[Pagina precedente]...ale occupati acquiesceremo. E poi che oggi così si vive che nulla si fa o dice non fitto e simulato, prima ne consiglieremo e col tempo e con noi stessi quanto sia da credere o refutare ogni altrui parola o fatto; e delle nostre saremo massai più che di cosa alcuna, però che la parola uscita mai si può revocare: se taci, sempre puoi non tacere. Sentenza d'Ippocrates: el tacer non dà sete. Né qui ancora mi stendo in raccontare come la natura oppose due valli e siepi alle parole nostre, denti e labbra; all'udire diede due aperte vie e patentissime. Piaceracci adunque ubidire la natura: udiremo di qua e di qua; el parlare nostro lo riconosceremo datoci non per detraere, non per eccitar discordie e danno ad altri, ma per commutare nostri affetti, nostri sensi e cognizione a bene e beato vivere.
Un precetto approvano gli antichi a vivere in pura tranquillità e quiete d'animo: che mai pure pensi far cosa quale tu non facessi presente gli amici e nimici tuoi. Ma a me pare potere affermare questo, che chi viverà disposto di mai dir parola non verissima, a costui mai verrà in mente cosa non da volerla fare palese in mezzo della moltitudine, in teatro. Quanto sia la verità degna e utilissima a ogni ferma quiete, e contro, quanto sia impedimento e forza a disturbarci nella busia, altrove sarà da ragionarne. E poi che facemmo menzione degli amici, prestaremo ogni diligenza in non accoppiarsi a familiarità di chi a te comandi in le voglie sue, dove tu ne' tuoi bisogni abbi a pregare lui. Aurea sentenza de' nostri maggiori, qual racconta Seneca: cosa niuna costa caro quanto quello che tu comperi co' prieghi. Co' pari a te vivi lieto. Ma fa come quel ..... presso a Terenzio comico, qual negava essere alcuno de' suoi a cui e' volesse ogni sua cosa esser palese. Studia perseverare in benivolenza, ma stima potere, quando che sia, essergli men coniunto che tu non fusti.
Sopra tutti gli altri ricordi non voglio preterire questo: dico a te, Battista, fuggi ogni commerzio, fuggi trame e lezi di qualunque femmina. Apresso a Omero, quel sapientissimo Agamennon afferma infra' mortali essere animal veruno più scelesto che la femmina. Tutte sono pazze e piene di pulce le femmine, e da loro mai riceverai se non dispiacere e impaccio e indignazione. Vogliolose, audaci, inconstante, suspiziose, ostinate, piene di simulazione e crudelità .
Così di dì in dì precludendo in noi e tagliando la via alle perturbazioni in modo ch'elle trovino chiuso ogni addito e otturato ogni fenestra per donde elle possino entrare ne' nostri animi, daremo ogni opera e industria di vivere liberi e vacui d'ogni molestia. E insieme studieremo, qual facea Alessandro, essercitando le sue gente e commilitoni in ogni preludio e movimento atto a bene adoperarsi in arme contro a' loro nimici, così noi studieremo essercitare nostre membra e sensi in ogni tolleranza e fortezza, per la quale ne rendiamo fermi e constanti contro ogni impeto della fortuna e de' casi avversi. E saranno e' primi nostri essercizi tutti addiritti a profugar lungi da noi ogni vizio, però che da' vizi nascono agli animi nostri manifestissime ruine. E qui in due cose mi par bisogni essercitarci: in moderar le volontà , e temperar l'ira. A tutt'e due daremo e modo e freno se statuiremo curar meno e meno tuttora stimare qualunque piacere nostro e qualunque dispiacere. Avvederenci d'esser bene composti coll'animo a questa una opera quando accettaremo da noi stessi niuna eccezione contraria. Oggi siede el popolo allo spettacolo, e io voglio essercitarmi in curar nulla questa voluttà ; rinchiuderommi tra' miei libri e starommi solo. Se così deliberasti fare, niuna suasione d'altrui, nulla cosa potrà avvenirti in mente che ti distolga dal tuo instituto. Ma tu quanto darai orecchie o fede a cosa che ti disduca da questo proposito, quanto penderai coll'animo verso dove la voluttà t'alletta, tanto sarai non ben costituto né bene addritto a sostenere te stessi; e quanto non atuterai le voglie tue e dara'ti a non repugnarle, tanto dispiacerai a te stessi, e tanto sarai non tuo né libero. Spegni, succulca quel pensiero. Refuta ogni cagione e condizione quale interrumpa e' tuoi culti a virtù.
