[Pagina precedente]...inconia che lo invadeva e lo soffocava: che si vedesse, che si riconoscesse nel suo bambino appena nato e si sentisse in lui, e con lui, lÃ, in quella terra d'esilio, meno solo, non piú solo.
Ma anche questa speranza gli venne subito meno, appena guardato il figlioletto, nato da due giorni, durante la sua assenza. Somigliava tutto alla madre.
- Nero, nero, povero ninno mio! Sicilianaccio - gli disse Venerina dal letto, mentre egli lo contemplava deluso, nella cuna. - Richiudi la cortina. Me lo farai svegliare. Non m'ha fatto dormire tutta la notte, poverino: ha le dogliette. Ora riposa, e io vorrei profittarne.
Il Cleen baciò in fronte, commosso, la moglie; riaccostò gli scuri e uscà dalla camera in punta di piedi. Appena solo, si premette le mani sul volto e soffocò il pianto irrompente.
Che sperava? Un segno, almeno un segno in quell'esseruccio, nel colore degli occhi, nella prima peluria del capo, che lo palesasse suo, straniero anche lui, e che gli richiamasse il suo paese lontano. Che sperava? Quand'anche, quand'anche, non sarebbe forse cresciuto lÃ, come tutti gli altri ragazzi del paese, sotto quel sole cocente, con quelle abitudini di vita, alle quali egli si sentiva estraneo, allevato quasi soltanto dalla madre e perciò con gli stessi pensieri, con gli stessi sentimenti di lei? Che sperava? Straniero, straniero anche per suo figlio.
Ora, nei due giorni che passava in casa, cercava di nascondere il suo animo; né gli riusciva difficile, poiché nessuno badava a lui: don Pietro se n'andava al solito alla pesca, e Venerina era tutta intenta al bambino, che non gli lasciava neppur toccare:
- Me lo fai piangere... Non sai tenerlo! Via, via, esci un po' di casa. Che stai a guardarmi? Vedi come mi sono ridotta? Sú, va' a fare una visita alla zia Rosolina, che non viene da tre giorni. Forse vuol fatta davvero la corte, come dice zio Pietro.
Ci andò una volta il Cleen, per far piacere alla moglie, ma ebbe dalla zitellona tale accoglienza, che giurò di non ritornarci piú, né solo né accompagnato.
- Solo, gnornò, - gli disse donna Rosolina, vergognosa e stizzita, con gli occhi bassi. - Mi dispiace, ma debbo dirvelo. Nipote, capisco; siete mio nipote, ma la gente vi sa forestiere, con certi costumi curiosi, e chi sa che cosa può sospettare. Solo, gnornò. Verrò io piú tardi a casa vostra, se non volete venire qua con Venerina.
Si vide, cosÃ, messo alla porta, e non seppe, né poté riderne, come Venerina, quand'egli le raccontò l'avventura. Ma se ella sapeva che quella vecchia era cosà fastidiosamente matta, perché spingerlo a fargli fare quella ridicola figura? voleva forse ridere anche lei alle sue spalle?
- Non hai trovato ancora un amico? - gli domandava Venerina.
- No.
- È difficile, lo so: siamo orsi, caro mio! Tu poi sei cosÃ, ancora come una mosca senza capo. Non ti vuoi svegliare? Va' a trovare lo zio, almeno: sta al porto. Tra voi uomini, v'intenderete. Io sono donna, e non posso tenerti conversazione: ho tanto da fare!
Egli la guardava, la guardava, e gli veniva di domandarle: "Non mi ami piú?" - Venerina, sentendo che non si moveva, alzava gli occhi dal cucito, lo vedeva con quell'aria smarrita e rompeva in una gaja risata:
- Che vuoi da me? Un omaccione tanto, che se ne sta in casa come un ragazzino, Dio benedetto! Impara un po' a vivere come i nostri uomini: piú fuori che dentro. Non posso vederti cosÃ. Mi fai rabbia e pena.
Fuori non lo vedeva. Ma dall'aria triste, con cui egli si disponeva a uscire, cacciato cosà di casa, come un cane caduto in disgrazia, avrebbe potuto argomentare come egli si trascinasse per le vie del paese, in cui la sorte lo aveva gettato, e che egli già odiava.
Non sapendo dove andare, si recava all'agenzia del Di Nica. Trovava ogni volta il vecchio dietro gli scritturali, col collo allungato e gli occhiali su la punta del naso, per vedere che cosa essi scrivessero nei registri. Non perché diffidasse, ma, chi sa! si fa presto, per una momentanea distrazione, a scrivere una cifra per un'altra, a sbagliare una somma; e poi, per osservare la calligrafia, ecco. La calligrafia era il suo debole: voleva i registri puliti. Intanto in quella stanzetta umida e buja, a pian terreno, certi giorni, alle quattro, ci si vedeva a mala pena: si dovevano accendere i lumi.
