LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 19
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Ma come farlo intendere al Verona, che non voleva accorgersi neppure della freddezza con cui Silvia, ora, lo accoglieva?
Col crescer degli anni, Ginetta cominciò a dimostrare una passione vivissima per la musica.
Ed ecco il Verona, due, tre volte la settimana, pronto con la vettura per condurre la ragazza a questo e a quel concerto; e spesso, durante la stagione lirica, veniva a congiurar con lei, a metterla sú, perché inducesse con le sue graziette la mamma e il babbo ad accompagnarla a teatro, nel palco già fissato per lei.
Il Lori, angustiato, imbarazzato, sorrideva; non sapeva dir di no, per non scontentare l'amico e la figliuola; ma, santo Dio, il Verona avrebbe dovuto comprendere ch'egli non poteva, cosí spesso: la spesa non era soltanto per il palco e per la vettura: Silvia doveva pure vestirsi bene; non poteva far cattiva figura.
Sí, egli era ormai capo-divisione, aveva già un discreto stipendio; ma non aveva certo denari da buttar via.
Era tanta la passione per quella ragazza, che il Verona non avvertiva a queste cose e non s'avvedeva neppure del sacrifizio che doveva far Silvia, certe sere, rimanendo sola a casa, con la scusa che non si sentiva bene.
E cosí fosse sempre rimasta a casa! Una di quelle sere, ella ritornò dal teatro in preda a continui brividi di freddo.
La mattina dopo tossiva, con una febbre violenta.
E in capo a cinque giorni moriva.
IV
Per la violenza fulminea di quella morte, Martino Lori restò dapprima quasi piú sbigottito che addolorato.
Venuta la sera, il Verona, come urtato da quell'attonimento angoscioso, da quel cordoglio cupo, che minacciava di vanir nell'ebetismo, lo spinse fuori della camera mortuaria, lo forzò a recarsi dalla figlia, assicurandolo che sarebbe rimasto lui, là, a vegliare tutta la notte.
Il Lori si lasciò mandar via; ma poi, a notte alta, silenzioso come un'ombra, ricomparve nella camera mortuaria e vi trovò il Verona con la faccia affondata nella sponda del letto, su cui giaceva rigido e allividito il cadavere.
Dapprima gli parve che, vinto dal sonno, il Verona avesse reclinato lí la testa, inavvertitamente; poi, osservando meglio, s'accorse che il corpo di lui era scosso a tratti, come da singhiozzi soffocati.
Allora il pianto, il pianto che finora non aveva potuto rompergli dal cuore, assalí anche lui furiosamente, vedendo piangere cosí l'amico.
Ma questi, di scatto gli si levò contro, fremente, trasfigurato; e - come egli, convulso, gli tendeva le mani per abbracciarlo - lo respinse, proprio lo respinse con fosca durezza, con rabbia.
Doveva sentirsi in gran parte responsabile di quella sciagura, perché proprio lui, cinque sere prima, aveva forzato Silvia ad andare a teatro, ed ora non gli reggeva l'animo a veder soffrire in quel modo l'amico.
Cosí pensò il Lori, per spiegarsi quella violenza; pensò che il dolore può diversamente su gli animi: certi, li atterra; certi altri li arrabbia.
E né le visite senza fine degli impiegati subalterni, che lo amavano come un padre, né le esortazioni del Verona, che gl'indicava la figliuola smarrita nella pena e costernata per lui, valsero a scuoterlo da quella specie d'annientamento in cui era caduto, quasi che il mistero cupo e crudo di quella morte improvvisa lo avesse circondato, diradandogli tutt'intorno la vita.
Gli pareva, ora, di veder tutto diversamente, e che i rumori gli arrivassero come di lontano, e le voci, le voci stesse a lui piú note, quella dell'amico, quella della propria figliuola, avessero un suono ch'egli non aveva mai prima avvertito.
Cominciò cosí man mano a sorgere in lui da quell'attonimento come una curiosità nuova, ma spassionata, per il mondo che lo circondava, che prima non gli era mai apparso né aveva conosciuto cosí.
Era mai possibile che Marco Verona fosse stato sempre quale egli lo vedeva ora? Finanche la persona, l'aria del volto gli sembravano diverse.
E la sua stessa figliuola? Ma come! Era davvero già cresciuta di tanto? o dalla sciagura, tutt'a un tratto, era balzata su un'altra Ginetta, cosí alta, esile, un po' fredda, segnatamente con lui? Sí, somigliava nelle fattezze alla madre, ma non aveva quella grazia che, in gioventú, accendeva, illuminava la bellezza della sua Silvia; e perciò tante volte Ginetta non pareva neanche bella.
Aveva la stessa imperiosità della madre, ma senza quegl'impeti franchi, senza scatti.
Ora il Verona veniva con piú scioltezza, quasi ogni giorno a casa del Lori: spesso rimaneva a desinare o a cenare.
Aveva finalmente compiuto la poderosa opera scientifica concepita e iniziata da Bernardo Ascensi, e già attendeva a mandarla a stampa in una magnifica edizione.
