[Pagina precedente]... compiva, l'ultima notte di maggio, il suo terzo viaggio da Tunisi. Fra un'ora, verso l'alba, il vaporetto sarebbe approdato al Molo Vecchio. A bordo dormivano tutti, tranne il timoniere a poppa e il secondo di guardia sul ponte di comando.
Il Cleen aveva lasciato la sua cuccetta, e da un pezzo, sul cassero, se ne stava a mirare la luna declinante di tra le griselle del sartiame, che vibrava tutto alle scosse cadenzate della macchina. Provava un senso d'opprimente angustia, lí, su quel guscio di noce, in quel mare chiuso, e anche... sí, anche la luna gli pareva piú piccola, come se egli la guardasse dalla lontananza di quel suo esilio, mentr'ella appariva grande là, su l'oceano, di tra le sartie dell'Hammerfest donde qualcuno dei suoi compagni forse in quel punto la guardava. Lí egli con tutto il cuore era vicino. Chi era di guardia, a quell'ora, su l'Hammerfest? Chiudeva gli occhi e li rivedeva a uno a uno, i suoi compagni: li vedeva salire dai boccaporti; vedeva, vedeva col pensiero il suo piroscafo, come se egli proprio vi fosse; bianco di salsedine, maestoso e tutto sonante. Udiva lo squillo della campana di bordo; respirava l'odore particolare della sua antica cuccetta; vi si chiudeva a pensare, a fantasticare. Poi riapriva gli occhi, e allora, non già quello che aveva veduto ricordando e fantasticando gli sembrava un sogno, ma quel mare lí, quel cielo, quel vaporetto, e la sua presente vita. E una tristezza profonda lo invadeva, uno smanioso avvilimento. I suoi nuovi compagni non lo amavano, non lo comprendevano, né volevano comprenderlo; lo deridevano per il suo modo di pronunziare quelle poche parole d'italiano che già era riuscito a imparare; e lui, per non far peggio, doveva costringere la sua stizza segreta a sorridere di quel volgare e stupido dileggio. Mah! Pazienza L'avrebbero smesso, col tempo. A poco a poco, egli, con l'uso continuo e l'ajuto di Venerina, avrebbe imparato a parlare correttamente. Ormai, era detto: lí, in quel borgo, lí, su quel guscio e per quel mare, tutta la vita.
Incerto come si sentiva ancora, nella nuova esistenza, non riusciva a immaginare nulla di preciso per l'avvenire. Può crescere l'albero nell'aria, se ancora scarse e non ben ferme ha le radici nella terra? Ma questo era certo, che lí ormai e per sempre la sorte lo aveva trapiantato.
L'Hammerfest, che doveva ritornare dall'America tra sei mesi, non era piú ritornato. La sorella, a cui egli aveva scritto per darle notizia della sua malattia mortale e annunziarle il fidanzamento, gli aveva risposto da Trondhjem con una lunga lettera piena d'angoscia e di lieta meraviglia, e annunziato che l'Hammerfest a New York aveva ricevuto un contr'ordine ed era stato noleggiato per un viaggio nell'India, come le aveva scritto il marito. Chi sa, dunque, se egli lo avrebbe piú riveduto. E la sorella?
Si alzò, per sottrarsi all'oppressione di quei pensieri. Aggiornava. Le stelle erano morte nel cielo crepuscolare; la luna smoriva a poco a poco. Ecco laggiú, ancora accesa, la lanterna verde del Molo.
Don Paranza e Venerina aspettavano l'arrivo del vaporetto, dalla banchina. Nei due giorni che il Cleen stava a Porto Empedocle, don Pietro non si recava alla pesca; gli toccava di far la guardia ai fidanzati, poiché quella scimunita di donna Rosolina non s'era voluta prestare neanche a questo: prima perché nubile (e il suo pudore si sarebbe scottato al fuoco dell'amore di quei due), poi perché quel forestiere le incuteva soggezione.
- Avete paura che vi mangi? - le gridava don Paranza. - Siete un mucchio d'ossa, volete capirlo?
Non voleva capirlo, donna Rosolina. E non s'era voluta disfare di nulla, in quella occasione, neppur d'un anellino, fra tanti che ne aveva, per dimostrare in qualche modo il suo compiacimento alla nipote..
- Poi, poi, - diceva.
Giacché pure, per forza, un giorno o l'altro, Venerina sarebbe stata l'erede di tutto quanto ella possedeva: della casa, del poderetto lassú, sotto il Monte Cioccafa, degli ori e della mobilia e anche di quelle otto coperte di lana che ella aveva intrecciate con le sue proprie mani, nella speranza non ancora svanita di schiacciarvi sotto un povero marito.
