[Pagina precedente]...enza; con uno o più nomi alla volta, e anche con diversi casi in uno stesso luogo; con uno o più infiniti di altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso; co' gerundi; con questo o quell'avverbio, o particella (che, se, quanto ec.); e così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall'inusitato, e in somma alla bellezza del discorso, [1334]ma anche sommamente all'utilità , moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua, servendo a distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la significazione, e modificarla; potendo l'italiano esprimere facilissimamente e chiaramente, mille cose nuove con parole vecchie nuovamente modificate, ma modificate secondo il preciso gusto della lingua ec. Questa facoltà l'hanno e l'ebbero qual più qual meno tutte le lingue colte, essendo necessaria, ma la nostra lingua in ciò pure, non cede forse e senza forse nè alla greca nè alla latina, e vince tutte le moderne. E l'è tanto propria una decisa singolarità e preminenza in questa facoltà , che forma uno de' principali ed essenziali caratteri della lingua italiana formata e applicata alla letteratura. Come dunque vogliamo spogliarla di questo suo carattere proprissimo, e dell'utilità che ne risulta? Come vorremo negare agli scrittori italiani la facoltà di continuare a servirsene? Se essa fu data alla lingua da' suoi fondatori e formatori ec. E se del tal uso della tal parola non si troverà esempio nel Vocabolario, dovrà condannarsi, quantunque si abbiano mille esempi perfettamente simili e della stessa natura in altre parole, e quantunque il detto uso sia perfettamente d'accordo colla detta facoltà della lingua, e colla sua indole? Perchè una lingua viva dovrà perdere le sue facoltà , che sole in lei [1335]sono proprietà vive e feconde, e conservare solamente il materiale delle parole e modi già usati e registrati, che sono proprietà sterili, e rispetto alle dette facoltà , proprietà morte? Che matta pedanteria si è questa di giudicare di una parola o di un modo, non coll'orecchio nè coll'indole della lingua, ma col Vocabolario? vale a dire non coll'orecchio proprio, ma cogli altrui. Anzi colla pura norma del caso. Giacchè gli è mero caso che gll antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal modo ec. e che avendola pure usata, sia stata o no registrata e avvertita da' Vocabolaristi. Ma non è caso ch'essi abbiano data o non data alla lingua la facoltà di usarla ec. e che quella voce, forma ec. convenga o non convenga colle proprietà della lingua da loro formata, e col suo costume. ec. E questo non si può giudicare col Vocabolario, ma coll'orecchio formato dalla lunga ed assidua lettura e studio non del Vocabolario ma de' Classici, e pieno e pratico, e fedele interprete e testimonio dell'indole della lingua, sola solissima norma per giudicare di una voce o modo dal lato della purità e del poterlo usare ec. E questa fu l'unica guida di tutti quanti i Classici scrittori [1336]sì di tutte le lingue, come della nostra prima del Vocabolario, dal quale che effetto sia risultato in ordine alla stessa purità dello scrivere, e quanto egli abbia giovato alla conservazione della purità della favella, a cui pare che dovesse principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol. della Proposta.
Io qui non intendo solamente difendere i nuovi usi delle parole (nel rispetto soprannotato) che si fa per sola utilità , ma quello pure che si fa per mera eleganza, senza necessità veruna, ma serve colla sua novità , a dare alla locuzione ec. ec. quell'aria di pellegrino, e quel non so che di temperatamente inusitato, e diviso dall'ordinario costume, da cui deriva l'eleganza ec.
(17. Luglio 1821.)
In proposito e in prova di quanto ho detto p.1322.-28. che la grazia deriva dallo straordinario medesimo, che quando è troppo, per un verso o per un altro, cagiona l'effetto opposto; osservate che l'inusitato nelle scritture nella lingua, nello stile, è fonte principalissima di affettazione di sconvenienza, di barbarie, d'ineleganza, e di bruttezza; e l'inusitato è pur l'unica fonte dell'eleganza. V. il Monti Proposta ec. vol.1. par.1. Append. p.215. sotto il mezzo [1337]- seg. e la p.1312. capoverso ult.
(17. Luglio 1821.)
Alla p.1312. marg. Per l'indeterminato può servir di esempio Virg. En. 1.465. Sunt lacrimae rerum: et mentem mortalia tangunt. Quanto all'irregolare, abbiamo veduto p.1322-28. e nel pensiero superiore, che l'eleganza propriamente detta deriva sempre dal pellegrino e diviso dal comun favellare, il che per un verso o per un altro è sempre qualcosa d'irregolare, sia perchè quella parola è forestiera, e quindi è, non dirò contro le regole, ma irregolare, o fuor delle regole l'usarla; sia perchè quel modo è nuovamente fabbricato comunque si voglia ec. Ed osservate che, escluso sempre l'eccesso, il quale produce il contrario dell'eleganza, dentro i limiti di quella irregolarità che può essere elegante, la eleganza maggiore o minore, è bene spesso e si sente, in proporzione della maggiore o minore irregolarità . Ciò non solo quanto alla lingua, ma allo stile ec. Nell'ordine non v'è mai eleganza propriamente detta. Vi sarà armonia, simmetria ec. ma l'eleganza nel puro e rigoroso ordine non può stare. Nè vi può star la natura, ma la ragione, che l'ordine è sempre segno di ragione in qualunque cosa.