- È una vergogna, padron Di Nica! Con tanti bei denari...
- Quali denari? - domandava il Di Nica. - Se me li date voi! E poi, niente! Qua ho cominciato! qua voglio finire.
Vedendo entrare il Cleen, si angustiava:
- E mo'? E mo'? E mo'?
Gli andava incontro, col capo reclinato indietro per poter guardare attraverso gli occhiali insellati su la punta del naso, e diceva:
- Che cosa volete, figlio mio? Niente? E allora, prendetevi una seggiola, e sedete là , fuori della porta.
Temeva che gli scritturali si distraessero davvero, e poi non voleva che colui sapesse gli affari dell'agenzia prima del viaggio.
Il Cleen sedeva un po' lÃ, su la porta. Nessuno, dunque, lo voleva? Già egli non portava piú il berretto di pelo; era vestito come tutti gli altri; eppure, ecco, la gente si voltava a osservarlo, quasi che egli si tenesse esposto lÃ, davanti all'agenzia; e a un tratto si vedeva girar innanzi su le mani e sui piedi, a ruota, un monellaccio, che per quella bravura da pagliaccetto gli chiedeva poi un soldo; e tutti ridevano.
- Che c'è? che c'è? - gridava padron Di Nica, facendosi alla porta. - Teatrino? Marionette?
I monellacci si sbandavano urlando, fischiando.
- Caro mio, - diceva allora il Di Nica al Cleen, - voi lo capite, sono selvaggi. Andatevene; fatemi questo piacere.
E il Cleen se ne andava. Anche quel vecchio, con la sua tirchieria diffidente, gli era venuto in uggia. Si recava su la spiaggia, tutta ingombra di zolfo accatastato, e con un senso profondo d'amarezza e di disgusto assisteva alla fatica bestiale di tutta quella gente, sotto la vampa del sole. Perché, coi tesori che si ricavavano da quel traffico, non si pensava a far lavorare piú umanamente tutti quegli infelici ridotti peggio delle bestie da soma? Perché non si pensava a costruire le banchine su le due scogliere del nuovo porto, dove si ancoravano i vapori mercantili? Da quelle banchine non si sarebbe fatto piú presto l'imbarco dello zolfo, coi carri o coi vagoncini?
- Non ti scappi mai di bocca una parola su questo argomento! - gli raccomandò don Paranza, una sera, dopo cena. - Vuoi finire come Gesú Cristo? Tutti i ricchi del paese hanno interesse che le banchine non siano costruite, perché sono i proprietarii delle spigonare, che portano lo zolfo dalla spiaggia sui vapori. Bada, sai! Ti mettono in croce.
SÃ, e intanto su la spiaggia nuda, tra i depositi di zolfo, correvano scoperte le fogne, che appestavano il paese; e tutti si lamentavano e nessuno badava a provveder d'acqua sufficiente il paese assetato. A che serviva tutto quel denaro con tanto accanimento guadagnato? Chi se ne giovava? Tutti ricchi e tutti poveri! Non un teatro, né un luogo o un mezzo di onesto svago, dopo tanto e cosà enorme lavoro. Appena sera, il paese pareva morto, vegliato da quei quattro lampioncini a petrolio. E pareva che gli uomini, tra le brighe continue e le diffidenze di quella guerra di lucro, non avessero neanche tempo di badare all'amore, se le donne si mostravano cosà svogliate, neghittose. Il marito era fatto per lavorare: la moglie per badare alla casa e far figliuoli.
- Qua? - pensava il Cleen, - qua, tutta la vita?
E si sentiva stringere la gola sempre piú da un nodo di pianto.
XI
- L'Hammerfest! arriva l'Hammerfest! - corse ad annunziare a Venerina don Paranza, tutto ansante. - Ho l'avviso, guarda: arriverà oggi! E L'arso è partito. Porco diavolo! Chi sa se farà a tempo a rivedere il cognato e gli amici!
Scappò dal Di Nica, con l'avviso in mano:
- Agostino, l'Hammerfest!
Il Di Nica lo guardò, come se lo credesse ammattito.
- Chi è? Non lo conosco!
- Il vapore di mio nipote.
- E che vuoi da me? Salutamelo!
