[Pagina precedente]...na di vacanza, se ne ha bisogno.
Alfonso non accettò subito e dovette alla sera andare a chiedere a Cellani quello che alla mattina aveva rifiutato.
Alquanto bruscamente anche Sanneo gli accordò il chiesto permesso. Già da parecchio tempo aveva dovuto dare un aiutante ad Alfonso nella persona di certo Carlo Alchieri tenente d'artiglieria, pensionato per debolezza di petto. Era entrato da Maller non bastandogli per vivere la piccola pensione che gli era stata accordata. Era un giovane dal volto da vecchio con barba intera d'un colore indeciso; all'apparenza del resto era robusto. Fu l'unico a bestemmiare allorché udì del permesso accordato ad Alfonso. Era spaventato perché sapeva che gli sarebbe toccato di sopportare tutto il lavoro da solo. Sanneo non era uomo da togliere gli altri corrispondenti dalle loro occupazioni abituali per dare aiuto ad uno temporaneamente ammazzato dal lavoro, - naturalmente - come si esprimeva Sanneo, cioè senza suo intervento, per il fatto che l'impiegato conciato in questo modo era supplente, rango ufficiale, dell'impiegato che mancava.
Bastò l'uscire all'aria aperta sapendo di poterci rimanere per parecchio tempo e di esserci per scopo di salute per togliere Alfonso alla sua inerzia. Aveva intero il desiderio di riconquistare la salute. Fino ad allora non s'era doluto del suo indebolimento sembrandogli come a certi religiosi dell'India che l'annientamento della materia apporti necessariamente un aumento dell'intelligenza. Ma non era da intelligente quello stato di noia in cui le cose gli apparivano monotone e grigie.
Il sole s'era appena levato che con violento sforzo di volontà Alfonso balzò dal letto. Non sapeva dove andrebbe e il caso lo avrebbe condotto; di montagne intorno alla città non ne mancavano.
Si propose da prima di seguire una compagnia di soldati che uscivano all'esercizio. Il suono del loro passo pesante e misurato sul selciato lo infastidì. Salì la via Stadion quasi di corsa per allontanarsi da essi che seguivano la stessa via. Voleva giungere all'altipiano. La fatica per quel primo giorno sarebbe stata bastante. Non aveva passato ancora le ultime case della città , dall'aspetto da villaggio, basse, qualcuna col fienile, colorite con colori vivaci per quanto poco puri, e aveva già mutato idea. Desiderava il verde del colle che giaceva alla sua destra, non il paesaggio sconsolante dell'altipiano. Varcò su un ponte di legno un torrente dal letto largo ma quasi asciutto; soltanto una piccola vena d'acqua limpida correva la sua via capricciosa in mezzo alle pietre bianche. Attraversò dall'altra parte un viale largo e sotto ai suoi piedi finalmente sentì la terra nuda, l'erba viva cedere al suo peso. Già stanco e affannato si gettò a terra. Si trovava in un boschetto di alberelli giovani dai tronchi sottili ma dalle corone abbastanza ricche mormoranti nella brezza mattutina. A questo rumore si univa il mormorìo di una piccola caduta d'acqua in un serbatoio, una casetta bassa distante da lui di pochi passi.
Lo riprese il desiderio di correre, l'ambizione di giungere lontano. Salendo, gli alberi divenivano più fitti e più robusti. Qua e là gli arbusti gl'impedivano il passo ed egli si faceva la via correndo con impazienza febbrile. Non sapeva più il passo calmo dell'uomo forte. Varcò un altro viale ed un altro boschetto sempre salendo senza meta. Il sangue gli turbinava nella testa e gli mancava il fiato, ma non si lasciò costringere che a brevissime pause. La stanchezza non lo vinse che dinanzi ad un'alta muraglia che gli chiudeva il passaggio. Saliva da meno di un'ora e si gettò a terra sfinito; il riposo gli sembrava ora ben meritato.
