[Pagina precedente]... Che bello sposo! Ci crede che non ho il coraggio di guardarlo?
- E me? - domandò don Paranza. - Non sono bello io? E sono pure sposo, oh! di donna Rosolina. Due coppie!
- Zitto là ! - gridò questa, sentendosi tutta rimescolare. - Non voglio che si dicano neppure per ischerzo, certe cose!
Venerina rideva come una matta.
- Sul serio! sul serio! - protestava don Pietro.
E insistette tanto su quel brutto scherzo, per far festa alla nipote, che la zitellona non volle tornarsene sola con lui, in carrozza, al paese. Ordinò al garzone che montasse in cassetta, accanto al cocchiere.
- Le male lingue... non si sa mai! con un mattaccio come voi.
- Ah, cara donna Rosolina! che ne volete piú di me, ormai? non posso farvi piú nulla io! - le disse don Pietro in carrozza, di ritorno, scotendo la testa e soffiando per il naso un gran sospiro, come se si sgonfiasse di tutta quell'allegria dimostrata alla nipote. - Vorrei aver fatto felice quella povera figliuola!
Gli pareva di aver raggiunto ormai lo scopo della sua lunga, travagliata, scombinata esistenza. Che gli restava piú da fare ormai? mettersi a disposizione della morte, con la coscienza tranquilla, sÃ, ma angosciata. Altri quattro giorni di noja... e poi, lÃ.
La carrozza passava vicino al camposanto, aereo su l'altipiano che rosseggiava nei fuochi del tramonto.
- LÃ, e che ho concluso?
Donna Rosolina, accanto a lui, con le labbra appuntite e gli occhi fissi, acuti, si sforzava d'immaginare che cosa facessero in quel momento gli sposi, rimasti soli, e dominava le smanie da cui si sentiva prendere e che si traducevano in acre stizza contro quell'omaccio, ormai vecchio, che le stava a fianco. Si voltò a guardarlo, lo vide con gli occhi chiusi: credette che dormisse.
- Sú, sú, a momenti siamo arrivati.
Don Pietro riaprà gli occhi rossi di pianto contenuto, e brontolò:
- Lo so, sposina. Penso ai gronghi di questa sera. Chi me li cucina?
VIII
Superato il primo impaccio, vivissimo, della improvvisa intrinsechezza piú che ogni altra intima, con un uomo che le pareva ancora quasi piovuto dal cielo, Venerina prese a proteggere e a condurre per mano, come un bambino, il marito incantato dagli spettacoli che gli offriva la campagna, quella natura per lui cosà strana e quasi violenta.
Si fermava a contemplare a lungo certi tronchi enormi, stravolti, d'olivi, pieni di groppi, di sproni, di giunture storpie, nodose, e non rifiniva d'esclamare:
- Il sole! il sole! - come se in quei tronchi vedesse viva, impressa, tutta quella cocente rabbia solare, da cui si sentiva stordito e quasi ubriacato.
Lo vedeva da per tutto, il sole, e specialmente negli occhi e nelle labbra ardenti e succhiose di Venerina, che rideva di quelle sue meraviglie e lo trascinava via, per mostrargli altre cose che le parevano piú degne d'esser vedute: la grotta del Cioccafa, per esempio. Ma egli si arrestava, quando ella se l'aspettava meno, davanti a certe cose per lei cosà comuni.
- Ebbene, fichi d'India. Che stai a guardare?
Proprio un fanciullo le pareva, e gli scoppiava a ridere in faccia, dopo averlo guardato un po', cosà allocchito per niente! e lo scoteva, gli soffiava sugli occhi, per rompere quello stupore che talvolta lo rendeva attonito.
- Svégliati! svégliati!
E allora egli sorrideva, l'abbracciava, e si lasciava condurre, abbandonato a lei, come un cieco.
Ricadeva sempre a parlarle, con le stesse frasi d'orrore, della famiglia del garzone, a cui entrambi avevano fatto la visita promessa. Non si poteva dar pace che quella gente abitasse lÃ, in quella stanzaccia, ch'era divenuta quasi una grotta fumida e fetida, e invano Venerina gli ripeteva:
- Ma se togli loro l'asino, il porcellino e le galline dalla camera, non vi possono piú dormire in pace. Devono star là tutti insieme; fanno una famiglia sola.
- Orribile! orribile! - esclamava egli, agitando in aria le mani.
E quel povero ragazzo, lÃ, sul pagliericcio per terra, ingiallito dalle febbri continue e quasi ischeletrito? Lo curavano con certi loro decotti infallibili. Sarebbe guarito, come erano guariti gli altri. E, intanto, il poverino, che pena! se ne stava a rosicchiare, svogliato, un tozzo di pan nero.
