[Pagina precedente]...a infetti e compresi che noi sentiamo le sue insidie. E nasce la invidia non tanto da quel che in altrui abbunda, quanto e da quel che in noi forse manca. E surge ancora l'invidia da quello che invero né qui manca né quivi abbunda, ma da quel che la nostra inetta opinione e immoderato appetito e libidine ne suade. E può la invidia questo ne' petti ancora di quelli che si stimano savi e prudenti, che e' si reputano iusti e pii dove e' sono pure invidi, iudicano indegno di tante fortune colui quale appare sordido e troppo astretto a porgere beneficio di sé e gratitudine; e credono el suo dolore essere iusto ove a sé manchi quel che ad altri superabunda; né misurano e' suoi commodi con quel che si richiede, né pesano le sue copie col bisogno, ma terminan queste cose non colla ragione ma sì con la volontà e collo intemperato appetito; e vogliono non quel che a bene e beato vivere loro manchi, ma sì quello che a loro pare, per qualsiasi o iusta o iniusta ragione, di volerlo; e sono queste cose volute le più volte tali che elle né gioverebbono loro avendole né nuocono non le avendo.
Così adunque ne avviene che, abbagliati dalle faci della invidia, non discerniamo in che modo questi nostri sinistri movimenti siano in noi non addutti da ragione ma commossi e impinti da perturbazione e perversità di mente. Udisti che non so chi Filippides in due dì corse da Atene persino a Lacedemonia, spazio di stadi MCXL: e Filonio, corriere d'Alessandro, mosso da Sitione, in quel dì giunse ad Elim, che furono stadi MCCCV. E quel Strabo leggesti presso a Varrone che da lungi spazio incredibile vide l'armata uscire del porto di Cartagine. E dicono che Erodes fu cacciatore e pugnatore tale che non era da poterlo sostenere, e che egli uccise in uno solo dì fere circa XL. Vorresti e simile tu potere, e ancora a tuo posta forse vorresti come Icaro volare sopra l'acque, o come forse quella Pantasilea scorrere sopra alle somme spiche del grano. Se qui fusse la natura e proccurator delle cose apparecchiata a satisfarti in ogni tuo iusto desiderio, credo periteresti chiedergli simili cose immoderate e superchie. E se pur le chiedessi, ti risponderebbe: assai ti basta per viver lieto e contento quanto io ti diedi, e composi in te ogni loda e prestanza delle mie cose: a te el corpo formosissimo più che agli altri animali; a te e' movimenti atti e vari più che non sapresti desiderargli; a te ogni senso acutissimo, destissimo, nettissimo; in te ingegno, ragion, memoria, pari agli iddii immortali: quest'altre cose disoneste e non accommodate a beatitudine e felicità , in che parte potranno elle farti migliore e più fermo in virtù? E non ti rendendo migliore, che potranno elle mai ben contentarti?
Avvedianci adunque del nostro errore, e non insistiamo in questa perturbazione di compensare quel che in altrui ci pare male assettato, e desiderarlo a noi ove e' non bisogna credendoci eccitati non da invidia ma da iusto e libero sdegno. E così riconosciuto in noi che 'l nostro male vien non altronde che dalla nostra male addutta opinione, facile ne emenderemo e rassetteremoci a più quiete.