Molti giornali ne recavano le prime notizie, e di alcune fra le piú importanti conclusioni avevano anche preso a discutere animatamente le maggiori riviste non solo italiane ma anche straniere, lasciando cosí prevedere la fama altissima, a cui tra breve quell'opera sarebbe salita.
Il merito del Verona per il proseguimento di essa e per le nuove ardite deduzioni tratte dalla prima idea fu, dopo la pubblicazione, riconosciuto universalmente non inferiore a quello dello stesso Ascensi.
Ne ebbe gloria questi, ma assai piú il Verona.
Da ogni parte gli fioccarono plausi e onorificenze.
Tra le altre, la nomina a senatore.
Non aveva voluto averla subito dopo la sua uscita dal mondo parlamentare; la accolse ora di buon grado, perché non gli veniva per il tramite della politica.
Martino Lori in quei giorni, pensando alla gioja, all'esultanza che avrebbe provato la sua Silvia nel veder cosí glorificato il nome del padre, s'indugiò piú a lungo nelle visite che ogni sera, uscendo dal Ministero, soleva fare alla tomba della moglie.
Aveva preso quest'abitudine; e andava anche d'inverno, con le cattive giornate, a curar le piante attorno alla gentilizia, a rinnovare i lumini nella lampada; e parlava pian piano con la morta.
La vista quotidiana del camposanto e le riflessioni ch'essa gli suggeriva, gl'improntavano sempre piú di squallore il volto.
Tanto la figlia quanto il Verona avevano cercato di distoglierlo da questa abitudine; egli dapprima aveva negato come un bambino colto in fallo; poi, costretto a confessare, aveva alzato le spalle, sorridendo pallidamente.
- Non mi fa nulla...
Anzi è per me un conforto, - aveva detto.
- Lasciatemi andare.
Tanto, se fosse ritornato a casa subito, dopo l'ufficio, chi vi avrebbe trovato? Giornalmente il Verona veniva a prendersi Ginetta.
Non se ne lagnava lui, no; anzi era gratissimo all'amico degli svaghi che procurava alla figliuola.
Quella certa asprezza che aveva avvertito in talune occasioni nei modi di lui e qualche altro lieve difetto di carattere non avevano potuto fargli scemare l'ammirazione, né tanto meno ora la gratitudine, la devozione per quest'uomo, a cui né l'altezza dell'ingegno e della fama e degli uffici a cui era salito, né la fortuna toglievano d'accordare una cosí intima, piú che fraterna amicizia a un pover'uomo come lui che, tranne il buon cuore, non si riconosceva altra virtú, altro pregio per meritarsela.
Egli vedeva adesso con soddisfazione che non s'era ingannato quando diceva alla moglie che l'affetto del Verona sarebbe stato una fortuna per la loro Ginetta.
N'ebbe la prova maggiore allorché questa compí diciott'anni.
Oh come avrebbe voluto che la sua Silvia fosse stata presente quella sera, dopo la festa per il compleanno!
Il Verona, venuto apposta senza alcun regalo in mano per Ginetta, appena questa se ne andò a dormire, se lo trasse in disparte e, serio e commosso, gli annunziò che un suo giovane amico, il marchese Flavio Gualdi, chiedeva a lui per suo mezzo la mano della figliuola.
Martino Lori, lí per lí, rimase stupito.
Il marchese Gualdi? Un nobile...
ricchissimo...
la mano di Ginetta? Andando col Verona nei concerti, nelle conferenze, a passeggio, Ginetta, sí, era potuta entrare in un mondo, a cui né per nascita né per condizione sociale avrebbe potuto accostarsi, vi aveva destato qualche simpatia; ma lui...
- Tu lo sai, - disse all'amico, quasi smarrito e afflitto nella gioja, - sai qual è il mio stato...
Non vorrei che il marchese Gualdi...
Il Verona lo interruppe:
- Gualdi sa...
sa quel che deve sapere.
- Capisco.
Ma, essendo tanta la disparità, non vorrei che egli...
per quanto predisposto, non riuscisse neppure a figurarsi tante cose...
Il Verona tornò a interromperlo, stizzito:
- Mi pareva ozioso dirtelo, ma giacché tu, scusa, mi tieni ora un discorso cosí sciocco, per tranquillarti ti dirò che, via, essendo io da tant'anni tuo amico...
- Eh, lo so!
- Ginetta è cresciuta piú con me che con te, si può dire...
- Sí...
sí...
- O che mi piangi, adesso? Non vorrò mica essere l'intermediario di questo matrimonio per nulla.
Sú, sú, finiscila! Io me ne vado.
Ne parlerai tu, domattina, a Ginetta.
Vedrai che non ti riuscirà difficile.
- Se l'aspetta? - domandò, sorridendo tra le lagrime, il Lori.
- E non hai visto che non s'è punto meravigliata nel vedermi arrivare questa sera a mani vuote?
Cosí dicendo, Marco Verona rise gajamente, come da tant'anni il Lori non lo aveva piú sentito ridere.
V
Un'impressione curiosa, di gelo, dapprincipio.
