LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 2
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- Oh sai! - disse il Pogliani, risoluto, senza lasciarlo.
- Io non lo faccio; non lo farai neanche tu, e non lo farà nessuno dei due...
- Ma, scusino...
insieme? - propose allora la madre.
- Non potrebbero insieme?
- Sono dolente d'aver cagionato...
- si provò ad aggiungere la signorina.
- Ma no! - dissero a un tempo il Colli e il Pogliani.
Seguitò il Colli:
- Io non c'entro piú per nulla, signorina! E poi, guardi, non ho piú studio, non so piú concluder nulla, altro che di dire male parole a tutti quanti...
Lei deve assolutamente costringere quest'imbecille qua...
- È inutile, sai? - disse il Pogliani.
- O insieme, come propone la signora, o io non accetto.
- Permette, signorina? - fece allora il Colli, stendendo una mano verso il rotolo di carta ch'ella teneva accanto sul canapè.
- Mi muojo dal desiderio di veder il suo disegno.
Quando l'avrò veduto...
- Oh, non s'immagini nulla di straordinario, per carità! - premise la signorina Consalvi, svolgendo con le mani tremolanti il rotolo.
- So tenere appena la matita...
Ho buttato giú quattro segnacci, tanto per render l'idea...
ecco...
- Vestita?! - esclamò subito il Colli, come se avesse ricevuto un urtone guardando il disegno.
- Come...
vestita? - domandò, timida e ansiosa la signorina.
- Ma no, scusi! - riprese con calore il Colli.
- Lei ha fatto la Vita in camicia...
cioè, con la tunica, diciamo! Ma no, nuda, nuda, nuda! la Vita dev'esser nuda, signorina mia, che c'entra!
- Scusi, - disse con gli occhi bassi, la signorina Consalvi.
- La prego di guardar piú attentamente.
- Ma sí, vedo, - replicò con maggior vivacità il Colli.
- Lei ha voluto raffigurarsi qua, ha voluto fare il suo ritratto; ma lasciamo andare che Lei è molto piú bella; qua siamo nel campo...
nel camposanto dell'arte, scusi! e questa vuol essere la Vita che si sposa alla Morte.
Ora, se lo scheletro è panneggiato, la Vita dev'esser nuda, c'è poco da dire; tutta nuda e bellissima, signorina, per compensare col contrasto la presenza macabra dello scheletro involto! Nuda, Pogliani, non ti pare? Nuda, è vero, signora? Tutta nuda, signorina mia! Nudissima, dal capo alle piante! Creda pure che altrimenti, cosí, verrebbe una scena da ospedale: quello col lenzuolo, questa con l'accappatojo...
Dobbiamo fare scultura, e non c'è ragioni che tengano!
- No, no, scusi, - disse la signorina Consalvi alzandosi con la madre.
- Lei avrà forse ragione, dal lato dell'arte; non nego, ma io voglio dire qualche cosa, che soltanto cosí potrei esprimere.
Facendo come vorrebbe Lei, dovrei rinunciarvi.
- Ma perché, scusi? perché Lei vede qua la sua persona e non il simbolo, ecco! Dire che sia bello, scusi, non si potrebbe dire...
E la signorina:
- Niente bello, lo so; ma appunto come dice lei, non il simbolo ho voluto rappresentare, ma la mia persona, il mio caso, la mia intenzione, e non potrei che cosí.
Penso poi anche al luogo dove il monumento dovrà sorgere...
Insomma, non potrei transigere.
Il Colli aprí le braccia e s'insaccò nelle spalle.
- Opinioni!
- O piuttosto, - corresse la signorina con un dolce, mestissimo sorriso, - un sentimento da rispettare!
Stabilirono che i due amici si sarebbero intesi per tutto il resto col commendator Seralli, e poco dopo la signora Consalvi e la figliuola in gramaglie tolsero commiato.