Succede ancora che non raro per esser troppo indulgenti a' nostri errori, induciamo a noi stessi gravezza e acerbità , e duolci se altri forse non si ritiene di narrare e predicare quello che noi non ci contenemmo dire o fare con poca ragione e precipitata volontà . Se quel ch'altri referisce di te non è bello, incolpane te che a lui desti materia e istoria di così ragionarne, e inculpane chi prima errò, non chi ora dice el vero. Sentenza d'Agamenon presso di Euripide poeta tragico: tu che ardisti peccare, bisogna sostegni coll'animo non turbato molte cose ingrate. Aggiugni a questo che spesso la troppa cupidità d'essere lodato e il troppo studio di vedersi onorato e riputato, sta pieno di gravissima perturbazione. E certo bisogna qui non dimenticarci quel che e' prudenti dicono, che il volere piacere a molti non è altro che un volere dispiacere a' buoni e a' savi. Bastici tanto acquistar fama e asseguir gloria fra el vulgo con nostre fatiche e vigilie quanto intendiamo per noi essere satisfatto a' nostri ozii, e quanto conosciamo che chi ci loda e stima invero può affermarci iusti e temperanti e virtuosi. E de' biasimi e favoleggiamenti qual forse venissero in nostro detrimento da' nostri emuli, invidi e inimici, vorrebbesi potere essere di tanta maturità che noi statuissimo in noi uno animo qual più curasse essere in sé e buono e dotto che parere apresso degli altri. Dicono che all'uomo savio la coscienza sua è un grande celeberrimo teatro. Né cerca l'uom savio altri arbitri di suo vita e fatti che sé stessi. E aggiugneva Bion filosofo a queste sentenze che all'uomo perfetto in virtù era dovuto udire e' detti altrui verso di sé iniuriosi, non con altro fronte e stomaco che se si recitasse una commedia in scena. E vorrebbesi, non niego, come e' dicono, dall'infestazione degli inimici imparar mansuetudine per sapere poi viver lieto e iocondo co' buoni amici. E certo quando e' sia opera d'animo forte più el sofferire con mente equabile e non commossa e' detti acerbi d'altrui, che con animo turbato vendicarsi, lodere' io chi in questo frenasse sé stessi e moderassi gl'impeti e movimenti dell'animo suo. Ma poi che oggi così si vive come dicea quel poeta comico: lupo è l'uno uomo all'altro, - forse bisogna contro alle offese e sentirle e refutarle e vendicarle.
Vendetta si potrà fare niuna maiore che coll'opere buone render bugiardo chi di te mal parli. E sarà vendetta rara e massima se chi nulla vorrebbe, molto convenga lodarti, e chi molto vorrebbe, nulla possa biasimarti. Tu, voglio, scrisse Cicerone a Dolobella, coll'animo sia forte e saputo in modo che la tua moderanza e gravità infami l'iniuria altrui. E Planco a Cicerone scrive: «In questo piglio io voluttà che certo quanto più e' mi odiano questi miei nemici, tanto maggior dolore apporta loro el non potere biasimarmi». E Socrate, offeso da que' suoi poeti, ridea e dicea: «Voi con questi vostri motti illustriate ogni mia vita, e morsecchiandomi mostrate qual siano e' vostri lezi, e qual sia la mia virtù. Tal porrà or mente a' miei costumi che prima non mi curava; e tal mi amerà che mi conoscerà virtuoso, qual prima di me iudicava sol quello che egli udia. Io, come un scoglio a mezzo el mare, persevero sopportando le vostre onte, e sofferendo vinco, in modo che quanto più arditi mi pettoreggiate, tanto più infrangerete voi stessi, ed evvi tanto più acerbo poi el pentirvene». Così faremo e noi: colla pazienza e col soffrire la insolenza altrui vinceremo; e imiteremo Antonio oratore, qual dicono che col frenarsi e ritenersi facea che chi l'aizzava con parole immoderate parea al tutto furioso. Marco Ottavio ruppe colla tolleranza e' furiosi impeti di Tito Gracco. E appresso di Iosefo istorico, dicea quell'Agrippa re de' Ierosolomitani che chi è offeso e soffre, facile induce col suo soffrire a chi l'offende un vergognarsi di tanto perseverare in sua malignità . Numa re de' Romani, abducendo e' cittadini suoi dall'uso ed essercizio dell'arme al culto e osservanza della religione, gli rendè meno infestati e meno molestati da' suoi finittimi e vicini, e acquistò loro amore e reverenza. E vuolsi sapere perdere qualche volta quando il vincere sia non necessario; ed è in guadagno quella perdita onde pello avvenire segue che tu men perda.
