[Pagina precedente]...rere dal Tribunale in su, le si avvicinò: - Signora... - le disse e levò il cappello, ma la respirazione divenuta più affannosa dacché s'era fermato, gl'impedì di continuare. Un occhio azzurro lo guardò con freddezza glaciale e trovandosi poco preparato per parlare avendo pensato solo a correre, semplicemente si fece in parte per lasciarla passare, e pigliò fiato, lieto come se avesse temuto di venirne impedito. I desideri che lo coglievano con tanta rapidità altrettanto rapidamente lo abbandonavano; per dimenticarli gli bastava di venir scosso da un timore o da una fatica.
Per certo tempo ogni sera correva dietro a qualche donna, ma soltanto a quelle ben vestite, perché l'oggetto dei suoi sogni era tutt'altro che pezzente e ad ogni corsa poteva illudersi di trovarlo. Questi conati all'amore avevano sempre il medesimo risultato. La sua timidezza vinceva i propositi fatti con la maggior risolutezza e bastava un gesto di ripulsa dell'aggredita od anche meno, lo sguardo indiscreto di qualche passante, per farlo desistere.
Dovette però fare l'esperienza che non era soltanto la sua timidezza che gl'impediva l'amore, ma i suoi dubbi, le sue esitazioni, e persino quel suo ideale portato dal villaggio e cacciato in un canto ma non scomparso. Esso capitava fuori tutt'ad un tratto quando Alfonso lo aveva del tutto dimenticato e gli faceva disprezzare col suo splendore quella miserabile realtà che gli era concessa.
Ebbe qualche avventura d'amore, ma non appena iniziata la soffocava con abbandoni bruschi per un risveglio della sua coscienza morale od anche semplicemente per non aver da sacrificare all'amore le ore di studio.
Rammentò per parecchi anni con rimpianto Maria, una giovinetta dai capelli esattamente biondi, il colore puro dell'oro, una figurina diritta che non pareva accorgersi del peso del tanto metallo che portava in testa. L'affrontò una sera e audacissimo come sono tutti i timidi quando si costringono al coraggio, le fece subito una dichiarazione d'amore. Maria ch'era, a quanto essa gli disse, dama di compagnia presso una vecchia signora, doveva trovarsi in uno stato d'animo simile al suo, perché, con sua grande sorpresa, ella accolse la sua dichiarazione ch'era sincera e parolaia, uno sfogo di sentimento accumulato, con serietà e con qualche commozione. Doveva partire pochi giorni appresso, ma prima, in seguito alle sue preghiere insistenti, gli accordò un abboccamento a cui egli non andò. Le ore di studio serali erano divenute nel frattempo la cosa più importante della sua giornata. L'abboccamento era stato fissato per quelle ore e all'ultimo momento egli aveva deciso di non andarci. Ebbe poi un cocente rimorso della sua azione, ma non poté ripararvi perché non la rivide mai più.
Non perciò rinunciò a quelle sue corse dietro alle gonnelle. Così correndo sognava meglio. Si vergognava di tale abitudine e sofferse molto un giorno che la vide indovinata da Gustavo.
Fino ad allora era stato lui il maestro di costui. Volendo essere utile alla famiglia Lanucci, egli aveva cercato di ricondurre il giovinetto sulla buona via. L'altro stava ad ascoltare seriamente gl'insegnamenti di Alfonso ma vi opponeva le sue massime semplici e sicure: - Il lavoro in genere era duro e mai retribuito abbastanza; preferiva perciò di vivere povero e libero che di poco più ricco e schiavo.
Tutt'ad un tratto Alfonso si trovò ad essere divenuto scolaro e l'altro maestro:
- Che gusto ci trovi? - chiese Gustavo molto sorpreso facendogli interrompere una corsa dietro ad una donna.
Era volgo lui, ma parlava con calma delle cose che profondamente commovevano e turbavano Alfonso, e questi lo invidiò. Egli più adulto e più intelligente, sotto questo rapporto importantissimo gli era inferiore. La sua forza disordinata era malattia e debolezza, mentre nella faccia anemica e magra di Gustavo brillava la salute, la pace.