Ma non ci avrebbe fatto caso Martino Lori, perché, come tant'altre cose in vita sua s'era spiegate, persuaso dall'ingenua bontà, anche questa si sarebbe spiegata qual effetto naturale della preveduta disparità di condizione, e un po' anche del carattere, dell'educazione, della figura stessa del genero.
Non era piú giovanissimo il marchese Gualdi: era ancor biondo, d'un biondo acceso, ma già calvo: lucido e roseo come una figurina di finissima porcellana smaltata; e parlava piano con accento piú francese che piemontese, piano, piano, affettando nella voce una tal quale benignità condiscendente, che contrastava però in modo strano con lo sguardo rigido degli occhi azzurri, vitrei.
Da questi occhi il Lori s'era sentito se non propriamente respinto, quasi allontanato, e gli era parso finanche di scorgervi come una commiserazione lievemente derisoria per lui, per i suoi modi forse troppo semplici prima, ora troppo circospetti, forse.
Ma anche il tratto del tutto diverso che il Gualdi usava tanto col Verona quanto con Ginetta, egli si sarebbe spiegato; quantunque, via, paresse che la moglie a colui fosse venuta da parte dell'amico e non da lui ch'era il padre...
Veramente era stato cosí, ma il Verona...
Ecco: il Verona non sapeva spiegarsi piú, Martino Lori.
Ora che egli era rimasto solo in casa e non aveva piú neanche l'ufficio, essendosi messo a riposo per far piacere al genero, non avrebbe dovuto Marco Verona prodigargli con maggior premura il conforto dell'amicizia fraterna, di cui per tanti anni aveva voluto onoraro?
Egli, il Verona, andava ogni giorno a trovar Ginetta nel villino del Gualdi; e da lui, dall'amico, dopo il giorno delle nozze, non era piú venuto, neanche una volta per isbaglio.
S'era forse stancato di vederlo cosí chiuso ancora nel cordoglio antico, ed essendo ormai vecchio anche lui, preferiva andare dove si godeva, dove Ginetta, per opera di lui, pareva felice?
Sí, anche questo poteva darsi.
Ma perché poi, quand'egli andava a veder la figlia, e lo trovava lí, a tavola con lei e il genero, come se fosse di casa, era accolto da lui quasi con dispetto, gelidamente? Poteva darsi che quest'impressione di gelo gli fosse data dal luogo, da quella vasta sala da pranzo, lucida di specchi, splendidamente arredata? Ma che! no! no! Non si era soltanto allontanato il Verona; il tratto, il tratto di lui era proprio cangiato; gli stringeva appena la mano, appena lo guardava, e seguitava a conversar col Gualdi, come se non fosse entrato nessuno.
Per poco lí non lo lasciavano in piedi, innanzi alla tavola.
Solo Ginetta gli rivolgeva qualche parola, di tanto in tanto, ma cosí, fuor fuori, perché non si potesse dire che proprio nessuno si curava di lui.
Col cuore strizzato da un'angoscia inesplicabile, confuso e avvilito, Martino Lori se n'andava.
Non doveva proprio avere alcun rispetto per lui, alcun riguardo, il genero? Tutte le feste e gl'inviti per il Verona, perché ricco e illustre? Ma se doveva esser cosí, se volevano tutti e tre seguitare ad accoglierlo ogni sera a quel modo, come un importuno, come un intruso, egli non sarebbe andato piú; no, no, perdio, non sarebbe andato piú! Voleva stare a vedere che cosa avrebbero fatto quei signori, tutt'e tre, allora.
Ebbene, passarono due giorni; ne passarono quattro e cinque; passò un'intera settimana, e né il Verona, né il genero e neanche Ginetta, nessuno, neppure un servo, venne a chieder di lui, se per caso fosse malato...
Con gli occhi senza sguardo, vagando per la camera, il Lori si grattava di continuo la fronte con le dita irrequiete, quasi per destar la mente dal torpore angoscioso in cui era caduta.
Non sapendo piú che pensare, riandava, riandava con l'anima smarrita il passato...
Tutt'a un tratto, senza saper perché, il pensiero gli s'appuntò in un ricordo lontano, nel piú triste ricordo della sua vita.
Ardevano in quella notte funesta quattro ceri, e Marco Verona, con la faccia affondata nella sponda del letto, su cui giaceva Silvia morta, piangeva.
Fu all'improvviso come se, nella sua anima scombujata, quei ceri funebri guizzassero e accendessero un lampo livido a rischiarargli orridamente tutta la vita, fin dal primo giorno che Silvia gli era venuta innanzi, accompagnata da Marco Verona.
Sentí mancarsi le gambe, e gli parve che tutta la camera gli girasse attorno.
Si nascose il volto con le mani, tutto ristretto in sé:
- Possibile? Possibile?
Alzò gli occhi al ritratto della moglie, dapprima quasi sgomento di ciò che gli avveniva dentro; poi aggredí quel ritratto con lo sguardo, serrando le pugna e contraendo tutta la faccia in una espressione d'odio, di ribrezzo, d'orrore:
- Tu? tu?
Piú di tutti lei lo aveva ingannato.
