[Pagina precedente]...requie, e anche per il modo di parlare dava l'immagine d'una calandrella smarrita, che spiccasse di qua, di là il volo, indecisa, e s'arrestasse d'un subito, con furioso sbà ttito d'ali, e saltellasse, rigirandosi per ogni verso.
Irruppe nello studio, gridando il suo nome:
- Tilde Pagliocchini. Lei? Ah già ... me lo... sicuro, Balicci, c'era scritto sul giornale... anche su la porta... Oh Dio, per carità , no! guardi, professore, non faccia cosà con gli occhi. Mi spavento. Niente, niente, scusi, me ne vado.
Questa fu la prima entrata. Non se n'andò. La vecchia domestica, con le lagrime agli occhi, le dimostrò che quello era per lei un posticino proprio per la quale.
- Niente pericoli?
Ma che pericoli! Mai, che è mai? Solo, un po' strano, per via di quei libri. Ah, per quei libracci maledetti, anche lei, povera vecchia, eccola là , non sapeva piú se fosse donna o strofinaccio.
- Purché lei glieli legga bene.
La signorina Tilde Pagliocchini la guardò, e appuntandosi l'indice d'una mano sul petto:
- Io?
Tirò fuori una voce, che neanche in paradiso.
Ma quando ne diede il primo saggio al Balicci con certe inflessioni e certe modulazioni, e volate e smorzamenti e arresti e scivoli, accompagnati da una mimica tanto impetuosa quanto superflua, il pover'uomo si prese la testa tra le mani e si restrinse e si contorse come per schermirsi da tanti cani che volessero addentarlo.
- No! Cosà no! Cosà no! per carità ! - si mise a gridare.
E la signorina Pagliocchini, con l'aria piú ingenua del mondo:
- Non leggo bene?
- Ma no! Per carità , a bassa voce! Piú bassa che può! quasi senza voce! Capirà , io leggevo con gli occhi soltanto, signorina!
- Malissimo, professore! Leggere a voce alta fa bene. Meglio poi non leggere affatto! Ma scusi, che se ne fa? Senta (picchiava con le nocche delle dita sul libro). Non suona! Sordo. Ponga il caso, professore, che io ora le dia un bacio.
Il Balicci s'interiva pallido:
- Le proibisco!
- Ma no scusi! Teme che glielo dia davvero? Non glielo do! Dicevo per farle avvertir subito la differenza. Ecco, mi provo a leggere quasi senza voce. Badi però che, leggendo cosà io fischio l'esse, professore!
Alla nuova prova, il Balicci si contorse peggio di prima. Ma comprese che, sú per giú, sarebbe stato lo stesso con qualunque altra lettrice, con qualunque altro lettore. Ogni voce, che non fosse la sua, gli avrebbe fatto parere un altro il suo mondo.
- Signorina, guardi, mi faccia il favore, provi con gli occhi soltanto, senza voce.
La signorina Tilde Pagliocchini si voltò a guardarlo, con tanto d'occhi.
- Come dice? Senza voce? E allora, come? per me?
- SÃ, ecco, per conto suo.
- Ma grazie tante! - scattò, balzando in piedi, la signorina. - Lei si burla di me? Che vuole che me ne faccia io, dei suoi libri, se lei non deve sentire?
- Ecco, le spiego, - rispose il Balicci, quieto, con un amarissimo sorriso. - Provo piacere che qualcuno legga qua, in vece mia. Lei forse non riesce a intenderlo, questo piacere. Ma gliel'ho già detto: questo è il mio mondo; mi conforta il sapere che non è deserto, che qualcuno ci vive dentro, ecco. Io le sentirò voltare le pagine, ascolterò il suo silenzio intento, le domanderò di tanto in tanto che cosa legge, e lei mi dirà ... oh, basterà un cenno... e io la seguirò con la memoria. La sua voce, signorina, mi guasta tutto!
- Ma io la prego di credere, professore, che la mia voce è bellissima! - protestò, sulle furie, la signorina.
- Lo credo, lo so - disse subito il Balicci. - Non voglio farle offesa. Ma mi colora tutto diversamente, capisce? E io ho bisogno che nulla mi sia alterato; che ogni cosa mi rimanga tal quale. Legga, legga. Le dirò io che cosa deve leggere. Ci sta?
- Ebbene, ci sto, sÃ. Dia qua!
