[Pagina precedente].... Poi riprende:
- Scusi, a quel giovinetto, se non si fosse ucciso, lei avrebbe dato in moglie la sua figliuola?
Quella lo guarda un pezzo, di traverso, e poi, come a sfida, gli risponde:
- E perché no?
- E se lo sarebbero preso qua con loro in questa casa? - torna a domandare il dottor Mangoni.
E quella, di nuovo:
- E perché no?
- E lei, - domanda ancora il dottor Mangoni, rivolto al vecchio marito, - lei che se n'intende, professore di belle lettere a riposo, gli avrebbe anche consigliato di stampare quelle sue poesie?
Per non esser da meno della moglie, il vecchio risponde anche lui:
- E perché no?
- E allora, - conclude il dottor Mangoni, - me ne dispiace, ma debbo dir loro, che sono per lo meno due volte piú imbecilli di quel signore.
E volta le spalle per andarsene.
- Si può sapere perché? - gli grida dietro la donna inviperita.
Il dottor Mangoni si ferma e le risponde pacatamente:
- Abbia pazienza. Mi ammetterà che quel povero ragazzo sognava forse la gloria, se faceva poesie. Ora pensi un po' che cosa gli sarebbe diventata la gloria, facendo stampare quelle sue poesie. Un povero, inutile volumetto di versi. E l'amore? L'amore che è la cosa piú viva e piú santa che ci sia dato provare sulla terra? Che cosa gli sarebbe diventato? L'amore: una donna. Anzi, peggio, una moglie: la sua figliuola.
- Oh! oh! - minaccia quella, venendogli quasi con le mani in faccia. - Badi come parla della mia figliuola!
- Non dico niente, - s'affretta a protestare il dottor Mangoni. - Me l'immagino anzi bellissima e adorna di tutte le virtú. Ma sempre una donna, cara signora mia: che dopo un po' santo Dio, lo sappiamo bene, con la miseria e i figliuoli, come si sarebbe ridotta. E il mondo, dica un po'? Il mondo, dove io adesso con questo piede che mi fa tanto male mi vado a perdere; il mondo veda lei, veda lei, signora cara, che cosa gli sarebbe diventato! Una casa. Questa casa. Ha capito?
E facendo scattar le mani in curiosi gesti di nausea e di sdegno, se ne va, zoppicando e borbottando:
- Che libri! Che donne! Che casa! Niente... niente... niente... Dimissionario! dimissionario! Niente.
MONDO DI CARTA
Un gridare, un accorrere di gente in capo a Via Nazionale, attorno a due che s'erano presi: un ragazzaccio sui quindici anni, e un signore ispido, dalla faccia gialliccia, quasi tagliata in un popone, su la quale luccicavano gli occhialacci da miope, grossi come due fondi di bottiglia.
Sforzando la vocetta fessa, quest'ultimo voleva darsi ragione e agitava di continuo le mani che brandivano l'una un bastoncino d'ebano dal pomo d'avorio, l'altra un libraccio di stampa antica.
Il ragazzaccio strepitava pestando i piedi sui cocci d'una volgarissima statuetta di terracotta misti a quelli di gesso abbronzato della colonnina che la sorreggeva.
Tutti attorno, chi scoppiava in clamorose risate, chi faceva un viso lungo lungo e chi pietoso: e i monelli, attaccati ai lampioni, chi abbajava, chi fischiava, chi strombettava sul palmo della mano.
- È la terza! è la terza! - urlava il signore. - Mentre passo leggendo, mi para davanti le sue schifose statuette, e me le fa rovesciare. È la terza! Mi dà la caccia! Si mette alle poste! Una volta al Corso Vittorio; un'altra a Via Volturno; adesso qua.
Tra molti giuramenti e proteste d'innocenza, il figurinajo cercava anch'esso di farsi ragione presso i piú vicini:
- Ma che! È lui! Non è vero che legge! Mi ci vien sopra! O che non veda, o che vada stordito, o che o come, fatto si è...
- Ma tre? Tre volte? - gli domandavano quelli tra le risa.
Alla fine, due guardie di città , sudate, sbuffanti, riuscirono tra tutta quella calca a farsi largo; e siccome l'uno e l'altro dei contendenti, alla loro presenza, riprendevano a gridare piú forte ciascuno le proprie ragioni, pensarono bene, per togliere quello spettacolo, di condurli in vettura al piú vicino posto di guardia.