Forse perché il pentimento di lei, dopo, era stato sincero.
Il Verona, no...
il Verona, no...
Costui gli veniva in casa, là, come un padrone e...
ma sí! forse sospettava ch'egli sapesse e fingesse di non accorgersi di nulla per vile tornaconto...
Come questo pensiero odioso gli balenò, Martino Lori sentí artigliarsi le dita e le reni fenderglisi.
Balzò in piedi; ma una nuova vertigine lo colse.
L'ira, il dolore gli si sciolsero in un pianto convulso, impetuoso.
Si riebbe, alla fine, stremato di forze e come tutto vuoto, dentro.
Piú di vent'anni c'eran voluti perché comprendesse.
E non avrebbe compreso, se quelli con la loro freddezza, con la loro noncuranza sdegnosa non gliel'avessero dimostrato e quasi detto chiaramente.
Che fare piú, dopo tant'anni? ora che tutto era finito...
cosí, da un pezzo, in silenzio...
pulitamente, come usa fra gente per bene, fra gente che sa fare a modo le cose? Non glielo avevano lasciato intendere con garbo forse, che oramai non aveva piú nessuna parte da rappresentare? Aveva rappresentato la parte del marito, poi quella del padre...
e ora basta: ora non c'era piú bisogno di lui, poiché essi, tutti e tre, si erano cosí bene intesi fra loro...
La men trista fra tutti, la meno perfida, forse era stata colei che s'era pentita subito dopo il fallo ed era morta...
E Martino Lori, quella sera, come tutte le sere, seguendo l'antica abitudine, si ritrovò per la via che conduce al cimitero.
S'arrestò, fosco e perplesso, se andare avanti o tornare indietro.
Pensò alle piante attorno alla gentilizia, che da tant'anni, ormai, curava con amore.
Là, tra poco, anch'egli avrebbe riposato...
Là sotto, accanto a lei? Ah, no, no: non piú ormai...
Eppure, come aveva pianto quella donna, allora, ritornando a lui, e di quanto affetto lo aveva circondato, dopo...
Sí, sí: s'era pentita...
A lei, sí, a lei soltanto egli forse poteva perdonare.
E Martino Lori riprese la via per il cimitero.
Aveva qualche cosa di nuovo da dire alla morta, quella sera.
LA BUON'ANIMA
Fin dal primo giorno, Bartolino Fiorenzo s'era sentito dire dalla promessa sposa:
- Lina, veramente, ecco...
Lina no, non è il mio nome.
Carolina mi chiamo.
La buon'anima mi volle chiamar Lina, e m'è rimasto cosí.
La buon'anima era Cosimo Taddei, il primo marito.
- Eccolo là!
Glielo aveva anche indicato, la promessa sposa, perché era ancora là, ridente e in atto di salutare col cappello (vivacissima istantanea fotografica ingrandita), nella parete di fronte al canapè, presso al quale Bartolino Fiorenzo stava seduto.
E istintivamente a Bartolino era venuto di inchinar la testa per rispondere a quel saluto.
A Lina Sarulli, vedova Taddei, non era neanche passato per il capo di togliere quel ritratto dal salotto, il ritratto del padrone di casa.
Era di Cosimo Taddei, infatti, la casa in cui ella abitava; lui, ingegnere, la aveva levata di pianta, lui poi cosí elegantemente arredata, per lasciargliela alla fine in eredità con l'intero patrimonio.
La Sarulli seguitò, senza notare affatto l'impaccio del promesso sposo:
- A me non piaceva cangiar nome.
Ma la buon'anima allora mi disse: "E se invece di Carolina ti chiamassi cara Lina non sarebbe meglio? Quasi lo stesso, ma tanto di piú!".
Va bene?
- Benissimo! sí, sí, benissimo! - rispose Bartolino Fiorenzo, come se la buon'anima avesse domandato a lui un parere.
- Dunque, cara Lina, siamo intesi? - concluse la Sarulli, sorridendo.
E Bartolino Fiorenzo:
- Intesi...
sí, sí...
intesi...
- balbettò, smarrito di confusione e di vergogna, pensando che il marito, intanto, guardava ridente dalla parete e lo salutava.
Quando - tre mesi dopo - i Fiorenzo, marito e moglie, accompagnati alla stazione dai parenti e dagli amici, partirono per il viaggio di nozze, diretti a Roma, Ortensia Motta, intima di casa Fiorenzo e anche amicissima della Sarulli, disse al marito, alludendo a Bartolino:
- Povero figliuolo, ha preso moglie? Io direi piuttosto che gli hanno dato marito!
Ma con ciò, si badi, la Motta non voleva mica dire che Lina Sarulli, prima Lina Taddei, ora Lina Fiorenzo, avesse piú dell'uomo che della donna.
No.
Troppo donna, anzi, quella cara Lina! Fra i due, però, via! non si poteva mettere in dubbio che avesse molta piú esperienza della vita e piú giudizio lei che lui.
Ah, lui - tondo biondo rubicondo - aveva l'aria d'un bamboccione; d'un bamboccione curioso, però: calvo, ma d'una calvizie che pareva finta, come se egli stesso si fosse rasa la sommità del capo per togliersi quell'aria infantile.