Per parecchi minuti gli durò la fatica greve che lo spaventò per il violento battito del cuore e alle tempie. Si levò la giubba, la stese sotto al suo capo e si coricò accanto ad una quercia. Poco dopo, pur continuando l'agitazione nel sangue, i polmoni gli si aprirono ad un profondo respiro. Da molto tempo non aveva respirato così profondamente. Guardò il piccolo prato intorno a sé e vedendolo così chiaro, verde, ridente, ne godette come se fosse stato suo, destinato a sua abitazione. Un lembo della città era visibile. Una ventina di case ammucchiate, poi altre singole sparse sul colle dirimpetto. In fondo un pezzo di mare azzurro con barche immobili. Il cielo chiaro senza nubi fino all'orizzonte, il verde della campagna, quelle case gettate là a caso gli ricordavano un'oleografia in cui i colori erano stati eguagliati dalla macchina, l'idea del pittore diminuita nella riproduzione e scomparsa la vita, il movimento.
S'addormentò come un bambino, sorridente e coi pugni chiusi.
Sognò fantasticamente di Maria. La riconobbe a certo vestito dai colori vivaci. Gli diceva ch'ella già sapeva ch'egli all'appuntamento non aveva potuto venire per forza maggiore. Lo scusava e l'amava.
69
VIII
Alchieri agitato e smanioso, un fascio di carte in mano, correva verso la cassa quando vide Alfonso che col cappello in mano entrava da Sanneo ad annunziargli che ritornava all'ufficio. Diede un grido di gioia, volle fermare Alfonso che passò oltre senza accorgersi di lui, poi, immediatamente tranquillato sedette accanto a Giacomo, d'ispezione sul corridoio e tutto intento a compitare a mezza voce un giornale. Non trovando altri, fu a lui che Alchieri raccontò che da quindici giorni era la prima volta che egli si sedeva per riposare e non per scrivere.
Sanneo salutò Alfonso con cordialità e ritornando ad un enorme registro su cui gettava i suoi larghi caratteri gli chiese se stesse bene. Senz'attendere la risposta, a frasi interrotte dal lavoro che ad intervalli richiamava tutta la sua attenzione, gli parlò di alcune lettere che aveva lasciato in sospeso ma cui bisognava rispondere quanto prima possibile. Poi gliene consegnò alcune accompagnandole di spiegazioni che Alfonso non comprese che a mezzo. Sanneo si riferiva a cose avvenute prima della sua assenza, epoca che ad Alfonso sembrava lontana ben più di quindici giorni. Lo congedò con una buona nuova:
- Continuerà a farsi aiutare dal signor Alchieri che lavora benino... mi pare.
Alchieri lo fermò sul corridoio. Voleva abbracciarlo per ringraziarlo ch'era ritornato precisamente come aveva promesso:
- Non ne potevo più.
Poi anch'egli si mise a spiegargli degli affari e là , sul corridoio, gli consegnò tutte le lettere che egli aveva in mano per guardare dei saldi di conti o per avvisare delle tratte. Non vedeva l'ora di liberarsene.
Con quelle lettere in una mano, il cappello nell'altra, Alfonso andò a salutare Cellani.
Lo trovò che stava aprendo la posta. Con delle enormi forbici, con un solo taglio, apriva una parte della copertina, ne toglieva il contenuto che gettava da una parte e, prima di deporre la copertina, per prudenza, la guardava contro la luce. Anch'egli continuò a lavorare pur parlando con Alfonso, ma quando questi, sempre con la sua abituale timidezza, disse un grazie rammentando che il permesso lo doveva a lui, si alzò, e sul volto pallido un sorriso amichevole, andò a stringergli la mano. Sembrava che la sua figura lunga da sportsman in riposo, elegante ma debole, venisse portata più che muoversi da sola, tanto poca energia c'era nei suoi movimenti e tanto esattamente, senza esitazioni, passò per un piccolo spazio fra tavolo e sedia.
- Lei ha una cera bellissima - disse ad Alfonso guardandolo quasi con invidia nel volto toccato dal sole. Aveva fretta di ritornare al suo posto. Stringendogli ancora una volta la mano, gli disse ridendo: - Adesso... - e con la penna nella sinistra accennò di scrivere con grande rapidità .
Alfonso trovò che Alchieri aveva diminuito i suoi sospesi e sedendo al suo posto incuorato dalla gentile accoglienza di Cellani si propose di definirli e di non lasciare che altri se ne accumulassero. In soli quindici giorni, Alchieri, che usciva da una caserma, aveva introdotto nel lavoro un sistema preferibile di molto a quello di Alfonso e ad Alfonso fu facile, almeno per il primo tempo, di conservarlo. La maggiore tranquillità nel suo organismo rinforzato dall'aria aperta lo rendeva capace di un'attenzione maggiore per quanto sempre forzata.