In punta di piedi, appena il Balicci le assegnava il libro da leggere, la signorina Tilde Pagliocchini volava via dallo studio e se n'andava a conversare di là con la vecchia domestica. Il Balicci intanto viveva nel libro che le aveva assegnato e godeva del godimento che si figurava ella dovesse prenderne. E di tratto in tratto le domandava: - Bello, eh? - oppure: - Ha voltato? - Non sentendola nemmeno fiatare, s'immaginava che fosse sprofondata nella lettura e che non gli rispondesse per non distrarsene.
- SÃ, legga, legga... - la esortava allora, piano, quasi con voluttà .
Talvolta, rientrando nello studio, la signorina Pagliocchini trovava il Balicci coi gomiti su i bracciuoli della poltrona e la faccia nascosta tra le mani.
- Professore, a che pensa?
- Vedo... - le rispondeva lui, con una voce che pareva arrivasse da lontano lontano. Poi, riscotendosi con un sospiro: - Eppure ricordo che erano di pepe!
- Che cosa, di pepe, professore?
- Certi alberi, certi alberi in un viale... LÃ , veda, nella terza scansia, al secondo palchetto, forse il terz'ultimo libro.
- Lei vorrebbe che io le cercassi, ora, questi alberi di pepe? - gli domandava la signorina, spaventata e sbuffante.
- Se volesse farmi questo piacere.
Cercando, la signorina maltrattava le pagine, s'irritava alle raccomandazioni di far piano. Cominciava a essere stufa, ecco. Era abituata a volare, lei, a correre, a correre, in treno, in automobile, in ferrovia, in bicicletta, su i piroscafi. Correre, vivere! Già si sentiva soffocare in quel mondo di carta. E un giorno che il Balicci le assegnò da leggere certi ricordi di Norvegia, non seppe piú tenersi. A una domanda di lui, se le piacesse il tratto che descriveva la cattedrale di Trondhjem, accanto alla quale, tra gli alberi, giace il cimitero, a cui ogni sabato sera i parenti superstiti recano le loro offerte di fiori freschi:
- Ma che! ma che! ma che! - proruppe su tutte le furie. - Io ci sono stata, sa? E le so dire che non è com'è detto qua!
Il Balicci si levò in piedi, tutto vibrante d'ira e convulso:
- Io le proibisco di dire che non è com'è detto là ! - le gridò, levando le braccia. - M'importa un corno che lei c'è stata! È com'è detto là , e basta! Dev'essere cosÃ, e basta! Lei mi vuole rovinare! Se ne vada! Se ne vada! Non può piú stare qua! Mi lasci solo! Se ne vada!
Rimasto solo, Valeriano Balicci, dopo aver raccattato a tentoni il libro che la signorina aveva scagliato a terra, cadde a sedere su la poltrona; aprà il libro, carezzò con le mani tremolanti le pagine gualcite; poi v'immerse la faccia e restò là a lungo, assorto nella visione di Trondhjem con la sua cattedrale di marmo, col cimitero accanto, a cui i devoti ogni sabato sera recano offerte di fiori freschi - cosÃ, cosà com'era detto là . - Non si doveva toccare. Il freddo, la neve, quei fiori freschi, e l'ombra azzurra della cattedrale. - Niente là si doveva toccare. Era cosÃ, e basta. Il suo mondo. Il suo mondo di carta. Tutto il suo mondo.
IL SONNO DEL VECCHIO
Mentre nel salotto della Venanzi ferveva la conversazione in varie lingue su i piú disparati argomenti, Vittorino Lamanna pensava alle due notizie che la padrona di casa gli aveva date, appena entrato. L'una buona, l'altra cattiva. La buona, che alla lettura della sua commedia avrebbe assistito, quel giorno, Alessandro De Marchis, il vecchio venerando che tanta luce di pensiero aveva diffuso nel mondo co' suoi libri di scienza e di filosofia e che giustamente ora la patria considerava come una delle sue piú fulgide glorie. La cattiva, che Casimiro Luna, il "brillante" giornalista Luna, reduce da Londra, ove si era recato a "intervistare" un giovine scienziato italiano che aveva fatto or ora una grande scoperta scientifica, ne avrebbe parlato nella radunanza, prima che l'"intervista" fosse pubblicata sul giornale della sera.
Il Lamanna non invidiava al Luna tutte quelle doti appariscenti, che in pochi anni lo avevano reso il beniamino del pubblico, specialmente femminile; gl'invidiava la fortuna. Prevedeva che tra breve tutti gli sguardi si sarebbero rivolti con simpatia al giornalista effimero, elegantissimo, e che nessuno piú avrebbe badato a lui; e si lasciava vincere a poco a poco dal malumore, al quale, senza bisogno, pareva facesse da mantice un certo signore che la Venanzi gli aveva messo alle costole: un signore arguto, calvo, di cui non ricordava piú il nome, ma che gli ricordava invece quello di tutti gli altri là presenti, dicendo male di ciascuno.