E senza riuscirci, povero Bartolino!
- Ma che povero! Ma perché povero? - miagolò, con la voce nasina, stizzito, il Motta, vecchio marito della giovine Ortensia, il quale aveva combinato quel matrimonio e non voleva se ne dicesse male.
- Bartolino non è mica uno sciocco.
Valentissimo chimico...
- Ma sí! di prima forza! - ghignò la moglie.
- Di primissima forza! - ribatté lui.
Valentissimo chimico, se avesse voluto mandare a stampa gli studii profondi, nuovi, d'indiscutibile originalità, che aveva fatto fin da giovinetto in quella scienza - passione finora unica, esclusiva della sua vita - ma senza dubbio, chi sa...
al primo concorso, chi sa di qual primaria Università del regno sarebbe stato professore.
Dotto, dotto.
E ora, come marito, sarebbe stato esemplare.
Nella vita coniugale entrava puro, vergine di cuore.
- Ah, per questo...
- riconobbe la moglie, come se, quanto a quella verginità, fosse disposta a concedere anche di piú.
Il fatto è che ella, prima che si fosse concluso quel matrimonio con la Sarulli, ogni qual volta in casa Fiorenzo sentiva consigliare dal marito allo zio di Bartolino, che bisognava "coniugare" questo ragazzo, scoppiava a ridere.
Oh, certe risate ci faceva...
- Coniugarlo, sí signora, coniugarlo! - si voltava a dirle il marito, irosamente.
E allora lei, frenandosi di scatto:
- Ma coniugatelo pure, cari miei! Io rido per me, rido di ciò che sto leggendo.
Difatti leggeva lei, mentre il Motta si faceva la solita partita a scacchi col signor Anselmo, zio di Bartolino; leggeva qualche romanzo francese alla vecchia signora Fiorenzo da sei mesi relegata in una poltrona dalla paralisi.
Oh, allegre veramente, quelle serate! Bartolino, tappato ermeticamente nel suo gabinetto di chimica; la vecchia zia, che fingeva di prestare ascolto alla lettura e non capiva piú una saetta; quegli altri due vecchi intenti alla loro partita...
Bisognava "coniugare" Bartolino per avere un po' d'allegria in casa.
Ed ecco, povero figliuolo, lo avevano coniugato davvero!
Intanto Ortensia pensava ai due sposini in viaggio, e rideva immaginandosi la Lina a tu per tu con quel giovanottone calvo, inesperto, vergine di cuore, come diceva il marito: Lina Sarulli ch'era stata quattr'anni in compagnia di quel caro ingegner Taddei, espertissimo, vivace, gioviale, e intraprendente...
anche troppo!
Forse a quell'ora la vedova sposina aveva già notato la differenza tra i due.
Prima che il treno si scrollasse per partire, lo zio Anselmo aveva detto alla nuova nipote:
- Lina, ti raccomando Bartolino...
Guidalo tu!
Intendeva dire, guidarlo per Roma, dove Bartolino non era mai stato.
Lei sí c'era stata, nel suo primo viaggio di nozze, con la buon'anima; e serbava memoria anche delle minime cose, dei piú lievi incidenti che le erano occorsi; minutissima e lucidissima memoria, quasi che fossero passati, non sei anni, ma sei mesi, da allora.
Il viaggio con Bartolino durò un'eternità: le tendine non si poterono abbassare.
Appena il treno s'arrestò alla stazione di Roma, Lina disse al marito:
- Ora lascia fare a me, ti prego.
Giú le valige! - E, al facchino che venne ad aprir lo sportello:
- Ecco: tre valige, due cappelliere, no, tre cappelliere, un porta-mantelli, un altro porta-mantelli, questo sacchetto, quest'altro sacchetto...
che altro c'è? Niente, basta.
Hotel Vittoria!
Uscendo dalla stazione, dopo ritirato il baule, riconobbe subito il conduttore dell'omnibus, e gli fe' cenno.
Come furono montati, disse al marito:
- Vedrai: albergo modesto, ma comodissimo; buon servizio, pulizia, prezzi modici, e centrale poi!
La buon'anima - senza volerlo, ella lo ricordava - se n'era trovato molto contento.
Ora, anche Bartolino senza dubbio se ne sarebbe trovato contentone.
Oh, bonissimo figliuolo! Non fiatava neppure.
- Stordito, eh? - gli disse.
- Anche a me ha fatto lo stesso effetto, la prima volta...
Ma vedrai: Roma ti piacerà.
Guarda, guarda...
Piazza delle Terme...
Terme di Diocleziano...
Santa Maria degli Angeli...
e quella là, voltati!, fino in fondo, Via Nazionale...
magnifica, non è vero? Poi ci passeremo...
Scesi all'albergo, Lina si sentí come a casa sua.
Avrebbe voluto che qualcuno la riconoscesse, come lei riconosceva quasi tutti: ecco, quel vecchio cameriere, per esempio...
Pippo, sí; lo stesso di sei anni fa.
- Che camera?