Ma appena montato in vettura, quel signore occhialuto si drizzò lungo lungo sulla vita e si mise a voltare a scatti la testa, di qua, di là , in sú, in giú; infine s'accasciò, aprà il libraccio e vi tuffò la faccia fino a toccar col naso la pagina; la sollevò tutto sconvolto, si tirò sulla fronte gli occhialacci e rituffò la faccia nel libro per provarsi a leggere con gli occhi soltanto; dopo tutta questa mimica cominciò a dare in smanie furiose, a contrarre la faccia in smorfie orrende, di spavento, di disperazione:
- Oh Dio. Gli occhi. Non ci vedo piú. Non ci vedo piú!
Il vetturino si fermò di botto. Le guardie, il figurinajo, sbalorditi, non sapevano neppure se colui facesse sul serio o fosse impazzito; perplessi nello sbalordimento, avevano quasi un sorriso d'incredulità sulle bocche aperte.
C'era là una farmacia; e, tra la gente ch'era corsa dietro la vettura e l'altra che si fermò a curiosare, quel signore, tutto scompigliato, cadaverico in faccia, sorretto per le ascelle, vi fu fatto entrare.
Mugolava. Posto a sedere su una seggiola, si diede a dondolare la testa e a passarsi le mani sulle gambe che gli ballavano, senza badare al farmacista che voleva osservargli gli occhi, senza badare ai conforti, alle esortazioni, ai consigli che gli davano tutti: che si calmasse; che non era niente; disturbo passeggero; il bollore della collera che gli aveva dato agli occhi. A un tratto, cessò di dondolare il capo, levò le mani, cominciò ad aprire e chiudere le dita.
- Il libro! Il libro! Dov'è il libro?
Tutti si guardarono negli occhi, stupiti; poi risero. Ah, aveva un libro con sé? Aveva il coraggio, con quegli occhi, di andar leggendo per istrada? Come, tre statuette? Ah s� e chi, chi, quello? Ah s� Gliele metteva davanti apposta? Oh bella! oh bella!
- Lo denunzio! - gridò allora il signore, balzando in piedi, con le mani protese e strabuzzando gli occhi con scontorcimenti di tutto il volto ridicoli e pietosi a un tempo. - In presenza di tutti qua, lo denunzio! Mi pagherà gli occhi! Assassino! Ci sono due guardie qua; prendano i nomi, subito, il mio e il suo. Testimoni tutti! Guardia, scrivete: Balicci. SÃ, Balicci; è il mio nome. Valeriano, sÃ, via Nomentana 112, ultimo piano. E il nome di questo manigoldo, dov'è? è qua? lo tengano! Tre volte, approfittando della mia debole vista, della mia distrazione, sissignori, tre schifose statuette. Ah, bravo, grazie, il libro, sÃ, obbligatissimo! Una vettura, per carità . A casa, a casa, voglio andare a casa! Resta denunziato.
E si mosse per uscire, con le mani avanti; barellò; fu sorretto, messo in vettura e accompagnato da due pietosi fino a casa.
Fu l'epilogo buffo e clamoroso d'una quieta sciagura che durava da lunghissimi anni. Infinite volte, per unica ricetta del male che inevitabilmente lo avrebbe condotto alla cecità , il medico oculista gli aveva detto di smettere la lettura. Ma il Balicci aveva accolto ogni volta questa ricetta con quel sorriso vano con cui si risponde a una celia troppo evidente.
- No? - gli aveva detto il medico. - E allora séguiti a leggere, e poi mi lodi la fine! Lei ci perde la vista, glielo dico io. Non dica poi, se me lo credevo! Io la ho avvertita!
Bell'avvertimento! Ma se vivere, per lui, voleva dir leggere! Non dovendo piú leggere, tanto valeva che morisse.
Fin da quando aveva imparato a compitare, era stato preso da quella manÃa furiosa. Affidato da anni e anni alle cure di una vecchia domestica che lo amava come un figliuolo, avrebbe potuto campare sul suo piú che discretamente, se per l'acquisto dei tanti e tanti libri che gl'ingombravano in gran disordine la casa, non si fosse perfino indebitato. Non potendo piú comprarne di nuovi, s'era dato già due volte a rileggersi i vecchi, a rimasticarseli a uno a uno tutti quanti dalla prima all'ultima pagina. E come quegli animali che per difesa naturale prendono colore e qualità dai luoghi, dalle piante in cui vivono, cosà a poco a poco era divenuto quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel colore della barba e dei capelli. Discesa a grado a grado tutta la scala della miopia, ormai da alcuni anni pareva che i libri se li mangiasse davvero, anche materialmente, tanto se li accostava alla faccia per leggerli.