- Non ci pensare! - gli diceva Venerina, che pur se ne affliggeva, ma non tanto, sapendo che la povera gente vive cosÃ. Credeva che dovesse saperlo anche lui, il marito, e perciò, nel vederlo cosà afflitto, sempre piú si raffermava nell'idea che egli fosse di una bontà non comune, quasi morbosa, e questo le dispiaceva.
Passarono presto quei dieci giorni in campagna. Ritornati in paese, Venerina accompagnò fino al vaporetto il marito, ma non volle imbarcarsi con lui per il viaggio di nozze concesso dal Di Nica.
Don Pietro ve la spingeva.
- Vedrai Tunisi, che quei cari nostri fratelli francesi, sempre aggraziati, ci hanno presa di furto. Vedrai Malta, dove tuo zio bestione andò a rovinarsi. Magari potessi venirci anch'io! Vedresti di che cuore mi schiaffeggerei, se m'incontrassi con me stesso per le vie de La Valletta, com'ero allora, giovane patriota imbecille.
No, no; Venerina non volle saperne: il mare le faceva paura, e poi si vergognava, in mezzo a tutti quegli uomini.
- E non sei con tuo marito? - insisteva don Pietro. -Tutte cosÃ, le nostre donne! Non debbono far mai piacere ai loro uomini. Tu che ne dici? - domandava al Cleen.
Non diceva nulla, lui: guardava Venerina col desiderio di averla con sé, ma non voleva che ella facesse un sacrifizio o che avesse veramente a soffrire del viaggio.
- Ho capito! - concluse don Paranza, - sei un gran babbalacchio!
Lars non comprese la parola siciliana dello zio, ma sorrise vedendo riderne tanto Venerina. E, poco dopo, partà solo.
Appena si fu allontanato dal porto, dopo gli ultimi saluti col fazzoletto alla sposa che agitava il suo dalla banchina del Molo e ormai quasi non si distingueva piú, egli provò istintivamente un gran sollievo, che pur lo rese piú triste, a pensarci. S'accorse ora, lÃ, solo davanti allo spettacolo del mare, d'aver sofferto in quei dieci giorni una grande oppressione nell'intimità pur tanto cara con la giovane sposa. Ora poteva pensare liberamente, espandere la propria anima, senza dover sforzare il cervello a indovinare, a intendere i pensieri, i sentimenti di quella creatura tanto diversa da lui e che tuttavia gli apparteneva cosà intimamente.
Si confortò sperando che col tempo si sarebbe adattato alle nuove condizioni d'esistenza, si sarebbe messo a pensare, a sentire come Venerina, o che questa, con l'affetto, con l'intimità sarebbe riuscita a trovar la via fino a lui per non lasciarlo piú solo, cosÃ, in quell'esilio angoscioso della mente e del cuore.
Venerina e lo zio, intanto, parlavano di lui nella nuova casetta, in cui anche don Pietro aveva preso stanza.
- SÃ, - diceva lei, sorridendo, - è proprio come tu hai detto!
- Babbalacchio? Minchione? - domandava don Paranza. - Va' là , è buono, è buono...
- E buono che significa, zio? - osservava, sospirando, Venerina.
- Quest'è vero! - riconosceva don Pietro. - Infatti, i birbaccioni, oggi, si chiamano uomini accorti, e tuo zio per il primo li rispetta. Ma speriamo che l'aria del nostro mare, che dev'essere, sai, piú salato di quello del suo paese, gli giovi. Ho gran paura anch'io, però, che somigli troppo a me, quanto a giudizio.
Gli si era affezionato, lui, don Pietro, ma non si proponeva, neppure per curiosità , di cercar d'indovinare com'egli la pensasse, né gli veniva in mente di consigliarlo a Venerina.
- Vedrai, - anzi le diceva, - vedrai che a poco a poco prenderà gli usi del nostro paese. Testa, ne ha.
Prima di partire, il Cleen aveva suggerito a Venerina di non lasciar andar piú il vecchio zio alla pesca; ma don Pietro, non solo non volle saperne, ma anche s'arrabbiò:
- Non sapete piú che farvene adesso de' miei gronghi? Bene, bene. Me li mangerò io solo.
- Non è per questo, zio! - esclamò Venerina.