Eppure non si sentiva infelice! Trovava la sua felicità da una parte nello studio accanito stesso, dall'altra nella sua ambizione cresciuta gigante, la fame di gloria. Sentiva di essere superiore agli altri e se ancora non sapeva come si sarebbe guadagnata questa gloria, lo afforzava nelle sue speranze il suo amore allo studio ch'era divenuto passione. Completava le ore di studio alla biblioteca con altrettante in casa e non gli bastava ancora. Lo studio invadeva le ore di ufficio, del pranzo e della cena e andava rubandogli ogni giorno parecchie ore di sonno.
In un'epoca di maggiore attività propose a Lucia di darle delle lezioni di lingua italiana. Non doveva essere disaggradevole d'imparare insegnando.
La proposta fece andare in visibilio i vecchi Lanucci e il padre volle che anche Gustavo partecipasse a quelle lezioni. Persino costui s'infiammò. Volle dimostrare una grande diligenza. Si fece dettare da Alfonso le definizioni delle parti del discorso e intendeva di studiarle a mente perché per mancanza di preparazione e non d'intelligenza non giungeva a comprenderle. Poi non si fece più vedere e soltanto le due prime volte si rammentò di scusarsi, quelle però con tutta buona grazia e sempre asserendo che la prima lezione lo aveva grandemente divertito.
La signora Lanucci formalmente consegnò Lucia ad Alfonso. Le prime lezioni vennero date in tinello, le altre in stanza di Alfonso, perché in tinello a certe ore non vi era quiete bastante.
Alfonso prese il suo compito sul serio e l'entusiasmo della signora Lanucci finì col far credere anche a lui di usare un benefizio a Lucia dandole i suoi insegnamenti.
Avevano principiato col Puoti, ma ben presto mutarono programma, ambedue mortalmente annoiati. Lucia non aveva capito niente e Alfonso lo sapeva.
Da parecchio tempo Alfonso usava di leggere i sinonimi del Tommaseo. Risolse di far studiare a Lucia quelli in luogo della grammatica.
- Almeno non si ha da fare con un sistema - le disse. - Per quanto lo si sia, non ci si accorge mai di essere troppo indietro perché non c'è addentellato, ogni pagina e ogni articolo essendo parti che stanno da sé. Si studiano queste parti e un bel giorno si scopre con sorpresa di aver edificato un edifizio, conquistata la lingua italiana.
Quello che maggiormente amava in queste lezioni si era di tener discorsi d'introduzione. Poi non solo l'ignoranza di Lucia, ma i dettagli dell'insegnamento lo annoiavano e lo stancavano. Lucia per le due prime lezioni si fece credere capace e intelligente perché comprese le non poche sottili differenze fra abbandonare e lasciare. Portò seco il librone e imparò a mente quell'articolo. Alla terza lezione, vedendo che la fanciulla lo aveva seguito con tanta facilità sino a quel punto, Alfonso dichiarò che si poteva procedere più rapidamente; una quarta parte circa dell'opera gli era nota e desiderava di giungere presto ove ci sarebbe stato da imparare anche per lui. Ella non desiderava di meglio volendo giungere rapidamente lontano. Lo amava o almeno credeva di esserne amata, ciò che sommamente la commoveva. Dal canto suo, Alfonso in quell'epoca si trovava molto bene con Lucia; non aveva trovato nessuno che supplisse a Maria e Lucia gli serviva di surrogato. A costei non raccontava dei suoi affanni, ma semplicemente le insegnava, e i dogmi e le teorie ch'egli cacciava fra sinonimo e sinonimo, bastavano a levarlo dal suo avvilimento. Il visino di Lucia non intelligente ma attento in modo che sembrava lo fosse più in atto di omaggio che per interessamento alla cosa, gli faceva dimenticare gli occhi inquieti e la parola brusca di Sanneo.
Talvolta l'ignoranza di Lucia lo inquietava e diveniva violento quando doveva accorgersi che le sue spiegazioni non venivano capite e le precedenti dimenticate. Anche sottili distinzioni penetravano qua e là in quel cervello, ma non era abitazione per esse e ne uscivano dopo brevissimo soggiorno. Se una seconda volta si presentava la medesima idea, bisognava fare un'altra volta la presentazione in tutte le regole, e non bastava, perché alla seconda volta l'ira che trapelava da tutti i pori del maestro toglieva alla scolara la calma necessaria per pensare. Quando egli le chiedeva di ripetere le sue spiegazioni, ella alzava il nasino; sorridente ma molto pallida diceva il contrario di quanto aveva detto Alfonso o connetteva in fretta delle frasi che le erano rimaste nell'orecchio, senza molto preoccuparsi del loro significato. Per non perdere la pazienza, Alfonso andava ripetendosi delle massime di bontà e si proponeva di non offendere l'essere meno intelligente.
