[Pagina precedente]... contro a sua volontà . Niuno si truova più lieve che colui el quale non ferma el suo volere a qualche certezza; e fa niuno tanto contro alle voglie sue quanto colui che pur vuole quel che e' non ha, però che ciò che e' fa per averlo vorrebbe non lo fare. E a precludere queste moleste voglie gioverà considerare le cose con ragione e verità , non con quella opinione qual biasimava Aristones filosofo in noi mortali, e meravigliavasi donde fusse che gli uomini si dessono a intendere d'esser beati più dalle cose superflue che dalle necessarie. E molto gioverà in noi statuire che le cose buone e necessarie sono e poche e facili, dove, contro, le non necessarie sono molte e fallaci e fragili e difficili e raro oneste. Quale, se ben fussero da pregiarle, dobbiamo riconoscere in noi quello che ne ammonia Pittagora, che cosa niuna fuori di noi si truovi nostra; e non che nostra, ma né volle la natura noi omicciuoli esser d'altro che di noi stessi custodi, quando di tante sue cose la natura solo a noi lasciò un picciolo uso d'una minima parte. E quando ben fussero ottime e nostre, riconosciamoci mortali ed assiduo penderci da molti vari casi sopra capo e non lungi la morte. E se bene vivessimo gli anni di Nestore o di qualvuoi altro che più visse, ricordianci assidui, come disse Manilio quel poeta:
...labor ingenium miseris dedit et sua quemque
advigilare iussit fortuna premendo.
E certo, come disse Crisippo, troverrai niuno infra e' mortali a cui non spesso occorrano cose da dolorarlo.
Adunque pensaremo che ogni volubilità della fortuna possa in noi di dì in dì quel ch'ella suole in tutti gli altri mortali. Ma in questo pensiero non però ci attristeremo quasi come tuttora aspettassimo qualche ruina in nostre fortune e cose. Né ancora solliciteremo noi stessi a curare ogni minimo movimento de' tempi e delle cose, perché, come scrisse Augusto principe
ad Liviam questo sarebbe un perpetuo estuare coll'animo e un quasi straccare sé stesso. Ma ben ci prepareremo e offirmerenci coll'animo a sopportare senza contumacia ciò che possa avvenire. E se pur cosa verrà contro tua volontà , prepà rati che non venga contro a tua opinione. Stima che in te potranno le avversità quanto poterono in ciascuno degli altri uomini. Con questo premeditare che tu se' mortale e che ogni duro caso può avvenirti, asseguiremo quel che molto si loda presso de' prudenti, quali ne ricordano: diamo opera ch'e' tempi passati e questi presenti giovino a que' che ancor non vennero, e ricordianci che ne' tempi della seconda fortuna prepariamo e' rimedi contro l'avversità . Così noi in questa tranquillità d'animo assettianci a un curare poco e a un quasi dimenticarci le ingiurie della fortuna prima che ne offendano. E interverracci simile a quel Bion filosofo, qual morendo si gloriava mai avere in sua vita sofferto cose contro a sua voglia. E così addestrati col tempo impreenderemo non dedicarci a stimare e amare le cose più che a loro si convenga.
Modera la oppinione e iudizio, tempererai gli affetti e' moti dell'animo. Temperato l'amore, si spegne la volontà . Estinta la volontà , non desidererai; non desiderando, non ti duole el non avere o avere quello che tu nulla stimi. Dicono: ama la patria, ama e' tuoi sì in far loro bene quanto e' vogliano. Ma e' dicono ancora che la patria dell'uomo si è tutto el mondo, e che 'l savio, in qualunque luogo sarà constituto, farà quel luogo suo; non fuggirà la sua patria, ma addotterassene un'altra, e quivi arà bene assai dove e' non abbia male, e fuggirà sempre essere a sé stessi molesto. E lodano quel detto antiquo di quel Teucer, uomo prudentissimo tanto nominato, qual dicea che la patria sua era dov'egli bene assedesse. E sono miei quegli pe' quali io viva contento e quieto coll'animo; quelli vero pe' quali io viva discontento e perturbato, sono non miei, ma più tosto alieni e da connumera'gli fra' nostri nimici. Aggiugni a queste che per escludere da noi ogni gravezza d'animo, molto s'acconfarà fuggire que' luoghi, quelle cose, quelle persone, quali siano atte a importarci molestia e perturbazione.