- E allora volete farmi morire? - riprese don Paranza. - C'era ai miei tempi un povero contadino che aveva novantacinque anni, e ogni santa mattina saliva dalla campagna a Girgenti con una gran cesta d'erbaggi su le spalle, e andava tutto il giorno in giro per venderli. Lo videro cosà vecchio, ne sentirono pietà , pensarono di ricoverarlo all'ospedale e lo fecero morire dopo tre giorni. L'equilibrio, cara mia! Toltagli la cesta dalle spalle, quel poveretto perdette l'equilibrio e morÃ. Cosà io, se mi togliete la lenza. Gronghi han da essere: stasera e domani sera e fin che campo.
E se ne andava con gli attrezzi e col lanternino alla scogliera del porto.
Sola, Venerina, si metteva anche a pensare al marito lontano. Lo aspettava con ansia, sÃ, in quei primi giorni; ma non sapeva neppur desiderarlo altrimenti che cosÃ; due giorni in casa e il resto della settimana fuori; due giorni con lui, e il resto della settimana, sola, ad aspettare ogni sera che lo zio tornasse dalla pesca; e poi, la cena; e poi, a letto, sÃ, sola. Si contentava? No. Neppure lei, cosÃ. Troppo poco... E restava a lungo assorta in una segreta aspettazione, che pure le ispirava una certa ambascia, quasi di sgomento.
- Quando?
IX
- Ih, che prescia! - esclamò don Paranza, appena si accorse delle prime nausee, dei primi capogiri. - Lo previde quel boja d'Agostino! Di' un po', hai avuto paura che tuo zio non ci arrivasse a sentire la bella musica del gattino?
- Zio! - gli gridò Venerina, offesa e sorridente.
Era felice: le era venuto il da fare, in quelle lunghe sere nella casa sola: cuffiette, bavaglini, fasce, camicine... - e non le sere soltanto. Non ebbe piú tempo né voglia di curarsi di sé, tutta in pensiero già per l'angioletto che sarebbe venuto, - dal cielo, zia Rosolina! dal cielo! - gridava alla zitellona pudibonda, abbracciandola con furia e scombinandola tutta.
- E me lo terrà lei a battesimo, lei e zio Pietro!
Donna Rosolina apriva e chiudeva gli occhi, mandava giú saliva, con l'angoscia nel naso, fra le strette di quella santa figliuola che pareva impazzita e non aveva nessun riguardo per tutti i suoi cerotti.
- Piano piano, sÃ, volentieri. Purché gli mettiate un nome cristiano. Io non lo so ancora chiamare tuo marito.
- Lo chiami L'arso, come lo chiamano tutti! - le rispondeva ridendo Venerina. - Non me n'importa piú, adesso!
Non le importava piú di niente, ora: non s'acconciava neppure pochino, quand'egli doveva arrivare.
- Rifatti un po' i capelli, almeno! - le consigliava donna Rosolina. - Non stai bene, cosÃ.
- Ormai! Chi n'ha avuto, n'ha avuto. CosÃ, se mi vuole! E se non mi vuole, mi lasci in pace: tanto meglio!
Era cosà esclusiva la gioja di quella sua nuova attesa, che il Cleen non si sentiva chiamato a parteciparne, come di gioja anche sua: si sentiva lasciato da parte, e n'era lieto soltanto per lei, quasi che il figlio nascituro non dovesse appartenere anche a lui, nato là in quel paese non suo, da quella madre che non si curava neppure di sapere quel che egli ne sentisse e ne pensasse.
Lei aveva già trovato il suo posto nella vita: aveva la sua casetta, il marito; tra breve avrebbe avuto anche il figlio desiderato; e non pensava che lui, straniero, era sul principio di quella sua nuova esistenza e aspettava che ella gli tendesse la mano per guidarlo. Noncurante, o ignara, lei lo lasciava lÃ, alla soglia, escluso, smarrito.
E ripartiva, e lontano, per quel mare, su quel guscio di noce, si sentiva sempre piú solo e piú angosciato. I compagni, nel vederlo cosà triste, non lo deridevano piú come prima, è vero, ma non si curavano di lui, proprio come se non ci fosse: nessuno gli domandava: - Che hai? - Era il forestiere. Chi sa com'era fatto e perché era cosÃ!
Non se ne sarebbe afflitto tanto, egli, se anche a casa sua, come là sul vaporetto, non si fosse sentito estraneo. Casa sua? Questa, in quel borgo di Sicilia? No, no! Il cuore gli volava ancora lontano, lassú, al paese natale, alla casa antica, ove sua madre era morta, ove abitava la sorella, che forse in quel punto pensava a lui e forse lo credeva felice.
X
Una speranza ancora resisteva in lui, ultimo argine, ultimo riparo contro la mal...
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