Anche essendo in ufficio continuava la sua cura d'aria aperta come egli la chiamava. Faceva ogni mattina una passeggiata di più ore e solitamente verso l'altipiano perché gli occorreva la fatica della salita. Col suo passo misurato, l'aveva riconquistato, percorreva tutta la lunga strada d'Opicina spaziosa e comoda, la quale, lunghissima, con debole salita, in un solo giro, enorme semicerchio intorno alla città , lo portava sino all'altipiano. Alfonso riposava ove da questa via si staccava un viottolo verso Longera.
Di là vedeva il vasto altipiano muto e deserto con le sue innumerevoli piccole colline di sassi, di tutte le forme, appuntite, rotonde, appiattate, mucchi di sassi piovuti dall'alto e disposti dal caso che aveva fabbricato anche lo stesso monte Re all'orizzonte, con la sua larga schiena e la dolce salita da una parte, dall'altra la caduta perpendicolare quasi.
Alfonso non varcava mai quel punto e ciò non soltanto perché il tempo gli mancava. Di là vedeva anche la città con le sue case bianche, il mare abitualmente tanto calmo di mattina come se le poche ore di giorno non fossero ancora bastate a destarlo. Il verde dei promontori a sinistra della città ed il colore del mare contrastavano singolarmente con i sassi grigi dell'altipiano.
Scendeva in città quieto come in altri tempi non lo era stato che uscendo dalla biblioteca. Passava senza entrarvi accanto a Longera, un villaggio oblungo, già quasi a valle, il quale si stringeva al monte come se vi cercasse riparo, le sue casette ammonticchiate, quando facilmente avrebbe trovato aria e spazio invadendo i campi circostanti. Nelle strade del villaggio a quell'ora cominciava il formicolìo e da lontano si vedevano accennate tutte le esteriorità dell'attività e dei destini umani in quelle poche figure che si movevano per le stradicciuole del piccolo luogo. La rapida corsa di un giovinetto che Alfonso poté seguire da un lato all'altro del villaggio, l'uscita dalla sua casa di un contadino in cappello e che prima di muoversi, con tutta calma esaminava il cielo forse per sapere se dovesse prendere seco anche l'ombrello; in una stradicciuola più remota un uomo e una donna che cianciavano insieme forse già a quell'ora d'amore; in un cortile si batteva del grano e là c'era tanto movimento che da lontano poteva prendersi per allegria. Poi Alfonso passava per il ridente San Giovanni con le sue case sparse, la sua chiesuola bianca, di settimana vuota e abbandonata, di domenica tanto piena che tutti i devoti non ci capivano e le contadinelle vestite di lana nera marginata di larghe fascie di seta azzurra o rossa ingombravano il piccolo piazzale e facevano le loro devozioni all'aperto.
Il nuovo metodo di vita di Alfonso era dannoso ai suoi studi perché il primo risultato del suo spesso aggirarsi all'aria aperta fu il bisogno di quest'aria e l'incapacità di rimanere a lungo in quella rinserrata. Talvolta, uscito dall'ufficio si avviava verso la biblioteca, ma di rado sapeva vincere la sua ripugnanza fino a restarci oltre mezz'ora; lo prendeva un'inquietezza invincibile che lo portava all'aperto a incantarsi su qualche molo, senza idee e senza sogni, unica preoccupazione quella di assorbire molto di quella brezza marina di cui s'immaginava di sentire immediati i benefici effetti.
Poi se ne andava a casa e ancora a cena aveva talvolta il proposito di passare la notte su qualche libro, ma la stanchezza lo vinceva e dormiva le nove, dieci ore di sonno tranquillo, benefico tanto che non sapeva averne rimorso.
Eppure fu precisamente allora che la sua ambizione si concretò nel sogno di un successo. Aveva trovata la sua via! Avrebbe lui fondato la moderna filosofia italiana con la traduzione di un buon lavoro tedesco e nello stesso tempo con un suo lavoro originale. La traduzione rimase puramente allo stato di proposito, ma fece qualche cosa del lavoro original...
[Pagina successiva]