[Pagina precedente]...ei tre piccini con gli abitucci sporchi e tutti raggrinziti!
Ma quando, alla fine, il vapore s'ormeggiò e dalla banchina dello scalo fu buttato il pontile sul barcarizzo - via! via di furia! il facchino avanti, con le valige, lui Faustino dietro, coi due maschietti uno per mano; la moglie appresso, con la Bicetta. Se non che, giunto a mezzo del pontile, gettando per caso uno sguardo sotto la tettoja della banchina alla gente venuta ad assistere allo sbarco dei passeggeri, Faustino Sangelli non vide e non capí piú nulla.
Lí, su la banchina, sotto la tettoja, c'era Lillí, Lillí venuta col suo bambino ad accogliere il marito, Lillí che lo guardava, sbalordita, con tanto d'occhi; piú che sbalordita, quasi oppressa di stupore.
La intravide appena. Lo stesso viso; lo stesso corpo, saldo, svelto, formoso; solo gli parve che avesse i capelli ritinti, dorati. Il pontile, la folla, le valige, lo scalo, la tettoja, tutto gli girò attorno. Avrebbe voluto sprofondare, sparire. Dov'era il facchino? Chi aveva per mano? Si cacciò nell'ufficio della dogana; ma, in tempo che faceva visitare le valige ai doganieri, vide Silvestro Crispo attraversar l'ufficio, fosco e solo.
E come? Lillí dunque non s'era accorta del marito? Se l'era lasciato passar davanti senz'accorgersene? Ed era venuta apposta cosí di buon mattino allo scalo, per accoglierlo all'arrivo. Tanta impressione dunque le aveva fatto la vista inattesa di lui, dopo tanti anni? E chi sa che scena tra poco sarebbe accaduta a casa, quand'ella, ritornando col bambino, vi avrebbe trovato il marito, già arrivato; il marito che avrebbe indovinato subito la ragione per cui ella non s'era accorta di lui, là sulla banchina dello scalo!
Fu per goderne malignamente, Faustino Sangelli; ma ecco che sballottato con la moglie e i tre figliuoli dentro un enorme e sgangherato omnibus d'albergo, tutto fragoroso di vetri, là per il viale dei Quattro Venti si vide raggiungere da una carrozzella, la quale si mise lenta lenta a seguire il lentissimo enorme omnibus fragoroso.
Nella carrozzella c'era Lillí col suo bambino.
Faustino Sangelli si sentí strappare le viscere, tirare il respiro e non seppe piú da che parte voltarsi a guardare per non veder l'antica fidanzata che gli veniva appresso, appresso, e che lo guardava sbalordita con tanto d'occhi. Patí morte e passione. Quegli occhi, cosí stupiti, gli dicevano quant'era cambiato; lo guardavano come di là da un abisso, ove adesso anche il ricordo della sua lontana immagine precipitava e ogni rimpianto, tutto. E di qua dall'abisso, sul carrozzone traballante e fragoroso, ecco, c'era lui, lui quale s'era ridotto, fra quei tre figliuoli non belli e quella stupida moglie. Ah, fare un salto da quel carrozzone a quella carrozzella, mettere a terra il bambino di lei, e attaccarsi con la bocca a quella bocca che era stata sua tant'anni fa; commettere l'ultima pazzia, fuggire, fuggire... - Perché lo guardava ella cosí? Che pensava? Che voleva? Ecco, si chinava verso il bambino che le sedeva accanto, poi rialzava la testa e sorrideva, sorrideva guardando verso lui, tentennando lievemente il capo. Lo derideva? Su le spine, temendo che la moglie guardando a quella carrozzella s'accorgesse della sua agitazione, si prese sulle ginocchia uno dei figliuoli, gli grattò con una mano la pancina e si mise a ridere, a ridere anche lui, a ridere per fare a sua volta un ultimo dispetto a lei che seguitava a venirgli appresso senz'essersi accorta del marito arrivato con lui.
- Ti sei smattinata, e adesso a casa sentirai, cara, sentirai!
Pensava, e rideva, rideva. Ma come una lumaca sul fuoco.
NIENTE
La botticella che corre fragorosa nella notte per la vasta piazza deserta, si ferma davanti al freddo chiarore d'una vetrata opaca di farmacia all'angolo di via San Lorenzo. Un signore impellicciato si lancia sulla maniglia di quella vetrata per aprirla. Piega di qua, piega di là - che diavolo? - non s'apre.
- Provi a sonare, - suggerisce il vetturino.
- Dove, come si suona?
- Guardi, c'è lí il pallino. Tiri.