Ciro Colli - due passetti - trallarallèro trallarallà - girò sopra un calcagno e si fregò le mani.
Circa una settimana dopo, Costantino Pogliani si recò in casa Consalvi per invitar la signorina a qualche seduta per l'abbozzo della testa.
Dal commendator Seralli, amico molto intimo della signora Consalvi, aveva saputo che il Sorini, sopravvissuto tre giorni allo sciagurato incidente, aveva lasciato alla fidanzata tutta intera la cospicua fortuna ereditata dal padre, e che però quel monumento doveva esser fatto senza badare a spese.
Epuisé s'era dichiarato il commendator Seralli delle cure, dei pensieri, delle noje che gli eran diluviati da quella sciagura; noje, cure, pensieri, aggravati dal caratterino un po'...
emporté, voilà, della signorina Con salvi, la quale, sí, poverina, meritava veramente compatimento; ma pareva, buon Dio, si compiacesse troppo nel rendersi piú grave la pena.
Oh, uno choc orribile, chi diceva di no? un vero fulmine a ciel sereno! E tanto buono lui, il Sorini, poveretto! Anche un bel giovine, sí.
E innamoratissimo! La avrebbe resa felice senza dubbio, quella figliuola.
E forse per questo era morto.
Pareva anche fosse morto e fosse stato tanto buono per accrescer le noje del commendator Seralli.
Ma figurarsi che la signorina non aveva voluto disfarsi della casa, che egli, il fidanzato, aveva già messa sú di tutto punto: un vero nido, un joli rêve de luxe et de bien-être.
Ella vi aveva portato tutto il suo bel corredo da sposa, e stava lí gran parte del giorno, a piangere, no; a straziarsi fantasticando intorno alla sua vita di sposina cosí miseramente stroncata...
arrachée...
Difatti il Pogliani non trovò in casa la signorina Consalvi.
La cameriera gli diede l'indirizzo della casa nuova, in via di Porta Pinciana.
E Costantino Pogliani, andando, si mise a pensare all'angosciosa, amarissima voluttà che doveva provare quella povera sposina, già vedova prima che maritata, pascendosi nel sogno - lí quasi attuato - d'una vita che il destino non aveva voluto farle vivere.
Tutti quei mobili nuovi, scelti chi sa con quanta cura amorosa da entrambi gli sposini, e festivamente disposti in quella casa che tra pochi giorni doveva essere abitata, quante promesse chiudevano?
Riponi in uno stipetto un desiderio: àprilo: vi troverai un disinganno.
Ma lí, no: tutti quegli oggetti avrebbero custodito, con le dolci lusinghe, i desiderii e le promesse e le speranze.
E come dovevano esser crudeli gl'inviti che venivano alla sposina da quelle cose intatte attorno!
- In un giorno come questo! - sospirò Costantino Pogliani.
Si sentiva già nella limpida freschezza dell'aria l'alito della primavera imminente; e il primo tepore del sole inebriava.
Nella casa nuova, con le finestre aperte a quel sole, povera signorina Consalvi, chi sa che sogni e che strazio!
La trovò che disegnava, innanzi a un cavalletto, il ritratto del fidanzato.
Con molta timidezza lo ritraeva ingrandito da una fotografia di piccolo formato, mentre la madre, per ingannare il tempo, leggeva un romanzo francese della biblioteca del commendator Seralli.
Veramente la signorina Consalvi avrebbe voluto star sola lí, in quel suo nido mancato.
La presenza della madre la frastornava.
Ma questa, temendo fra sé che la fanciulla, nell'esaltazione, si lasciasse andare a qualche atto di romantica disperazione, voleva seguirla e star lí, gonfiando in silenzio e sforzandosi di frenar gli sbuffi per quell'ostinato capriccio intollerabile.
Rimasta vedova giovanissima, senza assegnamenti, con quell'unica figliuola, la signora Consalvi non aveva potuto chiuder le porte alla vita e porvi il dolore per sentinella come ora pareva volesse fare la figliuola.