Ma se forse questi tuoi avversari e inimici cominciassero pur aversi teco con loro ingiurie e malignità troppo infesti e molesti, non sono io quello qual voglia da uno animo umano cosa alcuna non umana. Scrive Iulio Capitolino che ad alcuni quali vetavano piangere un calamitoso in sua presenza, disse Antonino Pio: «Lasciatelo essere uomo, imperoché gli affetti dell'animo non si possono con imperio togliere né con alcuna filosofia in tutto distenere». Così io non vieto che tu non senta le cose acerbe agli uomini quando e tu sia uomo. Proverbio antiquo presso de' Greci: chi non sente le iniurie, si è più di sei volte bue. E come diceano, presso a Livio istorico, que' Tarquini: egli è cosa pur pericolosa vivere fra' mortali non con altro che colla sola innocenza. Conviensi alle volte mostrare che 'l tuo stomaco ha collera come quello del compagno. Un che avea l'occhio non sincero e netto, rispose a un zembo e zoppo: «Ben dicesti ch'io veggo male quando io ti stimai diritto ed equale». Così noi. E per non lasciare oltre errare ad altri, e per non cadere, come dicea Laberio poeta, che la spesso offesa pazienza diventa furore, con modo scuoteremo e distorremo da noi chi troppo assiduo fusse mordace e petulante, per non abbatterci poi a rompere in qualche superchio cruccio; e piacerammi provegga di non esser sempre quel cantuccio dove ogni botolo scompisci. Ma voglio in questo servi modestia; e quel detto di Senofonte, qual dicea che del vincere molto mai fu da pentirsi, voglio interpetri in migliore parte che tu forse non stimi. Assai molto vince e' suoi malivoli chi nulla perde; e perderesti a te stessi ove tu te precipitassi ad immatura alcuna ira e cruccio. Non cedere all'iracundia, ma serbati a qualche attemperata e adattata occasione e stagione di satisfarti, dove tu in tempo possi spiegare le tue copie e forze. Intanto quasi come in insidie contieni, qual fece Socrate appresso di Platone in quel
Gorgias morso di parole contumeliose da ....., non rispose allora, ma dopo molto ragionare, ove accadde gli rendè suo merito e con bel modo gli rimproverò ch'egli era temulento, e disse: «Tu che farai quando sarai vecchio, se ora giovane non ti ricordi di qui quivi?». Simile noi, dove bisogni non altro che parole, gioverà per una volta sfogarsi, versarvi quanto vorremo ogni impeto, qual fece Tullio
in Vatinium testem. E poi, spenta quella vampa e evaporato l'incendio, sarà da rivocarsi e raccogliersi. E dove forse bisogni altro che parole, Niccola, le ingiurie sono mala cosa; ma non conviensi stizza e subitezza, ma consiglio e maturità . Col tardo consiglio si fanno e' fatti presto. L'ira si è nimica d'ogni consiglio, però che l'ira è una breve insania; né condicesi l'insania col consigliarsi. E fie quella via brevissima a satisfarti qual sia sicura.
Que' buoni Sabini, spogliati con fraude da' Romani, per vendicare la ingiuria acerbissima ricevuta in loro moglie e figliuole, nulla con furore, nulla con ostentazione, ma con ragione e modo si preparorono; onde in tempo ruppono con tanto impeto d'animo e d'arme che chi gli offese gli conobbe uomini e virili e indegni di tanta ingiuria e contumelia. Così noi non precipiteremo le nostre faccende, ma comporremole e porgeremole a miglior fine. E se il tempo e occasione non ci si presta come forse desideriamo, non però faremo come Iunone dea presso a Virgilio poeta, quale offesa serbava
eternum sub pectore vulnus; ma faremo secondo che ammoniva Fenix quel buon vecchio presso di Omero, qual dicea ad Achille: «Doma questo tuo animo sbardellato, quando gli dii, quali certo ti superano di virtù e dignità , sono flessibili». Domeremo noi stessi, fletteremo più a facilità e indulgenza che a severità e austerità . E forse non rarissimo gioverà fare come fece Agrippina, quale, avvedutasi in quella nave del suo pericolo sotto le macchine tese da Nerone per opprimerla e sfracellarla, iudicò utile e solo rimedio de' suoi mali el mostrare di non le conoscere e dimenticarle. Ultimo e ottime fine di qualunque ingiuria sempre fu el dimenticarla. E quando pure el conceputo sdegno ne contamini in modo che a nulla ci sia lecito el dimenticarlo, almeno lo asconderemo o dissimuleremo. Presso a Curzio istorico, quello Eustemon, uno de' iiij M. presi e stagliuzzati da' Persi, quando e' si consigliavano insieme se dovessero ritornare in Grecia così deformati, senza naso, senza occhi e senza mani, dicea: «Coloro sopportano bene le sue miserie quali le ascondono; agli afflitti la patria è solitudine; niuno ama chi e' fastidia; e la calamità si è querula, e la felicità è superba. Ciascuno si consiglia colla fortuna sua quando e' ...
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