Don Paranza era indignato di quella tirchieria; ma non voleva che Venerina mancasse di rispetto alla zia.
- È sorella di tua madre! Io poi me ne debbo andare prima di lei, per legge di natura, e da me non hai nulla da sperare. Lei ti resterà, e bisogna che te la tenga cara. Le farai fare un po' di corte da tuo marito, e vedrai che gioverà. Del resto, per quel poco che il Signore può badare a uno sciocco come me, stai sicura che ci ajuterà.
Erano venuti, infatti, dal consolato della Norvegia quei pochi quattrinucci per il mantenimento prestato al Cleen. Aveva potuto cosí comperare alcuni modesti mobili, i piú indispensabili, per metter sú, alla meglio, la casa degli sposi. Erano anche arrivate da Trondhjem le carte del Cleen.
Venerina era cosí lieta e impaziente, quella mattina, di mostrare al fidanzato la loro nuova casetta già messa in ordine! Ma, poco dopo, quando il vaporetto finalmente si fu ormeggiato nel Molo e il Cleen poté scenderne, quella sua gioja fu improvvisamente turbata dalla stizza, udendo il saluto che gli altri marinaj rivolgevano, quasi miagolando, al suo fidanzato:
- Bon cion! Bon cion!
- Brutti imbecilli! - disse tra i denti, voltandosi a fulminarli con gli occhi.
Il Cleen sorrideva, e Venerina si stizzí allora maggiormente.
- Ma non sei buono da rompere il grugno a qualcuno, di' un po'? Ti lasci canzonare cosí, sorridendo, da questi mascalzoni?
- Eh via! - disse don Paranza. - Non vedi che scherzano, tra compagni?
- E io non voglio! - rimbeccò Venerina, accesa di sdegno. - Scherzino tra loro, e non stupidamente, con un forestiere che non può loro rispondere per le rime.
Si sentiva, quasi quasi, messa in berlina anche lei. Il Cleen la guardava, e quegli sguardi fieri gli parevano vampate di passione per lui: gli piaceva quello sdegno; ma ogni qualvolta gli veniva di manifestarle ciò che sentiva o di confidarle qualcosa, gli pareva d'urtare contro un muro, e taceva e sorrideva, senza intendere che quella bontà sorridente, in certi casi, non poteva piacere a Venerina.
Era colpa sua, intanto, se gli altri erano maleducati? se egli ancora non poteva uscire per le strade, che subito una frotta di monellacci non lo attorniasse? Minacciava, e faceva peggio: quelli si sbandavano con grida e lazzi e rumori sguajati.
Venerina n'era furibonda.
- Storpiane qualcuno! Da' una buona lezione! È possibile che tu debba diventare lo zimbello del paese?
- Bei consigli! - sbuffava don Pietro. - Invece di raccomandargli la prudenza!
- Con questi cani? Il bastone ci vuole, il bastone!
- Smetteranno, smetteranno, sta' quieta, appena L'arso avrà imparato.
- Lars! - gridava Venerina, infuriandosi ora anche contro lo zio che chiamava a quel modo il fidanzato, come tutto il paese.
- Ma se è lo stesso! - sospirava, seccato, don Pietro, alzando le spalle.
- Càmbiati codesto nome! - ripigliava Venerina, esasperata, rivolta al Cleen. - Bel piacere sentirsi chiamare la moglie de L'arso!
- E non ti chiamano adesso la nipote di Don Paranza? che male c'è? Lui L'arso, e io, Paranza. Allegramente!
Non rideva piú, ora, Venerina nell'insegnare al fidanzato la propria lingua: certe bili anzi ci pigliava!
- Vedi? - gli diceva. - Si sa che ti burlano, se dici cosí! chiaro, chiaro! Ci vuol tanto, Maria Santissima?
Il povero Cleen - che poteva fare? - sorrideva, mansueto, e si provava a pronunziar meglio. Ma poi, dopo due giorni, doveva ripartire; e di quelle lezioni, cosí spesso interrotte, non riusciva a profittare quanto Venerina avrebbe desiderato.
- Sei come l'uovo, caro mio!
Questi dispettucci parevano puerili a don Pietro, condannato a far la guardia, e se ne infastidiva. La sua presenza intanto impacciava peggio il Cleen, che non arrivava ancora a comprendere perché ci fosse bisogno di lui: non era egli il fidanzato di Venerina? non poteva uscir solo con lei a passeggiare lassú, su l'altipiano, in campagna? Lo aveva proposto un giorno; ma dalla stessa Venerina si era sentito domandare:
- Sei pazzo?