Avevano assegnato loro la camera n.
12, al primo piano: bella camera, ampia, con alcova, ben messa.
Ma Lina disse al vecchio cameriere:
- Pippo, e la camera al n.
19, al secondo piano? Vorreste vedere se fosse libera?
- Subito, - rispose il cameriere inchinandosi.
- Molto piú comoda, - spiegò Lina al marito.
- Ci dev'essere un piccolo vano accanto all'alcova...
E poi, piú aria e meno frastuono.
Staremmo molto meglio...
Ricordava che anche alla buon'anima era capitato lo stesso caso: gli avevano assegnato una camera al primo piano, e lui se l'era fatta cambiare.
Il cameriere, poco dopo, venne a dire che il n.
19 era libero e a loro disposizione, se lo preferivano.
- Ma sí! ma sí! - s'affrettò a dir Lina, lietissima, battendo le mani.
E, appena entrata, ebbe la gioja di riveder quella camera tal quale, con la stessa tappezzeria, gli stessi mobili nella stessa posizione...
Bartolino restava estraneo a quella gioja.
- Non ti piace? - gli domandò Lina, spuntandosi il cappellino innanzi al noto specchio sul cassettone.
- Sí...
va bene...
- rispose egli.
- Oh, guarda! Me n'accorgo dallo specchio...
Quel quadretto lí non c'era, allora...
C'era un piatto giapponese...
Si sarà rotto.
Ma di', non ti piace? No no no no no! Niente baci, per ora...
col muso sporco...
Tu ti laverai qua; io andrò di là nel mio bugigattolino...
Addio!
E scappò via, felice, esultante.
Bartolino Fiorenzo si guardò attorno, un po' mortificato; poi s'appressò all'alcova, ne sollevò il cortinaggio e vide il letto.
Doveva esser lo stesso in cui la moglie per la prima volta aveva dormito con l'ingegner Taddei.
E da lontano, da un ritratto appeso alla parete del salotto nella casa della moglie, Bartolino si vide salutare.
Per tutto il tempo che durò il viaggio di nozze, non solamente poi si coricò in quello stesso letto, ma desinò e cenò anche negli stessi ristoranti, dove la buon'anima aveva condotto a desinare la moglie; andò in giro per Roma, seguendo come un cagnolino i passi della buon'anima che guidava nel ricordo la moglie; visitò le antichità e i musei e le gallerie e le chiese e i giardini, vedendo e osservando tutto ciò che la buon'anima aveva fatto vedere e osservare alla moglie.
Era timido, e non osava dimostrare in quei primi giorni l'avvilimento, la mortificazione, che cominciava a provare nel dover seguire cosí, in tutto e per tutto, l'esperienza, il consiglio, i gusti, le inclinazioni di quel primo marito.
Ma la moglie non lo faceva per male.
Non se n'accorgeva, né poteva accorgersene.
A diciott'anni, priva d'ogni discernimento, d'ogni nozione della vita, era stata presa tutta da quell'uomo, e istruita e formata e fatta donna da lui; era insomma una creatura di Cosimo Taddei, doveva tutto, tutto a lui, e non pensava e non sentiva e non parlava e non si moveva se non a modo di lui.
E come mai, dunque, aveva ripreso marito? Ma perché Cosimo Taddei le aveva insegnato che alle sciagure le lagrime non son rimedio.
La vita a chi resta, la morte a chi tocca.
Se fosse morta lei, egli avrebbe certamente ripreso moglie; e dunque...
Dunque ora Bartolino doveva fare a modo di lei, cioè a modo di Cosimo Taddei, ch'era il loro maestro e la loro guida: non pensare a nulla, non affliggersi di nulla, ridere e divertirsi, poiché n'era tempo.
Ella non lo faceva per male.
Sí, ma almeno, ecco...
un bacio, una carezza, qualcosa infine che non fosse propriamente a modo di quell'altro...
Niente, niente, niente di particolare doveva egli far sentire a quella donna? Niente di suo che la sottraesse anche per poco al dominio di quel morto?
Bartolino Fiorenzo cercava, cercava...
Ma la timidezza gl'impediva d'escogitar carezze nuove.
Cioè, ne escogitava, tra sé e sé, anche di arditissime, ma poi, bastava che la moglie nel vederlo diventar rosso rosso gli domandasse:
- Che hai?
Addio, gli sbollivano tutte! Faceva un viso da scemo e le rispondeva:
- Che ho?
Di ritorno dal viaggio di nozze, furono turbati da una triste notizia inattesa: il Motta, l'autore del loro matrimonio, era morto improvvisamente.
Lina Fiorenzo, che alla morte del Taddei s'era trovata accanto Ortensia e n'aveva avuto conforto e cure da sorella, corse subito da lei, per curarla a sua volta.
Non credeva che questo compito pietoso dovesse riuscirle difficile: Ortensia, via, non doveva essere in fondo troppo afflitta di quella sciagura; buon uomo, sí, il povero Motta, ma seccantissimo e molto piú vecchio di lei.
Rimase però costernata nel ritrovare l'amica, dopo dieci giorni dalla disgrazia, addirittura inconsolabile.
