stoico, padre ed esplicatore di questa austera e orrida filosofia, quale per insino alli dii prescrive severità , e con parole combatte assiduo contra la fortuna ed estermina e succulca da sé ogni sua licenza e beneficio, coll'opra come si porta? Egli udì che le sue possessioni erano arse e guaste dagli inimici; perturbossene in modo che 'l re Antigono, quale lo estimava quasi come un dio mortale in terra, se ne maravigliò, e forse ne iudicò quello che iudico io, che molti ragionano delle cose aspere e dure in ombra e in ozio non male, quali le soffrirebbono credo poi non bene. Chi fu in ogni suo detto e scritto più ostinato biasimatore di chi cede alla fortuna e non affermi la sola virtù essere ultimo bene a' mortali; chi fu in simile superstizioni più veemente ripreenditore che 'l nostro Seneca latino stoico? E qual fu egli in fatti? Quanto dissimile dalle parole! Scrive Cornelio istorico che costui tanto temette la morte che per non cadere in insidie quale e' temea da Nerone e da' suoi veneni, più tempi non si fidò mangiare altro che pomi e frutti crudi, né bevve altro che acqua di quella solo che surgeva fuori da entro della terra.
Potrei raccontarvi molti simili. Ma questi a che fine? Solo per inferire quello ch'io sento e giudico, e dico: se questi uomini dotti ed essercitatissimi, inventori, defensori e adornatori di queste simili sentenze più tosto maravigliose che vere, o non poterono secondo noi altri men dotti, o forse, secondo voi prudentissimi, non seppero nulla stimare le cose caduce e poco temere le cose avverse, noi altri e d'ingegno e di condizione e di professione minori e in ogni grave cosa più deboli, chente potremo? S'io non erro, tutti vorremo vivere sanza sollicitudine e acerbità . Ma che a me, o se io non so e non sapendo non posso, o se in tutto io non posso quanto io vorrei? Alcuni poterono soffrire el dolore, nulla curare la miseria, ridere la sua fortuna. E Muzio Scevola potette sofferire lo incendio della mano. Molte maggior crudezze possono in noi le paure, le iracundie e gli altri simili furori. Didone precipitata da furore uccise se stessa. Molti per paura di maggior tormenti deliberorono uscire di vita. E quegli altri cupidi di gloria, che col fronte e colle parole ostentorono in sé maravigliosa durezza contro a' casi e contro alle perturbazioni, Dio lo sa se l'animo loro era pacato e tranquillo. E pure, se uno e un altro si truovò in cui non fusse alle calamità sue sentimento e animo umano, furono o dii o certo non uomini. Chi non sente le c...
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