Scrive, presso a Erodoto istorico, Amasis re d'Egitto a Policrate tiranno fortunatissimo: «S'egli è chi desideri bene a' suoi amici, io sono uno di que' tali. Né stimo che tu creda me esserti amico per rispetto delle tue fortune; ma poiché 'nsino alli dii par che non possino patire in noi mortali troppa felicità , sempre iudicai commodissimo ausarsi a tollerare ora le cose seconde ora le avverse. Questi vivuti sempre in felicità , che sanno essi quello che possa la fortuna? Che possono essi o pensare con ragione o statuire con diritto o integro iudicio? Niente. Adunque, se tu mi crederai come ad amico fedele e non in tutto imprudente, piglierai da me qualche argomento contro la fortuna; e a quelle cose che apresso di te sono carissime, e quali perdute molto ti dorrebbono, gittale da te, e quinci comincia imparare soffrire te stessi contro al dolore e contro la ingiuria de' tempo avversi. Vale». Così adunque a noi; e in questo così essercitarci faremo come fa el musico che insegna ballare alla gioventù: prima sussequita col suono el moto di chi impara. e così di salto in salto meno errando insegna a quello imperito meno errare. Così noi, se non così a perfetta misura, potremo nei gravi nostri moti subito adattare noi stessi. Nondimeno errando cureremo tradurci sì che ogni dì si aggiunga in noi qualche parte a esser più compiuti e perfetti in virtù; e accrescerassi alla virtù quanto scemeremo al vizio.
Sono alcuni da natura proclivi e addritti a qualche affetto d'animo non lodato. Cinna fu crudele, Silla fu concitato e veemente, Mario perseverò in sua iracundia. A simili bisogna nelle picciole e lieve cose avvezzarsi a quasi edificare in sé un'altra natura. Furono tra e' filosofi chi per ausarsi a non isdegnarsi se altri non li compiacea e conferiva quel che e' pregava, solea con molta instanza e con lunghe suasioni chiedere dalle statue più cose. E Crates filosofo irritava una e un'altra vilissima e procacissima trecca o meretrice a garrire seco; e questo facea per avvezzarsi a udire sanza stomaco e perturbazione parole villane e rissose contro a sé. Leggesi che ad Epaminunda, illustrissimo principe e lume di Grecia, fu dato una faccenda vilissima per dispettarlo, che provedesse a certe strade. Rise e lieto si die' a quanto gli fu imposto. Così tu simile godi ti sia dato materia in quale tu impari vincere te stessi. Le dure condizioni de' tempi sono materia ad informarci a virtù. Tigranes, nipote del re Archelou, perché più tempo visse stadico in Roma, dimenticò el fastu e superbia regia e divenne paziente quasi fino a essere servile. Udisti da chi t'odia un morso di parole. Vedesti quello insolente onteggiarti. Tu, delibera sofferirlo, almeno simular d'essere sofferente. E interverratti come fra gli amici, che servendo ad altri obbliga lui, contro, a pari servire sé. Così tu usandoti gratificare alla virtù, ella ti si darà pronta a mai abbandonarti; e interverracci che simulando diventerremo quali vorremo parere. Ottima simulazione sarà qui fare quello che fa chi non si perturba né si commuove. A Plutarco parea che con moderare la lingua si spenga l'ira; e in ogni vita sarà utilissimo el moderarla. Dicea Platone che gli dii rendeano in premio delle parole inconsiderate e lievi, pena gravissima. Scauro non volle che 'l servo dello inimico suo gli referissi e' malefici del patrone suo. Filippo re de' Macedoni, escluso la notte dalla moglie, tacque. M. Babio rimise salvi e liberi a Cleopatra que' duo militi Gabbiani che gli aveano ucciso el figliuolo. Così fa chi sia bene consigliato e ben offirmato e constante: modera e comprime quelle cose per donde s'accenda l'ira e le perturbazioni, e più gode e mostra non satisfarsi crucciato ove e potea saziarsi.