- Perché?
- Qua i fidanzati non si lasciano soli, neppure per un momento.
- Ci vuole il lampione! - sbuffava don Pietro.
E il Cleen s'avviliva di tutte queste costrizioni, che gli ammiserivano lo spirito e lo intontivano. Cominciava a sentire una sorda irritazione, un segreto rodío, nel vedersi trattato, in quel paese, e considerato quasi come uno stupido, e temeva di istupidirsi davvero.
VII
Ma che non fosse stupido, lo sapeva bene padron Di Nica, dal modo con cui gli disimpegnava le commissioni e gli affari con quei ladri agenti di Tunisi e di Malta. Non voleva dirlo - al solito - non per negare il merito e la lode, ma per le conseguenze della lode, ecco.
Credette tuttavia di dimostrargli largamente quanto fosse contento di lui con l'accordargli dieci giorni di licenza, nell'occasione del matrimonio.
- Pochi, dieci giorni? Ma bastano, caro mio! - disse a don Pietro che se ne mostrava malcontento. - Vedrai, in dieci giorni, che bel figliuolo maschio ti mettono sú! Potrei al massimo concedere che, rimbarcandosi, si porti la sposa a Tunisi e a Malta; per un viaggetto di nozze. È giovane serio: mi fido. Ma non potrei di piú.
Spiritò alla proposta di don Pietro di far da testimonio nelle nozze.
- Non per quel buon giovine, capirai; ma se, Dio liberi, mi ci provassi una volta, non farei piú altro in vita mia. Niente, niente, caro Pietro! Manderò alla sposa un regaluccio, in considerazione della nostra antica amicizia, ma non lo dire a nessuno: mi raccomando!
Dal canto suo, la zia donna Rosolina si strizzò, si strizzò in petto il buon cuore che Dio le aveva dato e venne fuori con un altro regaluccio a Venerina: un pajo d'orecchini a pendaglio, del mille e cinque. Faceva però la finezza di offrire agli sposi, per quei dieci giorni di luna di miele, la sua campagna sotto il Monte Cioccafa.
- Purché, la mobilia, mi raccomando!
Camminavano sole quelle quattro seggiole sgangherate, a chiamarle col frullo delle dita, dai tanti tarli che le popolavano! E il tanfo di rinchiuso in quella decrepita stamberga, perduta tra gli alberi lassú, era insopportabile.
Subito Venerina, arrivata in carrozza con lo sposo, e i due zii, dopo la celebrazione del matrimonio, corse a spalancare tutti i balconi e le finestre.
- Le tende! I cortinaggi! - strillava donna Rosolina, provandosi a correr dietro l'impetuosa nipote.
- Lasci che prendano un po' d'aria! Guardi guardi come respirano! Ah che delizia!
- Sí, ma, con la luce, perdono il colore.
- Non sono di broccato, zia!
Quell'oretta passata lassú con gli sposi fu un vero supplizio per donna Rosolina. Soffrí nel veder toccare questo o quell'oggetto, come se si fosse sentita strappare quei mezzi ricci unti di tintura che le virgolavano la fronte; soffrí nel vedere entrare coi pesanti scarponi ferrati la famiglia del garzone per porgere gli omaggi agli sposini.
Stava quel garzone a guardia del podere e abitava con la famiglia nel cortile acciottolato della villa, con la cisterna in mezzo, in una stanzaccia buja: casa e stalla insieme. Perplesso, se avesse fatto bene o male, recava in dono un paniere di frutta fresche.
Lars Cleen contemplava stupito quegli esseri umani che gli parevano d'un altro mondo, vestiti a quel modo, cosí anneriti dal sole. Gli parevano siffattamente strani e diversi da lui, che si meravigliava poi nel veder loro battere le pàlpebre, com'egli le batteva, e muovere le labbra, com'egli le moveva. Ma che dicevano?
Sorridendo, la moglie del garzone annunziava che uno dei cinque figliuoli, il secondo, aveva le febbri da due mesi e se ne stava lí, su lo strame, come un morticino.
- Non si riconosce piú, figlio mio!
Sorrideva, non perché non ne sentisse pena, ma per non mostrare la propria afflizione mentre i padroni erano in festa.
- Verrò a vederlo, - le promise Venerina.
- Nonsí! Che dice, Voscenza? - esclamò angustiata la contadina. - Ci lasci stare, noi poveretti. Voscenza, goda....
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