Suppose che il marito la avesse lasciata in tristi condizioni finanziarie.
E arrischiò con garbo una domanda.
- No no! - s'affrettò a risponderle Ortensia, tra le lagrime.
- Ma...
capirai...
Che cosa? Tutta quella pena, sul serio? Non la capiva, Lina Fiorenzo.
E volle confessarlo al marito.
- Eh! - fece Bartolino, stringendosi nelle spalle, rosso come un gambero di fronte a quella specie d'incoscienza della moglie pur tanto sapiente.
- In fin de' conti...
dico...
le è morto il marito...
- Eh via, adesso! marito...
- esclamò Lina.
- Le poteva esser padre, a momenti!
- E ti par poco?
- Ma non era neanche padre, poi!
Lina aveva ragione.
Ortensia piangeva troppo.
Nei tre mesi del fidanzamento di Bartolino, la Motta aveva notato che il povero giovine era rimasto molto turbato della facilità con cui la promessa sposa parlava innanzi a lui del primo marito; turbato, perché non riusciva a metter d'accordo la memoria viva, continua, persistente, ch'ella serbava di colui, col fatto che ora stesse per riprender marito.
Ne aveva discusso in casa con lo zio, e questi aveva cercato di rassicurarlo, dicendogli che era anzi una prova di franchezza - quella - da parte della sposa, di cui non avrebbe dovuto offendersi, perché appunto dal fatto che ella riprendeva marito doveva venirgli la certezza che la memoria di quell'uomo non aveva piú radici nel cuore di lei, bensí nella mente soltanto, sicché dunque ella poteva parlarne senza scrupoli, anche dinanzi a lei.
Bartolino non s'era affatto raffidato, dopo questo ragionamento.
Ortensia lo sapeva bene.
Ora poi ella aveva motivo di credere che il turbamento del giovine, per quella cosí detta franchezza della moglie, dopo il viaggio di nozze, doveva essere di molto cresciuto.
Nel ricevere la visita di condoglianza dei due sposi, ella aveva voluto perciò mostrarsi, non tanto a Lina quanto a Bartolino, inconsolabile.
E Bartolino Fiorenzo rimase cosí simpaticamente impressionato di quel dolore della vedova, che per la prima volta osò contraddire alla moglie che quel dolore non voleva credere.
E le disse col volto in fiamme:
- Ma anche tu, scusa, non hai forse pianto quando t'è morto...
- Che c'entra! - lo interruppe Lina.
- Prima di tutto la buon'anima era...
- Ancor giovane, sí - disse avanti Bartolino, per non farlo dire a lei.
- E poi, io, - riprese ella, - ho pianto, ho pianto, ho pianto, è vero...
- Non molto? - arrischiò Bartolino.
- Molto, molto...
ma, in fine, mi son fatta una ragione, ecco! Credi pure, Bartolino; tutto quel pianto di Ortensia è troppo.
Bartolino non ci volle credere; Bartolino sentí anzi piú aspra entro di sé, dopo questo discorso, la stizza, ma non tanto contro la moglie, quanto contro il defunto Taddei, perché comprendeva bene ormai che quel modo di ragionare, quel modo di sentire non eran proprii di lei, della moglie, ma frutto della scuola di quell'uomo, che doveva essere stato un gran cinico.
Non si vedeva forse Bartolino, ogni giorno, entrando nel salotto, sorridere e salutare da colui?
Ah, quel ritratto lí, non poteva piú soffrirlo! Era una persecuzione! Lo aveva sempre davanti a gli occhi.
Entrava nello studio? Ed ecco: l'immagine del Taddei gli rideva e lo salutava, come per dirgli:
- Passi! passi pure! Qui era anche il mio studio d'ingegnere, sa? Ora lei vi ha allogato il suo gabinetto di chimica? Buon lavoro! La vita a chi resta, la morte a chi tocca!
Entrava nella camera da letto? Ed ecco, l'immagine del Taddei lo perseguitava anche lí.
Rideva e lo salutava:
- Si serva! si serva pure! Buona notte! È contento di mia moglie? Ah, gliel'ho istruita bene...
La vita a chi resta, la morte a chi tocca!
Non ne poteva piú! Tutta quella casa lí era piena di quell'uomo, come sua moglie.
Ed egli, tanto pacifico prima, ora si trovava in preda a un continuo orgasmo, che pur si sforzava di dissimulare.
Alla fine cominciò a fare stranezze, per scuotere le abitudini della moglie.
Se non che, queste abitudini, Lina le aveva contratte da vedova.
Cosimo Taddei, d'indole vivacissima, non aveva abitudini, non aveva voluto mai averne.
Sicché dunque Bartolino, alle prime stranezze, si sentí rimproverare dalla moglie:
- Oh Dio, Bartolino, come la buon'anima?
Ma non volle darsi per vinto.
Sforzò violentemente la propria natura per farne di nuove.
Qualunque cosa però facesse, pareva a Lina che la avesse fatta pure quell'altro, che ne aveva fatte veramente di tutti i colori.