Quel signore tira con furia rabbiosa.
- Bell'assistenza notturna!
E le parole, sotto il lume della lanterna rossa, vaporano nel gelo della notte, quasi andandosene in fumo.
Si leva lamentoso dalla prossima stazione il fischio d'un treno in partenza. Il vetturino cava l'orologio; si china verso uno dei fanaletti; dice:
- Eh, vicino le tre...
Alla fine il giovine di farmacia, tutto irto di sonno, col bavero della giacca tirato fin sopra gli orecchi, viene ad aprire.
E subito il signore:
- C'è un medico?
Ma quegli, avvertendo sulla faccia e sulle mani il gelo di fuori, dà indietro, alza le braccia, stringe le pugna e comincia a stropicciarsi gli occhi, sbadigliando:
- A quest'ora?
Poi, per interrompere le proteste dell'avventore, il quale - ma sí, Dio mio, sí - tutta quella furia, sí, con ragione: chi dice di no? - ma dovrebbe pure compatire chi a quell'ora ha anche ragione d'aver sonno - ecco, ecco, si toglie le mani dagli occhi e prima di tutto gli fa cenno d'aspettare; poi, di seguirlo dietro il banco, nel laboratorio della farmacia.
Il vetturino intanto, rimasto fuori, smonta da cassetta e vuole prendersi la soddisfazione di sbottonarsi i calzoni per far lí apertamente, al cospetto della vasta piazza deserta tutta intersecata dai lucidi binarii delle tramvie, quel che di giorno non è lecito senza i debiti ripari.
Perché è pure un piacere, mentre qualcuno si dibatte in preda a qualche briga per cui deve chiedere agli altri soccorso e assistenza, attendere tranquillamente, cosí, alla soddisfazione d'un piccolo bisogno naturale, e veder che tutto rimane al suo posto: là, quei lecci neri in fila che costeggiano la piazza, gli alti tubi di ghisa che sorreggono la trama dei fili tramviarii, tutte quelle lune vane in cima ai lampioni, e qua gli uffici della dogana accanto alla stazione.
Il laboratorio della farmacia, dal tetto basso, tutto scaffalato, è quasi al bujo e appestato dal tanfo dei medicinali. Un sudicio lumino a olio, acceso davanti a un'immagine sacra sulla cornice dello scaffale dirimpetto all'entrata, pare non abbia voglia di far lume neanche a se stesso. La tavola in mezzo, ingombra di bocce, vasetti, bilance, mortaj e imbuti, impedisce di vedere in prima se sul logoro divanuccio di cuojo, là sotto a quello scaffale dirimpetto all'entrata, sia rimasto a dormire il medico di guardia.
- Eccolo, c'è - dice il giovine di farmacia, indicando un pezzo d'omone che dorme penosamente, tutto aggruppato e raffagottato, con la faccia schiacciata contro la spalliera.
- E lo chiami, perdio!
- Eh, una parola! Capace di tirarmi un calcio, sa?
- Ma è medico?
- Medico, medico. Il dottor Mangoni.
- E tira calci?
- Capirà, svegliarlo a quest'ora...
- Lo chiamo io!
E il signore, risolutamente, si china sul divanuccio e scuote il dormente.
- Dottore! dottore!
Il dottor Mangoni muggisce dentro la barbaccia arruffata che gl'invade quasi fin sotto gli occhi le guance; poi stringe le pugna sul petto e alza i gomiti per stirarsi; infine si pone a sedere, curvo, con gli occhi ancora chiusi sotto le sopracciglia spioventi. Uno dei calzoni gli è rimasto tirato sul grosso polpaccio della gamba e scopre le mutande di tela legate all'antica con una cordellina sulla rozza calza nera di cotone.
- Ecco, dottore... Subito, la prego, - dice impaziente il signore. - Un caso d'asfissia...
- Col carbone? - domanda il dottore, volgendosi ma senza aprir gli occhi. Alza una mano a un gesto melodrammatico e, provandosi a tirar fuori la voce dalla gola ancora addormentata, accenna l'aria della "Gioconda": Suicidio? In questi fieeeriii momenti...
Quel signore fa un atto di stupore e d'indignazione. Ma il dottor Mangoni, subito, arrovescia indietro il capo e incignando ad aprire un occhio solo:
- Scusi, - dice, - è un suo parente?
- Nossignore! Ma la prego, faccia presto! Le spiegherò strada facendo. Ho qui la vettura. Se ha da prendere qualche cosa...
- Sí, dammi... dammi... - comincia a dire il dottor Mangoni, tentando d'alzarsi, rivolto al giovine di farmacia.