Fra la moltitudine puoi né stare né andare che tu non sia urteggiato. Sentenza di Crasso oratore: le volontà di colui non esser libere, quale sia osservato da molti. La solitudine sempre fu amica della quiete; e questo vero quando la sia non oziosa. L'ozio, - chi dubita? - nutrisce ogni vizio; e nulla più perturba che 'l vizio. Dicea Ovidio:
et capiunt vitium, ni moveantur, aquae.
Molto più l'animo, nato a mobilità e varietà , più che ogni onda. Sarà adunque la solitudine con qualche essercizio, de' quali più giù diremo. E poiché tante cose aduniamo e facciamo e ordiniamo per salute del corpo per gratificare alle nostre membra, curiamo quando che sia la salute dell'animo nostro. Dicea Omero poeta che agli uomini nascono molti mali dal ventre; e noi pur ci diamo a servire al ventre, onde a noi resultano infiniti incommodi. Dianci adunque a vivere non alle membre nostre ma a noi stessi, cioè a ben fruttare el nostro ingegno. Quando vediamo che sollecitarci in curare le cose di fuori di noi, sono nostre opere e nostri pensieri tanto d'altrui e non nostre quanto quella e quell'altra cosa la richiede e adopra, lascianle guidare alla fortuna di chi elle sono. Non però voglio posporre la salute del corpo; volo sustentare, non saziarlo. Dicea Diogenes cinico: se col grattarsi el ventre si sedasse la fame, forse sì farebbe per gli uomini e forse che no. La fame, se non gli satisfai, infesta e fassi ubidire. Apulegio, accusato, negava sé esser pallido per le cure amatorie, ma affermava che le fatiche degli studi lo allassavano. Quattro cose connumerano e' fisici esterminare e prosternere in noi le forze della natura: il dolore, le vigilie, el fetore, le cure dell'animo. E non so come, indebolite le membra, l'animo sia men libero e men suo. Adunque daremo al corpo quantunche bisogna, e ritrarremolo dalle cose nocive alla sanità . E per non eccitare all'animo altre cure, schifaremo d'avere più d'una faccenda qual sia nulla grave o difficile più che possino le forze nostre. Non però in questa porremo ogni nostro studio, ogni opera, ogni assiduità ; anzi interlasseremo qualche ora, e poseremo quando che sia quella veemente contenzione d'animo e perseveranza di nostro studio. Asinio Pollione, nobile oratore, scrive Seneca, sino all'ora del dì decima sé essercitava in ogni laboriosa industria: doppo all'ora decima sé contenea in tanto ozio che neppure leggea le lettere scrittegli da' suoi amici. E non senza onestissima ragione e' nostri maggiori patrizi in Roma vetavano si facesse in Senato dopo certa ora nuova relazione, ché voleano a tante faccende interporvi qualche ozio e quiete. Antioco re, dopo che perdé l'Asia, ringraziò el Senato di Roma e fu lieto gli si minuissero faccende. E noi poco prudenti non solo con troppa sollicitudine ci affanniamo in più nostre faccende, ma e non richiesti intraprendiamo le faccende altrui. Antiquo proverbio: chi s'impaccia rimane impacciato. E dispiacemi la stultizia di molti quali, nulla curiosi d'addestrare se stessi a virtù, mai restano investigare e' fatti e detti altrui. E interviene loro come a chi ama, quale scrive quel vezzosissimo poeta Properzio:
... rursus puerum quaerendo audita fatigat,
quem, quae scire timet, quaerere plura jubet.
