[Pagina precedente]... l'Ã nsito che gli davano la pinguedine e la vecchiaja, come un grugnito, e guardava con gli occhi quasi spenti, scialbi, acquosi.
Ma subito un vivissimo imbarazzo si diffuse nel salotto: tutti gli occhi, appena guardavano al grand'uomo, si voltavano altrove, schivandosi a vicenda.
La De Marchis, infocata in volto, contenendo a stento il dispetto, accorse presso il marito, gli si parò davanti, vicinissima, e gli disse piano, ma con voce vibrata:
- Alessandro, abbottonati! Vergogna!
Il povero vecchio si recò subito la grossa mano tremante, ove la moglie imperiosamente con gli occhi gl'indicava, e la guardò quasi impaurito, con un sorriso scemo sulle labbra.
Poco dopo, mentre Casimiro Luna riferiva "brillantemente" il suo colloquio col giovine inventore italiano sulla famosa scoperta, un'altra impressione piú penosa della prima dovettero provare i convenuti nel salotto della Venanzi, guardando il vecchio glorioso.
Alessandro De Marchis, che era pure un celebre fisico, i cui libri senza dubbio quel giovine inventore italiano aveva dovuto studiare e consultare, Alessandro De Marchis s'era messo a dormire, col testone reclinato sul petto.
Vittorino Lamanna fu tra i primi ad accorgersene, e si sentà gelare. Casimiro Luna seguitava a parlare; ma, a un certo punto, seguendo lo sguardo degli altri, e vedendo anche lui il De Marchis immerso nel sonno, atteggiò il volto di tal commiserazione che a piú d'uno scappò irresistibilmente un breve riso subito soffocato.
- Ma a ottantasei anni, scusi, - osservò piano, all'orecchio del Lamanna, quello stesso signore arguto, - a ottantasei anni, davanti alla soglia della morte, che può piú importare, caro signore, ad Alessandro De Marchis che Guglielmo Marconi abbia scoperto il telegrafo senza fili? Domani morrà . È già quasi morto. Lo guardi.
Vittorino Lamanna, pallido, alterato, si voltò per dirgli sgarbatamente che si stesse zitto; ma incontrò lo sguardo della Venanzi che gli fece un cenno, levandosi e uscendo dal salotto. Si alzò anche lui poco dopo, e la seguà nel salottino accanto.
La trovò, che accendeva una sigaretta, traendo con voluttà le prime boccate di fumo.
- Fumate, fumate, Lamanna, fumate anche voi, - gli disse, presentandogli una scatola di sigarette. - Non ne potevo piú! Se non fumo, muojo.
Arrivò dal salotto, attraverso la vetrata, un fragoroso scoppio di risa.
- Caro, caro, quel Luna! Sentite? Trova modo di far ridere anche parlando di una scoperta scientifica. Speriamo che si svegli! - sospirò poi, alludendo al De Marchis. - Chi sa come deve soffrirne quella povera Cristina!
- Cristina? - domandò, accigliato, Vittorino Lamanna.
- La moglie, - spiegò la Venanzi. - Non l'avete veduta? È tanto bella! Forse ora s'ajuta un po' con la chimica. Ah, è stato un vero peccato sacrificare alla gloria di quel vecchio tanta bellezza! Calcolo sbagliato! Il vecchio glorioso se ne sta lÃ, come vedete, abbandonato dalla vita, dimenticato dalla morte. La povera Cristina, evidentemente, contò che, sÃ, il sacrifizio della sua bellezza alla gloria non sarebbe durato tanto, e che la luce di questa gloria avrebbe poi illuminato meglio la sua bellezza. Calcolo sbagliato! E ora, poverina, vuol cavare dalla gloria a cui s'è sacrificata tutte quelle magre soddisfazioni che può: si trascina il marito dappertutto; per miracolo non si appende al collo le innumerevoli decorazioni di lui, nazionali e forestiere. Il vecchio però, eh! il vecchio se ne vendica: dorme cosà dappertutto, sapete! Dorme, dorme. Ed è già molto che non ronfi!
Vittorino Lamanna sentà cascarsi le braccia. Pensò alla prossima lettura della sua commedia, mentre il vecchio dormiva; pensò al detto di un celebre commediografo francese: che durante la lettura o la rappresentazione d'un dramma, il sonno debba esser considerato come un'opinione, e si lasciò scappare dalle labbra:
- Oh Dio! E allora?
La Venanzi, a questo ingenuo sospiro, scoppiò a ridere, proprio di cuore.