Condannato dal medico, dopo quella tremenda caldana, a stare per quaranta giorni al bujo, non s'illuse piú neanche lui che quel rimedio potesse giovare, e appena poté uscire di camera, si fece condurre allo studio, presso il primo scaffale. Cercò a tasto un libro, lo prese, lo aprÃ, vi affondò la faccia, prima con gli occhiali, poi senza, come aveva fatto quel giorno in vettura; e si mise a piangere dentro quel libro, silenziosamente. Piano piano poi andò in giro per l'ampia sala, tastando qua e là con le mani i palchetti degli scaffali. Eccolo lÃ, tutto il suo mondo! E non poterci piú vivere ora, se non per quel tanto che lo avrebbe ajutato la memoria!
La vita, non l'aveva vissuta; poteva dire di non aver visto bene mai nulla: a tavola, a letto, per via, sui sedili dei giardini pubblici, sempre e da per tutto, non aveva fatto altro che leggere, leggere, leggere. Cieco ora per la realtà viva che non aveva mai veduto; cieco anche per quella rappresentata nei libri che non poteva piú leggere.
La grande confusione in cui aveva sempre lasciato tutti i suoi libri, sparsi o ammucchiati qua e là sulle seggiole, per terra, sui tavolini, negli scaffali, lo fece ora disperare. Tante volte s'era proposto di mettere un po' d'ordine in quella babele, di disporre tutti quei libri per materie, e non l'aveva mai fatto, per non perder tempo. Se l'avesse fatto, ora, accostandosi all'uno o all'altro degli scaffali, si sarebbe sentito meno sperduto, con lo spirito meno confuso, meno sparpagliato.
Fece mettere un avviso nei giornali, per avere qualcuno pratico di biblioteche, che si incaricasse di quel lavoro d'ordinamento. In capo a due giorni gli si presentò un giovinotto saccente, il quale rimase molto meravigliato nel trovarsi davanti un cieco che voleva riordinata la libreria e che pretendeva per giunta di guidarlo. Ma non tardò a comprendere, quel giovanotto, che - via - doveva essere uscito di cervello quel pover'uomo, se per ogni libro che gli nominava, eccolo là , saltava di gioja, piangeva, se lo faceva dare, e allora, palpeggiamenti carezzevoli alle pagine e abbracci, come a un amico ritrovato.
- Professore, - sbuffava il giovanotto. - Ma cosà badi che non la finiamo piú!
- SÃ, sÃ, ecco, ecco, - riconosceva subito il Balicci. - Ma lo metta qua, questo: aspetti, mi faccia toccare dove l'ha messo. Bene, bene qua, per sapermi raccapezzare.
Erano per la maggior parte libri di viaggi, d'usi e costumi dei varii popoli, libri di scienze naturali e d'amena letteratura, libri di storia e di filosofia.
Quando alla fine il lavoro fu compiuto, parve al Balicci che il bujo gli s'allargasse intorno in tenebre meno torbide, quasi avesse tratto dal caos il suo mondo. E per un pezzo rimase come rimbozzolito a covarlo.
Con la fronte appoggiata sul dorso dei libri allineati sui palchetti degli scaffali, passava ora le giornate quasi aspettando che, per via di quel contatto, la materia stampata gli si travasasse dentro. Scene, episodii, brani di descrizioni gli si rappresentavano alla mente con minuta, spiccata evidenza; rivedeva, rivedeva proprio in quel suo mondo alcuni particolari che gli erano rimasti piú impressi, durante le sue riletture: quattro fanali rossi accesi ancora, alla punta dell'alba, in un porto di mare deserto, con una sola nave ormeggiata, la cui alberatura con tutte le sartie si stagliava scheletrica sullo squallore cinereo della prima luce; in capo a un erto viale, su lo sfondo di fiamma d'un crepuscolo autunnale, due grossi cavalli neri con le sacche del fieno alla testa.
Ma non poté reggere a lungo in quel silenzio angoscioso. Volle che il suo mondo riavesse voce, che si facesse risentire da lui e gli dicesse com'era veramente e non come lui in confuso se lo ricordava. Mise un altro avviso nei giornali, per un lettore o una lettrice; e gli capitò una certa signorinetta tutta fremente in una perpetua irrequietezza di perplessità . Aveva svolazzato per mezzo mondo, senza ...
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