- Meno intelligente merita compassione - gridava Alfonso una settimana dopo - ma poco diligente, no!
Infatti la ragazza non studiava più. Con uno sforzo immenso, il suo cervello aveva camminato fino a certo punto e si fermava perché stanco, quasi saturo. Quando erano principiate le lezioni, la madre, abituata ai sistemi della scuola, per far trovare alla figliuola il tempo necessario alla nuova occupazione, le aveva fatto un orario nel quale un'ora al giorno era stata destinata alla preparazione. Regolarmente la ragazza passava quest'ora, anziché in stanza sua allo studio, assieme agli altri in tavola a udire i racconti del padre. Vi rimaneva inquieta, seccata dalla madre che la richiamava allo zelo, seccata dal proprio desiderio di figurare con Alfonso, in fine veramente tormentata dal timore di venire sgridata da lui, ma vi rimaneva! Vi rimaneva vinta dall'inerzia, rassegnata anche di subire le osservazioni taglienti di Alfonso alle quali avrebbe preferito delle legnate, piuttosto di mettersi da sola in lotta con quei concetti esposti alla breve. Poteva anche studiarli a memoria che con Alfonso non bastava; perché se il caso voleva ch'ella dimenticasse una parola, era proprio quella, secondo Alfonso, l'essenziale.
Quello che ad Alfonso mancava per essere un buon insegnante era la capacità di apprezzare come meritavano i piccoli sforzi della sua scolara. Lodava di rado e soltanto quando, pentitosi di una parola brutale, voleva risparmiarsi le lagrime che la fanciulla a stento ratteneva, ma mai per una risposta quasi giusta. S'era fatto illusioni sulla sua vocazione all'insegnamento e se gli piaceva d'insegnare non era per affetto allo scolare. I progressi di Lucia poco o nulla gl'importavano. Si sentiva offeso che ella non imparasse di più coi suoi insegnamenti e diveniva violento a sfogo di giornate uggiose nelle quali aveva avuto da subire lui le ire altrui.
Era sorprendente che Lucia non perdesse definitivamente la pazienza e non facesse sospendere quelle lezioni che le apportavano tanti dispiaceri e un utile così piccolo. Non voleva questo! Anzi, alla fine di ogni singola lezione, quando Alfonso, nel congedarla, si faceva più mite e la trattava da amico coi soliti suoi riguardi, ella si proponeva di essere diligente, di studiare, per meritarsi quel trattamento anche durante la lezione. Sarebbe stato pur bello di passare insieme da buoni amici anche quell'oretta, ammirandosi vicendevolmente, ciò che a lei riusciva facilmente! Dopo quell'ora di studio forzato, lo studio le sembrava più facile e più aggradevole che non prima della lezione la quale in parte toglieva al cervello la ruggine che vi si faceva durante la giornata passata a lavorare d'ago. Si proponeva anche per la mattina seguente di levarsi più di buon'ora per rimettersi allo studio, ma bastava la notte a ripiombarla nella solita inerzia.
Sospenderle no, ma che le lezioni le dispiacessero lo si vedeva dalla premura con la quale approfittava di ogni pretesto per risparmiarsene una o l'altra. Una sera aveva da andare da una sua amica, molte altre, in mancanza di meglio, si sentiva poco bene. Gustavo una sera, vedendo che fingeva di essere triste e svogliata dacché era venuto Alfonso, non messo a parte dello scopo della malattia, le chiese:
- Così improvvisamente ti ammali?
Non occorreva di questo avvertimento ad Alfonso per fargli sapere quale amore allo studio egli avesse saputo infondere nella sua scolara, ma non gli dispiaceva di venir temuto.
Una volta Lucia ebbe il coraggio di rifiutarsi di prendere lezione e ciò senz'addurre...
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