Non diceva già che Giulietta non dovesse piangere per quella sua sorte crudele; ma credeva, come il suo intimo amico commendator Seralli, credeva che...
ecco, sí, ella esagerasse un po' troppo e che, avvalendosi della ricchezza che il povero morto le aveva lasciata, volesse concedersi il lusso di quel cordoglio smodato.
Conoscendo pur troppo le crude e odiose difficoltà dell'esistenza, le forche sotto alle quali ella, ancora addolorata per la morte del marito, era dovuta passare per campar la vita, le pareva molto facile quel cordoglio della figliuola; e le sue gravi esperienze glielo facevano stimare quasi una leggerezza scusabile, sí, certamente, ma a patto che non durasse troppo...
- voilà, come diceva sempre il commendator Seralli.
Da savia donna, provata e sperimentata nel mondo, aveva già, piú d'una volta, cercato di richiamare alla giusta misura la figliuola - invano! Troppo fantastica, la sua Giulietta aveva, forse piú che il sentimento del proprio dolore, l'idea di esso.
E questo era un gran guajo! Perché il sentimento, col tempo, si sarebbe per forza e senza dubbio affievolito, mentre l'idea no, l'idea s'era fissata e le faceva commettere certe stranezze come quella del monumento funerario con la Vita che si marita alla Morte (bel matrimonio!) e quest'altra qua della casa nuziale da serbare intatta per custodirvi il sogno quasi attuato d'una vita non potuta vivere.
Fu molto grata la signora Consalvi al Pogliani di quella visita.
Le finestre erano aperte veramente al sole, e la magnifica pineta di Villa Borghese, sopra l'abbagliamento della luce che pareva stagnasse su i vasti prati verdi, sorgeva alta e respirava felice nel tenero limpidissimo azzurro del cielo primaverile.
Subito la signorina Consalvi accennò di nascondere il disegno, alzandosi; ma il Pogliani la trattenne con dolce violenza.
- Perché? Non vuol lasciarmi vedere?
- È appena cominciato...
- Ma cominciato benissimo! - esclamò egli, chinandosi a osservare.
- Ah, benissimo...
Lui, è vero? il Sorini...
Già, ora mi pare di ricordarmi bene, guardando il ritratto.
Sí, sí...
L'ho conosciuto...
Ma aveva questa barbetta?
- No, - s'affrettò a rispondere la signorina.
- Non l'aveva piú ultimamente.
- Ecco, mi pareva...
Bel giovine, bel giovine...
- Non so come fare, - riprese la signorina.
- Perché questo ritratto non risponde...
non è piú veramente l'immagine che ho di lui, in me.
- Eh sí, - riconobbe subito il Pogliani, - meglio, lui, molto piú...
piú animato, ecco...
piú sveglio, direi...
- Se l'era fatto in America, codesto ritratto, - osservò la madre, - prima che si fidanzassero, naturalmente...
- E non ne ho altri! - sospirò la signorina.
- Guardi: chiudo gli occhi, cosí, e lo vedo preciso com'era ultimamente; ma appena mi metto a ritrarlo, non lo vedo piú: guardo allora il ritratto, e lí mi pare che sia lui, vivo.
Mi provo a disegnare, e non lo ritrovo piú in questi lineamenti.
È una disperazione!
- Ma guarda, Giulia, - riprese allora la madre, con gli occhi fissi sul Pogliani, - tu dicevi la linea del mento, volendo levare la barba...
Non ti pare che qua nel mento, il signor Pogliani...
Questi arrossí, sorrise.
Quasi senza volerlo, alzò il mento, lo presentò; come se con due dita, delicatamente, la signorina glielo dovesse prendere per metterlo lí, nel ritratto del Sorini.
La signorina levò appena gli occhi a guardarglielo, timida e turbata.
(Non aveva proprio alcun riguardo per il suo lutto, la madre!)