Né sia chi stimi non essercitandosi abituare in sé virtute alcuna. Non scrivendo, non pingendo, mai diventeresti pittore o scrittore. E scrivendo non bene s'impara scriver bene, pur che facendo curi fuggir quello che in te facea scriverti non bene. E per adattarci a virtù intrapreenderemo qualche essercizio virtuoso, in quale occupati ne esserciteremo assiduo pensando, investigando, adunando, componendo e commentando, e accomandando alla posterità nostra fatica e vigilie. E così ne distorremo e separaremo da ogni contagione e macula del vizio, e viveremo lieti e contenti. Oh dolce cosa quella gloria quale acquistiamo con nostra fatica! Degne fatiche le nostre per quale possiamo a que' che non sono in vita con noi mostrare d'esser vivuti con altro indizio che colla età , e a quelli che verranno lasciargli di nostra vita altra cognizione e nome che solo un sasso a nostra sepoltura inscritto e consignato. Dicea Ennio poeta: non mi piangete, non mi fate essequie, ch'io volo vivo fra le parole degli uomini dotti.
Ma non mi stendo in lodare l'affaticarsi in cose pregiate e degne. Solo ammonisco qui Battista quanto io stimo bisogni essercitarsi. Chi vive senza faccende, dicea Plauto quel poeta, ha più che fare che chi è faccendoso; e' va su e va giù, e non sta qui né quivi, erra e combatte sé stessi. E noi, produtti in vita quasi come la nave, non per marcirsi in porto ma per sulcare lunghe vie in mare, sempre tenderemo collo essercitarci a qualche laude e frutto di gloria. E gioverà imporre a noi stessi qualche necessità di così essercitarci in virtù. Io deliberai un tempo riconoscere tutto quello che scrisse Aristotile in filosofia. Chiamai alcuni studiosi e a me imposi legger loro ogni dì due ore. Quella ascrittami quasi necessità mi fece assiduo più ch'io forse non sarei stato. Scrive Solino che 'l cervo ausa e' suoi nati a correre e fuggire. E se el cervo e l'altre bestie da natura cognoscono e' suoi bisogni e utilità , noi nati uomini a che ne addestreremo? Adunque noi in ogni attitudine a bene vivere, ma in prima in quel che più bisogna più ne auseremo. E non sia chi dubiti che sopra tutto bisogna ausarsi ad odiare e fuggire ogni vizio prossimo molto. E molto giova darsi a meritare fama e immortalità di suo nome e memoria. Ma sopra ogni cosa conviensi ben curare e cultivare l'animo con buona instituzione e degna erudizione. E' vezzi del corpo infracidano l'animo e rendonlo vizioso. Però sarà nostra precipua e assidua opera essercitarci a vita qual si contenti di cose e poche e facili a trovarle.
Scrive Iulio Capitolino che Marco Aurelio Antonino, rettore dello imperio di Roma, per imparare a sofferire se stessi dormiva in terra, e cose molte altre facea simili a Diogene filosofo, quale e' recitano che a mezzo inverno abbracciava le statue marmoree cariche di ghiaccio solo per ausarsi a sofferire le cose avverse. Appresso Silio poeta, Serano lodava Regulo in questi versi:
Illuviem atque inopes mensas durumque cubile
et certare malis urgentibus hoste putabat
devicto maius; nec tam fugisse cavendo
adversa egregium, quam perdomuisse ferendo.
E' nostri maggiori Latini assuefacieno gli esserciti suoi a quel cibo militare e castrense quale era simplice e senza apparato, ed era non altro che lardo e cacio. Voleano questi essere espediti alle faccende virili e disoccupati da questi altri impacci servili. Così noi avvezzeremo le nostre membra a esser contente del poco e a soffrire senza delicatezza, e coll'uso asseguiremo ogni gran cosa.
Scriveno che a Iulio Viatore,
eques romano, e' medici proibirono le cose umide; e lui con ausarsi divenne che in senettù bevea nulla. Qui Battista solea non potere senza gran molestia e perturbazione della sanità sua stare colla testa discoperta tanto quanto egli adorasse el sacrificio. Vedilo testé che d'astate in astate avezzo non può in mezzo dell'alpe e al nevischio soffrir coperto el capo; e quel che non potette l'arte e cura de' medici, può lui col ridursi in questo suo uso. Ma quanto possa ne' mortali ogni uso altrove sarà da recitarlo. Solo qui resti suaso che se l'uso può, bisogna distorci da ogni...
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