Si mise a ridere, con gli occhi chiusi, d'una sua speciale risatina nel naso, sentendo le bestialità che scappavano a don Pietro nel tumultuoso dispiacere che gli cagionava quel contrattempo.
- Se si potesse...
- Eh già ! - gli rispose il Di Nica. - Detto fatto. Ora telegrafo a Tunisi, e lo faccio tornare a rotta di collo. Non dubitare.
- Sempre grazioso sei stato! - gli gridò don Paranza, lasciandolo in asso. - Quanto ti voglio bene!
E tornò a casa, a pararsi, per la visita a bordo. Su l'Hammerfest, appena entrato in porto, fu accolto con gran festa da tutti i marinai compagni del Cleen. Egli, che per gli affari del vice-consolato se la sbrigava con quattro frasucce solite, dovette quella volta violentare orribilmente la sua immaginaria conoscenza della lingua francese, per rispondere a tutte le domande che gli venivano rivolte a tempesta sul Cleen; e ridusse in uno stato compassionevole la sua povera camicia inamidata, tanto sudò per lo stento di far comprendere a quei diavoli che egli propriamente non era il suocero de L'arso, perché la sposa di lui non era propriamente sua figlia, quantunque come figlia la avesse allevata fin da bambina.
Non lo capirono, o non vollero capirlo. - Beau-père! Beau-père!
- E va bene! - esclamava don Paranza. - Sono diventato beau-père!
Non sarebbe stato niente se, in qualità di beau-père, non avessero voluto ubriacarlo, nonostante le sue vivaci proteste:
- Je ne bois pas de vin.
Non era vino. Chi sa che diavolo gli avevano messo in corpo. Si sentiva avvampare. E che enorme fatica per far entrare in testa a tutto l'equipaggio che voleva assolutamente conoscere la sposina, che non era possibile, cosÃ, tutti insieme!
- Il solo beau-frère! il solo beau-frère! Dov'è? Vous seulement! Venez! venez!
E se lo condusse in casa. Il cognato non sapeva ancora della nascita del bambino: aveva recato soltanto alla sposa alcuni doni, per incarico della moglie lontana. Era dispiacentissimo di non poter riabbracciare Lars. Fra tre giorni l'Hammerfest doveva ripartire per Marsiglia.
Venerina non poté scambiare una parola con quel giovine dalla statura gigantesca, che le richiamò vivissimo alla memoria il giorno che Lars era stato portato su la barella, moribondo, nell'altra casa dello zio. SÃ, a lui ella aveva recato l'occorrente per scrivere quella lettera all'abbandonato; da lui aveva ricevuto la borsetta, e per averlo veduto piangere a quel modo ella s'era presa tanta cura del povero infermo. E ora, ora Lars era suo marito, e quel colosso biondo e sorridente, chino su la culla, suo parente, suo cognato. Volle che lo zio le ripetesse in siciliano ciò che egli diceva per il piccino.
- Dice che somiglia a te, - rispose don Paranza. - Ma non ci credere, sai: somiglia a me, invece.
Con quella porcheria che gli avevano cacciato nello stomaco, a bordo, se lo lasciò scappare, don Paranza. Non voleva mostrare il tenerissimo affetto che gli era nato per quel bimbo, ch'egli chiamava gattino. Venerina si mise a ridere.
- Zio, e che dice adesso? - gli domandò poco dopo, sentendo parlare lo straniero, suo cognato.
- Abbi pazienza, figlia mia! - sbuffò don Paranza. -Non posso attendere a tutt'e due... Ah, Oui... L'arso, sÃ. Dommage! che rabbia, dice... Eh! certo, non sarà possibile vederlo... se il capitano, capisci?... Già ! già ! oui... Engagement... impegni commerciali, capisci! Il vapore non può aspettare.
Eppure quest'ultimo strazio non fu risparmiato al Cleen. Per un ritardo nell'arrivo delle polizze di carico, l'Hammerfest dovette rimandare d'un giorno la partenza. Si disponeva già a salpare da Porto Empedocle, quando il vaporetto del Di Nica entrò nel Molo.
Lars Cleen si precipitò su una lancia, e volò a bordo del suo piroscafo, col cuore in tumulto. Non ragionava piú! Ah, partire, fuggire coi suoi compagni, parlare di nuovo la sua lingua, sentirsi in patria, lÃ, sul suo piroscafo - eccolo! grande! bello! - fuggire da quell'esilio, da quella morte! - Si buttò tra le braccia del cognato, se lo strinse a sé fin quasi a soffocarlo, scoppiando irresistibilmente in un pianto dirotto.
Ma quando i compagni intorno gli chiesero...
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