- E anche i baffi, oh! Guarda!...
- aggiunse la signora Consalvi, senza farlo apposta.
- Li portava cosí ultimamente il povero Giulio, non ti pare?
- Ma i baffi, - disse, urtata, la signorina, - che vuoi che siano? Non ci vuol niente a farli!
Costantino Pogliani, istintivamente, se li toccò.
Sorrise di nuovo.
Confermò:
- Niente, già...
S'accostò quindi al cavalletto e disse:
- Guardi, se mi permette...
vorrei farle vedere, signorina...
Cosí, in due tratti, qua...
non s'incomodi, per carità! qua in quest'angolo...
(poi si cancella)...
com'io ricordo il povero Sorini.
Sedette e si mise a schizzare, con l'ajuto della fotografia, la testa del fidanzato, mentre dalle labbra della signorina Consalvi, che seguiva i rapidi tocchi con crescente esultanza di tutta l'anima protesa e spirante, scattavano di tratto in tratto certi sí...
sí...
sí....
che animavano e quasi guidavano la matita.
Alla fine, non poté piú trattenere la propria commozione:
- Sí, oh guarda, mamma...
è lui...
preciso...
oh, lasci...
grazie...
Che felicità, poter cosí...
è perfetto...
è perfetto...
- Un po' di pratica, - disse, levandosi, il Pogliani, con umiltà che lasciava trasparire il piacere per quelle vivissime lodi.
- E poi, le dico, lo ricordo tanto bene, povero Sorini...
La signorina Consalvi rimase a rimirare il disegno, insaziabilmente.
- Il mento, sí...
è questo...
preciso...
Grazie, grazie...
In quel punto il ritrattino del Sorini che serviva da modello, scivolò dal cavalletto, e la signorina, ancora tutta ammirata nello schizzo del Pogliani, non si chinò a raccoglierlo.
Lí per terra, quell'immagine già un po' sbiadita apparve piú che mai malinconica, come se comprendesse che non si sarebbe rialzata mai piú.
Ma si chinò a raccoglierla il Pogliani, cavallerescamente.
- Grazie, - gli disse la signorina.
- Ma io adesso mi servirò del suo disegno, sa? Non lo guarderò piú, questo brutto ritratto.
E d'improvviso, levando gli occhi, le sembrò che la stanza fosse piú luminosa.
Come se quello scatto d'ammirazione le avesse a un tratto snebbiato il petto da tanto tempo oppresso, aspirò con ebbrezza, bevve con l'anima quella luce ilare viva, che entrava dall'ampia finestra aperta all'incantevole spettacolo della magnifica villa avvolta nel fascino primaverile.
Fu un attimo.
La signorina Consalvi non poté spiegarsi che cosa veramente fosse avvenuto in lei.
Ebbe l'impressione improvvisa di sentirsi come nuova fra tutte quelle cose nuove attorno.
Nuova e libera; senza piú l'incubo che l'aveva soffocata fino a poc'anzi.
Un alito, qualche cosa era entrata con impeto da quella finestra a sommuovere tumultuosamente in lei tutti i sentimenti, a infondere quasi un brillío di vita in tutti quegli oggetti nuovi, a cui ella aveva voluto appunto negar la vita, lasciandoli intatti lí, come a vegliare con lei la morte d'un sogno.
E, udendo il giovane elegantissimo sculture con dolce voce lodare la bellezza di quella vista e della casa, conversando con la madre che lo invitava a veder le altre stanze, seguí l'uno e l'altra con uno strano turbamento, come se quel giovine, quell'estraneo, stesse davvero per penetrare in quel suo sogno morto, per rianimarlo.
Fu cosí forte questa nuova impressione, che non poté varcar la soglia della camera da letto; e vedendo il giovine e la madre scambiarsi lí un mesto sguardo di intelligenza, non poté piú reggere; scoppiò in singhiozzi.