- Non temete, non temete! - gli disse poi. - Procureremo di tenerlo sveglio. Ma già , vedrete che non ce ne sarà bisogno. L'arte vostra farà da sé il miracolo.
- Ma se mi dice che dorme sempre!
- No: sempre sempre poi no! Se mai, però, gli metteremo accanto il Gabrini: sapete? quello che vi tormenta. Me ne sono accorta. Ah, il Gabrini è terribile! Capacissimo d'allungargli sotto sotto qualche pizzicotto. Lasciate fare a me!
Entrò in quel momento Flora, la bellissima figliuola della Venanzi, a chiamare la madre. Casimiro Luna aveva finito d'esporre la sua "intervista" ed era scappato via.
La Venanzi carezzò la splendida figliuola alla presenza del giovanotto, le ravviò i capelli, le rassettò sul seno ricolmo le pieghe della camicetta di seta. Flora la lasciò fare, sorridente, con gli occhi rivolti al giovine; poi disse alla madre:
- Sai che donna Cristina è andata via anche lei?
La madre allora s'adirò fieramente.
- Via? E mi lascia là quel mausoleo addormentato? Ah! È un po' troppo, mi pare! Dov'è andata?
- Mah! - sospirò la figlia. - Ha detto che ritornerà tra poco.
Poi si volse al Lamanna e aggiunse:
- Non dubiti: glielo sveglio io, or ora, con una tazza di tè.
Il Lamanna, già col sangue tutto rimescolato, avrebbe voluto pregare la Venanzi di mandare a monte la lettura della commedia e di permettergli d'andar via di nascosto. Ma la signora Alba s'era già levata e aveva schiuso la bussola per rientrare in salotto con la figlia.
Quando di là a poco, questa con una tazza di tè in una mano e nell'altra il bricco del latte, pregò la signora inglese che sedeva accanto al De Marchis di scuoterlo per un braccio, Vittorino Lamanna, divenuto nervosissimo, avrebbe voluto gridarle: "Ma lo lasci dormire, perdio!". CosÃ, quelli che non sapevano del continuo sonno del vecchio, avrebbero potuto attribuirne la causa alla relazione del Luna e non alla prossima lettura della sua commedia.
Destato, Alessandro De Marchis guardò Flora con gli occhi stralunati:
- Ah sÃ... Guglielmo... Guglielmo Marconi...
- No, scusi, senatore, - disse Flora, con un sorriso. - Col latte o senza?
- Col... col latte, sÃ, grazie.
Preso il tè, rimase sveglio. Vittorino Lamanna, che già si disponeva alla lettura, accolse in sé la lusinga che la sua commedia avrebbe veramente incatenato l'attenzione del vecchio, come la Venanzi gli aveva lasciato sperare, e lesse a voce alta il titolo: Conflitto.
Lesse i personaggi, lesse la descrizione della scena, e volse una rapida occhiata al De Marchis.
Questi se ne stava ancora con le ciglia corrugate e pareva attentissimo. Il Lamanna si raffermò in quella lusinga, e cominciò a leggere la prima scena, tutto rianimato.
S'era proposto di rappresentare un conflitto d'anime, diceva lui. Un vecchio benefattore, ancor valido, aveva sposato la sua beneficata; questa, presa poco dopo d'amore per un giovane, si dibatteva tra il sentimento del dovere e della gratitudine e il ribrezzo che provava nell'adempimento de' suoi doveri di sposa, mentre il suo cuore era pieno di quell'altro. Tradire, no; ma mentire, mentire neppure!
Orbene, chi sa! il De Marchis forse avrebbe potuto intravedere in quella situazione drammatica un caso simile al suo, e avrebbe prestato attenzione fino all'ultimo. E il Lamanna seguitava a leggere con molto calore.
A un tratto però, dagli occhi degli ascoltatori comprese che il vecchio s'era rimesso a dormire. Non ebbe il coraggio di guardare per accertarsene. Cercò invece gli occhi del Gabrini e li incontrò subito appuntati su lui, taglienti di ironia.
- A ottantasei anni, davanti alla soglia della morte... - gli parve di leggere in quello sguardo; e subito sentà tutto il sangue affluirgli alle guance, dalla stizza; si confuse, s'impappinò, perdette il tono, il colore, la misura; e, con un gran ronzÃo negli orecchi, in preda a una esasperazione crescente di punto in punto, strascinò miseramente la lettura del suo lavoro fino alla fine.