(17. Luglio 1821.)
[1338]Alla p.1113. mezzo. Habitare che nel suo significato metaforico, (divenuto da gran tempo proprio) di abitare (notate che si usa spesso attivamente coll'accusativo e passivamente) è manifestamente continuativo e non frequentativo, viene da habitus di habere. V. il Forcellini.
(17. Luglio 1821.)
Perchè la medicina ha fatto da Ippocrate in qua meno progressi, e sofferto meno cangiamenti essenziali che, possiamo dire, qualunque altra scienza, in pari spazio di tempo; e quindi conservasi forse più vicina di ogni altra alla condizione e misura ec. in cui venne dalla Grecia; perciò quella parte della sua nomenclatura che si compone di vocaboli greci, è forse maggiore che in qualsivoglia altra scienza o disciplina, ragguagliatamente e proporzionatamente parlando. Non dico niente della Rettorica ec.
(17. Luglio 1821.). V. p.1403.
Gli Ebrei pongono o suppongono uno sceva semplice (cioè una e muta che non fa sillaba) espresso o sottinteso sotto, cioè dopo, tutte le consonanti che non hanno altra vocale, sia nel principio, nel mezzo o nel fine delle voci. Ragionevolmente perchè i nostri organi cadono naturalmente in una leggerissima e, non solo pronunziando una consonante isolata, o una parola terminata per consonante, e non seguita [1339]subito da parola cominciante per vocale, ec. ma anche nel pronunziare due o più consonanti di seguito in una stessa parola, come TRAvaglio ec. quella o quelle consonanti che non hanno altra vocale, s'appoggiano insensibilmente in una e tenuissima; e non possono mai nudamente e puramente addossarsi alla consonante che segue. Eccetto quando quelle due o più consonanti fanno un tal suono che benchè rappresentato con più caratteri, è però effettivamente uno solo, ed equivale ad una sola lettera; (lettera non rappresentata nell'alfabeto distintamente; e ve ne sono parecchie; del che v. gli altri pensieri sulla ricchezza dell'alfabeto naturale pronunziato) come le consonanti doppie (tuTTo), come nella suddetta voce travaglio, le consonanti g ed l ec. Non così nell'x benchè rappresentato con un solo carattere. ec.
(17. Luglio 1821.)
Alla p.1257. Insomma questa idea benchè entri subito nel bello ideale, è figlia della madre comune di tutte le idee, cioè dell'esperienza che deriva dalle nostre sensazioni, e non già di un insegnamento e di una forma ispirataci e impressaci dalla natura nella mente avanti l'esperienza, il che non è più bisogno dimostrare dopo Locke. Ma quello che mi tocca provare si è, che queste sensazioni, sole nostre maestre, c'insegnano che le cose stanno così, perchè così stanno, e [1340]non perchè così debbano assolutamente stare, cioè perch'esista un bello e un buono assoluto ec. Questo noi lo deduciamo pure dalle nostre sensazioni, (e lo deduciamo naturalmente, come ne deduciamo naturalmente le idee innate, della quale opinione questa è una conseguenza) ma questo è ciò che non ne possiamo dedurre; e non possiamo, appunto perchè tutto ci è insegnato dalle sole sensazioni, le quali sono relative al puro modo di essere ec. e perchè nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore all'esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà , bellezza, perfezione assoluta, e de' loro contrarii. Vale a dire di una perfezione ec. la quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendente da loro. Or dov'esiste questa ragione, questa forma? e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogn'idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il buono assoluto, è tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v'è altra possibile [1341]ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà , da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose fra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente.
(17. Luglio 1821.)
In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacchè nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v'è ragione assoluta perch'ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v'è ragione assoluta perchè una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v'è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità , nè differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili.
Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, nè mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi nè potendo avere il menomo [1342]dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio, attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo perfezione, e la necessità non solamente di essere ma di essere in quel tal modo, che noi giudichiamo assolutamente perfettissimo. Ma queste perfezioni, son tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in un solo dei sistemi possibili; anzi solamente in alcune parti di esso, in altre no, come ho provato in tanti altri luoghi: e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma relativamente: nè sono perfezioni in se stesse, e separatamente considerate, ma negli esseri a' quali appartengono, e relativamente alla loro natura, fine ec. nè sono perfezioni maggiori o minori di qualunque altra ec. e quindi non costituiscono l'idea di un ente assolutamente perfetto, e superiore in perfezione a tutti gli enti possibili; ma possono anche essere imperfezioni, e talora lo sono, pure relativamente ec. Anche la necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio.
(18. Luglio 1821.)
Il nostro gli, il nostro gn, e simili suoni, sono distinti da tutti gli altri, e volendo esattamente rappresentarli converrebbe farlo...
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