E pianse, sí, pianse ancora per la stessa cagione per cui tante altre volte aveva pianto; ma avvertí confusamente che, tuttavia, quel pianto era diverso, che il suono di quei suoi singhiozzi non le destava dentro l'eco del dolore antico, le immagini che prima le si presentavano.
E meglio lo avvertí, allorché la madre accorsa prese a confortarla come tant'altre volte la aveva confortata, usando le stesse parole, le stesse esortazioni.
Non poté tollerarle; fece un violento sforzo su se stessa; smise di piangere; e fu grata al giovine che, per distrarla, la pregava di fargli vedere la cartella dei disegni scorta lí su una sedia a libriccino.
Lodi, lodi misurate e sincere, e appunti, osservazioni, domande, che la indussero a spiegare, a discutere; e infine un'esortazione calda a studiare, a seguir con fervore quella sua disposizione all'arte, veramente non comune.
Sarebbe stato un peccato! un vero peccato! Non s'era mai provata a trattare i colori? Mai, mai? Perché? Oh, non ci sarebbe mica voluto molto con quella preparazione, con quella passione...
Costantino Pogliani si profferse d'iniziarla; la signorina Consalvi accettò; e le lezioni cominciarono il giorno appresso, lí, nella casa nuova, che invitava ed attendeva.
Non piú di due mesi dopo, nello studio del Pogliani, ingombro già d'un colossale monumento funerario tutto abbozzato alla brava, Ciro Colli, sdrajato sul canapè col vecchio camice di tela stretto alle gambe, fumava la pipa e teneva uno strano discorso allo scheletro, fissato diritto su la predellina nera, che s'era fatto prestare per modello da un suo amico dottore.
Gli aveva posato un po' a sghembo sul teschio il suo berretto di carta; e lo scheletro pareva un fantaccino su l'attenti, ad ascoltar la lezione che Ciro Colli, scultore-caporale, tra uno sbuffo e l'altro di fumo gl'impartiva:
- E tu perché te ne sei andato a caccia? Vedi come ti sei conciato, caro mio? Brutto...
le gambe secche...
tutto secco...
Diciamo la verità, ti pare che codesto matrimonio si possa combinare? La vita, caro...
guardala là, ma eh! che tocco di figliolona senza risparmio m'è uscita dalle mani! Ti puoi sul serio lusingare che quella lí ti voglia sposare? Ti s'è accostata, timida e dimessa; lagrime giú a fontana...
ma mica per ricevere l'anello nuziale...
levatelo dal capo! Spèndola, caro, spèndola giú la borsa...
Gliel'hai data? E ora che vuoi da me? Inutile dire, se me lo credevo! Povero mondo e chi ci crede! S'è messa a studiar pittura, la Vita, e il suo maestro sai chi è? Costantino Pogliani.
Scherzo che passa la parte, diciamo la verità.
Se fossi in te, caro mio, lo sfiderei.
Hai sentito stamane? Ordine positivo: non vuole, mi pro-i-bi-sce assolutamente che io la faccia nuda.
Eppure lui, per quanto somaro, scultore è, e sa bene che per vestirla bisogna prima farla nuda...
Ma te lo spiego io il fatto com'è: non vuole che si veda su quel nudo là meraviglioso il volto della sua signorina...
è salito lassú, hai visto? su tutte le furie, e con due colpi di stecca, taf! taf! me l'ha tutto guastato...
sai dirmi perché, fantaccino mio? Gli ho gridato: "Lascia! Te la vesto subito! Te la vesto!".
Ma che vestire! Nuda la vogliono ora...
la Vita nuda, nuda e cruda com'è, caro mio! sono tornati al mio primo disegno, al simbolo: via il ritratto! Tu che ghermisci, bello mio, e lei che non ne vuol sapere...
Ma perché te ne sei andato a caccia? me lo dici?