Fu un supplizio per lui e per gli altri, che parve durasse un secolo. Finito, non vide l'ora di trovarsi solo in casa per lacerare in mille minutissimi pezzi quel suo atto unico, ch'era stato per lui strumento d'indicibile tortura.
Mezz'ora dopo, nel salotto della Venanzi non c'era piú nessuno, tranne il vecchio che dormiva sul seggiolone, col capo rovesciato sul petto, le labbra flosce, da cui pendeva sul panciotto un filo di bava.
Madre e figlia, nel salottino accanto, parlavano della pessima figura fatta dal Lamanna e mangiucchiavano intanto qualche violetta inzuccherata.
- Oh! - esclamò a un tratto la madre. - Quella là non torna. Bisogna svegliare il vecchio.
Si recarono nel salotto e stettero un po' a contemplare con una certa pena mista di ribrezzo quel glorioso dormente, in cui ogni luce d'intelletto era estinta da un pezzo.
Lo scossero pian piano, poi piú forte. Stentò non poco Alessandro De Marchis a comprendere che la moglie lo aveva abbandonato lÃ.
- Se vuole, - gli disse la Venanzi, - lo farò accompagnare fino a casa.
- No, - rispose il vecchio, provandosi piú volte a levarsi dal seggiolone. - Mi basta... mi basta fino a piè della scala. Poi mi metto in vettura.
Riuscà finalmente a tirarsi sú; guardò Flora; le accarezzò una guancia.
- Sei un po' sciupatina, - le disse. - Bellina mia, che cos'è? facciamo forse all'amore?
Flora, senza arrossire, alzò una spalla e sorrise.
- Che dice mai, senatore!
- Male! - riprese allora il De Marchis. - A diciannove anni bisogna fare all'amore. E credi pure che non c'è niente di meglio, bellina mia.
Si accostò lentamente a una mensola, per tuffar la faccia in un gran mazzo di rose; poi, ritraendola, sospirò:
- Povero vecchio...
Scese pian piano, a gran fatica, la scala, appoggiato al cameriere; si mise in vettura e poco dopo si addormentò anche lÃ, senza il piú lontano sospetto che la sera, nelle "note mondane", tutti i giornali piú in vista avrebbero parlato di lui, del suo grande compiacimento per i trionfi di Guglielmo Marconi, della sua vivissima simpatia per Casimiro Luna e anche della sua paterna benevolenza per Vittorino Lamanna, giovane commediografo di belle speranze.
LA DISTRUZIONE DELL'UOMO
Vorrei sapere soltanto se il signor giudice istruttore ritiene in buona fede d'aver trovato una sola ragione che valga a spiegare in qualche modo questo ch'egli chiama assassinio premeditato (e sarebbe, se mai, doppio assassinio, perché la vittima stava per compire felicemente l'ultimo mese di gravidanza).
Si sa che Nicola Petix s'è barricato in un silenzio impenetrabile, prima davanti al commissario di polizia, appena arrestato, poi davanti a lui, voglio dire al signor giudice istruttore che inutilmente tante volte e in tutte le maniere s'è provato a interrogarlo, e infine anche davanti al giovane avvocato che gli hanno imposto d'ufficio, visto che fino all'ultimo non ha voluto incaricarne uno di sua fiducia per la difesa.
Di questo silenzio cosà ostinato si dovrebbe pur dare, mi sembra, una qualche interpretazione.
Dicono che in carcere Petix dimostra la smemorata indifferenza d'un gatto che, dopo aver fatto strazio d'un topo o d'un pulcino, si raccolga beato dentro un raggio di sole.
Ma è chiaro che questa voce, la quale vorrebbe dare a intendere che Petix consumò il delitto con l'incoscienza d'una bestia, non è stata accolta dal giudice istruttore, se egli ha creduto di dovere ammettere e sostenere la premeditazione nell'assassinio. Le bestie non premeditano. Se s'appostano, il loro agguato è parte istintiva e naturale della loro naturalissima caccia, che non le fa né ladre né assassine. La volpe è ladra per il padrone della gallina: ma per sé la volpe non è ladra: ha fame; e quand'ha fame, acchiappa la gallina e se la mangia. E dopo che se l'è mangiata, addio, non ci pensa piú.
Ora Petix non è una bestia. E bisogna vedere, prima di tutto, se questa indifferenza è vera. Perché, se vera, anche di questa indifferenza si dovrebbe tener conto, come di quel silenzio ostinato, di cui - a mio modo di vedere - sarebbe la conseguenza piú naturale; corroborati come sono l'una e l'altro dall'esplicito rifiuto d'un difensore.
Ma non voglio antic...
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