- Chi vuole, caro signore, che capisca un'acca della sua commedia, tra tutta questa gente qui? Non se ne curi, però. Basterà si sappia che lei l'ha letta nel salotto intellettuale della Venanzi. Ne parleranno i giornali. Il che, al giorno d'oggi, vuol dire tutto. La maggior parte, come vede, sono forestieri che spiccicano appena appena qualche parola d'italiano. Non sanno bene come si scriva la parola soldo, ma s'accorgono subito adesso se il soldo è falso, e sanno meglio di noi che vale cinque centesimi. L'industria dei forestieri? Idea sbagliata, caro signore! Perché...
Venne, per fortuna, la signora Alba Venanzi a liberarlo da quel tormento. Era entrata nel salotto la marchesa Landriani, a cui la Venanzi lo voleva presentare.
- Marchesa, eccole il nostro Vittorino Lamanna, futura gloria del teatro nazionale.
- Per carità ! - disse Vittorino Lamanna, arrossendo, inchinandosi e sorridendo.
La vecchia e grassa marchesa Landriani, dall'aria perennemente stordita, stava a togliersi dal naso gli occhiali a staffa azzurri e, prima d'inforcarsi quelli chiari, rimase un pezzo con gli occhi chiusi e un sorriso freddo, rassegato sulle labbra pallide.
- Conosco, conosco... - disse, molle molle. - Mi ajuti a rammentare dove ho letto di recente roba sua.
- Mah, - fece il Lamanna, compiaciuto, cercando nella memoria. - Non saprei.
E citò una o due riviste, dove aveva di recente stampato qualche cosa.
- Ah, ecco, sÃ. Bravo! Non ricordavo bene. Leggo tanto, leggo tanto, che poi mi trovo imbarazzata. SÃ sÃ, appunto. Bravo, bravo.
E lo guardò con le lenti chiare, e col sorriso freddo rassegato ancora sulle labbra.
- Quella l� - diceva, poco dopo, all'orecchio del Lamanna il signore calvo, che evidentemente lo perseguitava. - Quella l� Una talpa, caro signore! Non conosce neppure l'o. E non di meno, va ripetendo che conosce tutti, che ha letto roba di tutti. Lo avrà detto anche a lei, scusi, non è vero? Non ci creda, per carità ! Una talpa di prima forza, le dico.
Entrò, in quel momento, Casimiro Luna. Vittorino Lamanna lo conosceva bene, fin da quand'era, come lui, un ignoto. Ragion per cui il Luna lo degnò appena d'un freddissimo saluto.
- Miro! Miro!
Lo chiamavano tutti per nome, cosÃ, di qua e di là , ed egli aveva un sorriso e una parola graziosa per ciascuno. Accennò di ghermire una rosa dal seno d'una signora e poi egli stesso fece un gesto di stupore e d'indignazione per la sua temerità , e la signora ne rise, felicissima. La padrona di casa non ebbe bisogno di presentarlo a nessuno. Lo conoscevano tutti.
Nel vederlo cosà vezzeggiato e incensato, Vittorino Lamanna pensava quanto facile dovesse riuscire a colui il far valere quel po' d'ingegno di cui era dotato, quanto facile la vita. "Vita?" domandò tuttavia a se stesso. "E che vita è mai quella ch'egli vive? Una continua stomachevole finzione! Non uno sguardo, non un gesto, non una parola, sinceri. Non è piú un uomo: è una caricatura ambulante. E bisogna ridursi a quel modo per aver fortuna, oggi?" Sentiva, cosà pensando, un profondo disgusto anche di sé, vestito e pettinato alla moda, e si vergognava d'esser venuto a cercare la lode, la protezione, l'ajuto di quella gente che non gli badava.
A un tratto, nel salotto si fece silenzio e tutti si volsero verso l'uscio, in attesa. Entrava, a braccio della moglie, Alessandro De Marchis.
Ansava il grand'uomo, tozzo e corpulento, dal testone calvo, sotto la cui cute liscia giallastra spiccava la trama delle vene turgide. La moglie coi capelli fulvi, pomposamente acconciati, lo sorreggeva, diritta, tronfia, e guardava di qua e di là , sorridendo con le labbra dipinte.
Tutti si mossero a ossequiare.
Alessandro De Marchis, lasciandosi cadere pesantemente sul seggiolone preparato apposta per lui, sorrideva con la bocca sdentata, senza baffi né barba, ed emetteva, tra...
[Pagina successiva]