LA TOCCATINA
I
Col cappellaccio bianco buttato sulla nuca, le cui tese parevano una spera attorno al faccione rosso come una palla di formaggio d'Olanda, Cristoforo Golisch s'arrestò in mezzo alla via con le gambe aperte un po' curve per il peso del corpo gigantesco; alzò le braccia; gridò:
- Beniamino!
Alto quasi quanto lui, ma secco e tentennante come una canna, gli veniva incontro pian piano, con gli occhi stranamente attoniti nella squallida faccia, un uomo sui cinquant'anni, appoggiato a un bastone dalla grossa ghiera di gomma.
Strascicava a stento la gamba sinistra.
- Beniamino! - ripeté il Golisch; e questa volta la voce espresse, oltre la sorpresa, il dolore di ritrovare in quello stato, dopo tanti anni, l'amico.
Beniamino Lenzi batté piú volte le palpebre: gli occhi gli rimasero attoniti; vi passò solamente come un velo di pianto, senza però che i lineamenti del volto si scomponessero minimamente.
Sotto i baffi già grigi le labbra, un po' storte, si spiccicarono e lavorarono un pezzo con la lingua annodata a pronunziare qualche parola:
- O...
oa...
oa sto meo...
cammío..
- Ah bravo...
- fece il Golisch, agghiacciato dall'impressione di non aver piú dinanzi un uomo, Beniamino Lenzi, qual egli lo aveva conosciuto; ma quasi un ragazzo ormai, un povero ragazzo che si dovesse pietosamente ingannare.
E gli si mise accanto e si sforzò di camminare col passo di lui.
(Ah, quel piede che non si spiccicava piú da terra e strisciava, quasi non potesse sottrarsi a una forza che lo tirava di sotto!)
Cercando di dissimulare alla meglio la pena, la costernazione strana che a mano a mano lo vinceva nel vedersi accanto quell'uomo toccato dalla morte, quasi morto per metà e cangiato, cominciò a domandargli dove fosse stato tutto quel tempo, da che s'era allontanato da Roma; che avesse fatto; quando fosse ritornato.
Beniamino Lenzi gli rispose con parole smozzicate quasi inintelligibili, che lasciarono il Golisch nel dubbio che le sue domande non fossero state comprese.
Solo le pàlpebre, abbassandosi frequentemente su gli occhi, esprimevano lo stento e la pena, e pareva che volessero far perdere allo sguardo quel teso, duro, strano attonimento.
Ma non ci riuscivano.
La morte, passando e toccando, aveva fissato cosí la maschera di quell'uomo.
Egli doveva aspettare con quel volto, con quegli occhi, con quell'aria di spaurita sospensione, ch'ella ripassasse e lo ritoccasse un tantino piú forte per renderlo immobile del tutto e per sempre.
- Che spasso! - fischiò tra i denti Cristoforo Golisch.
E lanciò di qua e di là occhiatacce alla gente che si voltava e si fermava a mirar col volto atteggiato di compassione quel pover'uomo accidentato.
Una sorda rabbia prese a bollirgli dentro.
Come camminava svelta la gente per via! svelta di collo, svelta di braccia, svelta di gambe...
E lui stesso! Era padrone, lui, di tutti i suoi movimenti; e si sentiva cosí forte...
Strinse un pugno.
Perdio! Sentí come sarebbe stato poderoso a calarlo bene scolpito su la schiena di qualcuno.
Ma perché? Non sapeva...
Lo irritava la gente, lo irritavano in special modo i giovani che si voltavano a guardare il Lenzi.
Cavò dalla tasca un grosso fazzoletto di cotone turchino e si asciugò il sudore che gli grondava dal faccione affocato.
- Beniamino, dove vai adesso?
Il Lenzi si era fermato, aveva appoggiata la mano illesa a un lampione e pareva lo carezzasse, guardandolo amorosamente.
Biascicò:
- Da dottoe...
Esecíio de piee.
E si provò ad alzare il piede colpito.