Interverratti forse che ti converrà inframettere a qualche faccenda aliena dall'ozio tuo. Tu qui pon quello studio in pensar di non la ricevere a te qual tu porresti in essequirla ricevendola. Argumentava Aristotile in questa forma: come la guerra si soffre a fine di pace, così le faccende si pigliano per assettarci in ozio. Qual cosa non potremo se non satisfarèno alle necessità , e per adempiere la necessità cerchiamo l'utile. Ma cosa niuna disonesta sarà mai necessaria. Per vivere adunque in ozio onesto intrapreenderemo le fatiche, non per agitarci ambiziosi e ostentosi. Onde a me coloro paiono pessime consigliati quali curano fra le prime cose la repubblica e spesso abbandonano le sue faccende per agitarsi in quella ambizione de' magistrati; e ripresi rispondono così doversi dove chi si sta sia lasciato stare, e pare loro non essere uomini se non sono sollicitati e richiesti da molti. Questi a me paiono poco prudenti se fuggono starsi contenti di sé stessi e pertanto liberi e beati. Solea dire Galba, quello uno de' dodici principi romani: niuno mai sarà sforzato a rendere ragione dell'ozio suo. Né senza cagione ascrivea l'Epicuro agli dii summa beatitudine el convenirli far nulla altro che contemplar sé stessi. Né mi dispiace quel detto di Crasso, qual negava parerli omo libero colui qual talora non possa far nulla. E in una nave, come argomenta Platone, se al governo siede omo atto e destro a quello essercizio, che arroganza sarà quella di chi ne lo lievi e prepongasi ad amministrare le cose? E se non v'è atto, che a te? Non voler tu solo di quello che è publico più che se ne vogliano tutti gli altri. Ma quello temerario qual non sa regger sé in quiete e in tranquillità , come reggerà gli altri? Come più uomini? Come uno intero popolo e moltitudine? Non mi stenderò in questa parte. E non racconto quante perturbazioni apporti seco ogni ambizione e ostentazione di nostra virtù e prudenza e dottrina, onde, lasciamo le invidie quante elle siano in altrui, e certo in noi insurge cagion di contendere e gareggiare, e ogni contenzione e gara tiene in sé faville di rissa, quale agitate accendono grave odio e inimicizia.
Atqui amat victoria curam, dicea Catullo; e colle gare e colle concertazioni sempre fu iunta la indignazione; e gli sdegni sono nella vita dell'uomo mala cosa, e troppo atti a troppo perturbar e' nostri animi. Ateglies Samio atleta, nato muto, sendogli ratto el premio e titolo della vittoria in teatro, acceso d'indegnazione ruppe in voce e sgroppò la lingua a favellare e condolersi. Cleopatra, spreta da Cesare Augusto, sé stessi uccise. Tanto possono in noi gli sdegni non solo commuovere gli animi atti e quasi fatti a perturbazione, ma ancora travaricare e pervertere ogni instituto e ordine di natura. Ma di questo altrove.
Alcuni da natura sono suspiziosi, acerbi, proni ad iracundia. Voglionsi schifare, però che come l'altrui incendio scalda e' nostri prossimi parieti, così l'altrui infiammata ira nuoce a chi, e cedendoli e vitandoli, non se allontana. E sopratutto que' che sono inerti, oziosi e insieme lascivi e prosecutori delle voglie sue. E in prima si voglion fuggire e' raportatori, e massime e' bugiardi, que' potissime che sono versuti e callidi; da qual sorte di gente mai ti resterà se non che lagnarti e indegnarti. E con tutti conviensi esser tardi al credere e persuaderti ch'ogni uomo sia buono. E chi ti referisce male d'altri, quasi protesta non amarlo; e chi non ama chi tu reputi buono, mostra te essere imprudente iudicatore delle altrui virtù, e d'altra parte mostra sé esser non buono. Non si li vuol credere. Per gli orecchi, dicono, entra la sapienza; ma e ancora indi, non meno che per gli occhi, entra perturbazione e tempesta non poca a' nostri animi. Adunque otturià ngli. Fu chi volle viver cieco per meglio filosofare e per non vedere d'ora in ora cose quale lo distraessero dalle sue ottime cogitazioni e distogliessero dalle continue sue investigazioni di cose occultissime e rarissime. Non ardirei biasimare tanto filosofo, ma né ancora saprei imitarlo. Più mi diletterebbe quel Cotis principe a cui recita Plutarco che fu presentato alcuni vasi di terra bellissimi e lavorati con figure e cornici maravigliose; el quale accettò el dono con ogni grazia, e molto gli mirò e lodò, poi gli ruppe per non avere a crucciarsi se un de' suoi forse gli avesse lui rotti. Così noi; e faremo come a Vinegia que' che seggono iudici a' litigi: quando e' si consigliano per pronunziare la sentenza, oppongono una tavoletta, e ivi dopo iunti e' capi si consigliano. Noi per intercluderci e nasconderci da molte inezie e fastidi del volgo e degli insolenti, ne opporremo el libro in qu...
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