- Penso io, penso io, signor dottore, - risponde quello, girando la chiavetta della luce elettrica e dandosi attorno tutt'a un tratto con una allegra fretta che impressiona l'avventore notturno.
Il dottor Mangoni storce il capo come un bue che si disponga a cozzare, per difendersi gli occhi dalla súbita luce.
- Sí, bravo figliuolo, - dice. - Ma mi hai accecato. Oh, e il mio elmo? dov'è?
L'elmo è il cappello. Lo ha, sí. Per averlo, lo ha: positivo. Ricorda d'averlo posato, prima d'addormentarsi, su lo sgabello accanto al divanuccio. Dov'è andato a finire?
Si mette a cercarlo. Ci si mette anche l'avventore; poi anche il vetturino, entrato a riconfortarsi al caldo della farmacia. E intanto il commesso farmacista ha tutto il tempo di preparare un bel paccone di rimedii urgenti.
- La siringa per le iniezioni, dottore, ce l'ha?
- Io? - si volta a rispondergli il dottor Mangoni con una maraviglia che provoca in quello uno scoppio di risa.
- Bene bene. Dunque, si dice, carte senapate. Otto, basteranno? Caffeina, stricnina. Una Pravaz. E l'ossigeno, dottore? Ci vorrà pure un sacco d'ossigeno, mi figuro.
- Il cappello ci vuole! il cappello! il cappello prima di tutto! - grida tra gli sbuffi il dottor Mangoni. E spiega che, tra l'altro, c'è affezionato lui a quel cappello, perché è un cappello storico: comperato circa undici anni addietro in occasione dei solenni funerali di Suor Maria dell'Udienza, Superiora del ricovero notturno al vicolo del Falco, in Trastevere, dove si reca spesso a mangiare ottime ciotole di minestra economica, e a dormire, quando non è di guardia nelle farmacie.
Finalmente il cappello è trovato, non lí nel laboratorio ma di là, sotto il banco della farmacia. Ci ha giocato il gattino.
L'avventore freme d'impazienza. Ma un'altra lunga discussione ha luogo, perché il dottor Mangoni, con la tuba tutta ammaccata tra le mani, vuole dimostrare che il gattino, sí, senza dubbio, ci ha giocato, ma che anche lui, il giovine di farmacia, le ha dovuto dare col piede, per giunta, una buona acciaccata sotto il banco. Basta. Un gran pugno allungato dentro la tuba, che per miracolo non la sfonda, e il dottor Mangoni se la butta in capo su le ventitré.
- Ai suoi ordini, pregiatissimo signore!
- Un povero giovine, - prende a dir subito il signore rimontando su la botticella e stendendo la coperta su le gambe del dottore e su le proprie.
- Ah, bravo! Grazie.
- Un povero giovine che m'era stato tanto raccomandato da un mio fratello, perché gli trovassi un collocamento. Eh già, capisce? come se fosse la cosa piú facile del mondo; t-o-to, fatto. La solita storia. Pare che stiano all'altro mondo, quelli della provincia: credono che basti venire a Roma per trovare un impiego: t-o-to, fatto. Anche mio fratello, sissignore! m'ha fatto questo bel regalo. Uno dei soliti spostati, sa: figlio d'un fattore di campagna, morto da due anni al servizio di questo mio fratello. Se ne viene a Roma, a far che? niente, il giornalista, dice. Mi presenta i titoli: la licenza liceale e uno zibaldone di versi. Dice: "Lei mi deve trovar posto in qualche giornale". Io? Roba da matti! Mi metto subito in giro per fargli ottenere il rimpatrio dalla questura. E intanto, potevo lasciarlo in mezzo alla strada, di notte? Quasi nudo, era; morto di freddo, con un abituccio di tela che gli sventolava addosso; e due o tre lire in tasca: non piú di tanto. Gli do alloggio in una mia casetta, qua, a San Lorenzo, affittata a certa gente... lasciamo andare! Gentuccia che subaffitta due camerette mobiliate. Non mi pagano la pigione da quattro mesi. Me n'approfitto; lo ficco lí a dormire. E va bene! Passano cinque giorni; non c'è verso d'ottenere il foglio di rimpatrio dalla questura. La meticolosità di questi impiegati: come gli uccelli, sa? cacano da per tutto, scusi! Per rilasciare quel foglio debbono far prima non so che pratiche là, al paese; poi qua alla questura. Basta: questa sera ero a teatro, al Nazionale. Viene, tutto spaventato, il figl...
[Pagina successiva]