- Esercizio? - disse il Golisch.
- Ti eserciti il piede?
- Piee, ripeté il Lenzi.
- Bravo! - esclamò di nuovo il Golisch.
Gli venne la tentazione d'afferrargli quel piede, stringerglielo, prendere per le braccia l'amico e dargli un tremendo scrollone, per scomporlo da quell'orribile immobilità.
Non sapeva, non poteva vederselo davanti, ridotto in quello stato.
Eccolo qua, il compagno delle antiche scapataggini, nei begli anni della gioventú e poi nelle ore d'ozio, ogni sera, scapoli com'eran rimasti entrambi.
Un bel giorno, una nuova via s'era aperta innanzi all'amico, il quale s'era incamminato per essa, svelto anche lui, allora, - oh tanto! - svelto e animoso.
Sissignore! Lotte, fatiche, speranze; e poi, tutt'a un tratto: eccolo qua, com'era ritornato...
Ah, che buffonata! che buffonata!
Avrebbe voluto parlargli di tante cose, e non sapeva.
Le domande gli s'affollavano alle labbra e gli morivano assiderate.
- Ti ricordi, - avrebbe voluto dirgli, - delle nostre famose scommesse alla Fiaschetteria Toscana? E di Nadina, ti ricordi? L'ho ancora con me, sai! Tu me l'hai appioppata, birbaccione, quando partisti da Roma.
Cara figliuola, quanto bene ti voleva...
Ti pensa ancora, sai? mi parla ancora di te, qualche volta.
Andrò a trovarla questa sera stessa e le dirò che t'ho riveduto, poveretto...
È proprio inutile ch'io ti domandi: tu non ricordi piú nulla; tu forse non mi riconosci piú, o mi riconosci appena.
Mentre il Golisch pensava cosí, con gli occhi gonfi di lacrime, Beniamino Lenzi seguitava a guardare amorosamente il lampione e pian piano con le dita gli levava la polvere.
Quel lampione segnava per lui una delle tre tappe della passeggiata giornaliera.
Strascinandosi per via, non vedeva nessuno, non pensava a niente; mentre la vita gli turbinava intorno, agitata da tante passioni, premuta da tante cure, egli tendeva con tutte le forze che gli erano rimaste a quel lampione, prima; poi, piú giú, alla vetrina d'un bazar, che segnava la seconda tappa; e qui si tratteneva piú a lungo a contemplare con gioja infantile una scimmietta di porcellana sospesa a un'altalena dai cordoncini di seta rossa.
La terza sosta era alla ringhiera del giardinetto in fondo alla via, donde poi si recava alla casa del medico.
Nel cortile di quella casa, tra i vasi di fiori e i cassoni d'aranci, di lauro e di bambú, eran disposti parecchi attrezzi di ginnastica, tra i quali alcune pertiche elastiche, fermate orizzontalmente in cima a certi pali tozzi e solidi; pertiche da tornitore, dalla cui estremità pendeva una corda, la quale, dato un giro attorno a un rocchetto, scendeva ad annodarsi a una leva di legno, fermata per un capo al suolo da una forcella.
Beniamino Lenzi poneva il piede colpito su questa leva e spingeva; la pertica in alto molleggiava e brandiva, e il rocchetto, sostenuto orizzontalmente da due toppi, girava per via della corda.
Ogni giorno, mezz'ora di questo esercizio.
E in capo a pochi mesi, sarebbe guarito.
Oh, non c'era alcun dubbio! Guarito del tutto...
Dopo aver assistito per un pezzetto a questo grazioso spettacolo, Cristoforo Golisch uscí dal cortile a gran passi, sbuffando come un cavallo, dimenando le braccia, furibondo.
Pareva che la morte avesse fatto a lui e non al povero Lenzi lo scherzo di quella toccatina lí, al cervello.
N'era rivoltato.
Con gli occhi torvi, i denti serrati, parlava tra sé e ges
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