Bartolino si avvilí; tanto piú che Lina mostrava di riprender gusto a quelle scapataggini.
Seguitando cosí, a lei doveva certo sembrare di rivivere proprio con la buon'anima.
E allora...
allora Bartolino, per dare uno sfogo all'orgasmo crescente di giorno in giorno, concepí un tristo disegno.
Veramente, egli non intese tanto di tradir la moglie quanto di vendicarsi di quell'uomo che gliel'aveva presa tutta e se la teneva ancora.
Credette che quest'idea cattiva fosse nata in lui spontaneamente; ma in verità bisogna dire in sua scusa che gli fu quasi suggerita, insinuata, infiltrata da colei che invano da scapolo aveva piú volte tentato con le sue arti di rimuoverlo dall'eccessivo studio della chimica.
Fu per Ortensia Motta una rivincita.
Ella si mostrò dolentissima d'ingannar l'amica; ma fece intendere a Bartolino che lei, prima ancora che egli prendesse moglie...
via! era quasi fatale!
Questa fatalità non apparve a Bartolino molto chiara; e però, da buon figliuolo, restò deluso, quasi frodato dalla facilità con cui era riuscito nel suo intento.
Rimasto per un tratto solo, là nella camera del buon vecchio Motta, si pentí della sua cattiva azione.
A un certo punto, gli occhi gli andarono per caso su qualcosa che luccicava su lo scendiletto, dalla parte d'Ortensia.
Era un ciondolo d'oro, con una catenella, che doveva esserle scivolato dal collo.
Lo raccolse, per restituirglielo; ma, aspettando, con le dita nervose, senza volerlo, gli venne fatto d'aprirlo.
Trasecolò.
Un ritrattino piccolo piccolo di Cosimo Taddei, anche lí.
Rideva e lo salutava.
SENZA MALIZIA
I
Quando Spiro Tempini, con le lunghe punte dei baffetti insegate come due capi di spago lí pronti per passar nel foro praticato da una lesina, facendo a leva di continuo con le dita sui polsini inamidati per tirarseli fuor delle maniche della giacca; timido e smilzo, miope e compito, chiese debitamente alla maggiore delle quattro sorelle Margheri la mano di Iduccia, la minore, e se ne andò con quelle piote ben calzate ma fuori di squadra e indolenzite, inchinandosi piú e piú volte di seguito; tanto Serafina, quanto Carlotta, quanto Zoe, quanto Iduccia stessa rimasero per un pezzo quasi intronate.
Ormai non s'aspettavano piú che a qualcuno potesse venire in mente di chieder la mano d'una di loro.
Dopo essersi rassegnate a tante gravi sciagure, alla rovina improvvisa e alla conseguente morte per crepacuore del padre, poi a quella della madre, e quindi a dover trarre profitto dei buoni studii compiuti per arricchire squisitamente la loro educazione signorile, s'erano anche rassegnate a rimaner zitelle.
Veramente, certe loro amiche carissime non volevano credere a quest'ultima rassegnazione, perché pareva loro che le Margheri, da un pezzo, si fossero come impuntate: Serafina a trent'anni; Carlotta, a ventinove; Zoe a ventisette; Ida a venticinque.
Il tempo passava, cominciava a urtarle un po' sgarbatamente alle spalle; invano.
Lí, ferme ostinatamente su la triste soglia di quegli anni oltrepassati, che stavano ad aspettare? Eh via, qualcuno che le inducesse finalmente a muoversene, ad andare innanzi non piú sole.
Quando queste care amiche sentivano dalle tre sorelle maggiori chiamar per nome l'ultima, si confessavano che faceva loro l'effetto che la chiamassero da lontano, da molto lontano, Iduccia.
Perché, a conti fatti, Ida, via! doveva aver per lo meno ventotto anni.
Intanto, ajutate da amici autorevoli, rimasti fedeli dopo la rovina, le Margheri erano riuscite col lavoro, cioè impartendo lezioni particolari di lingue straniere (inglese e francese), di pittura ad acquerello, d'arpa e di miniatura, a tener sú intatta la casa, che attestava con l'eleganza sobria e semplice della mobilia e della tappezzeria l'agiatezza in cui eran nate e di cui avevano goduto; e andavano ancora a concerti e a radunanze, accolte dovunque con molta deferenza e con simpatia per il coraggio di cui davano prova, per il garbo disinvolto con cui portavano gli abiti non piú sopraffini, per le maniere gentili e dolcissime e anche per le fattezze graziose e tuttora piacevoli.
Erano magroline (forse un po' troppo; spighite, dicevano i maligni) e di alta statura tutt'e quattro; Ida e Serafina, bionde; Carlotta e Zoe, brune.
Certamente era una bella soddisfazione per loro poter bastare a se stesse col proprio lavoro.
Avrebbero potuto morir di fame, e non morivano.
Si procuravano da mangiare, da vestir discretamente, da pagar la pigione.
E quelle care amiche che avevano marito e le altre che avevano il fidanzato o facevano all'amore si congratulavano tanto con esse di questo bel fatto; e quelle promettevano che avrebbero mandato presto la piccola Tittí o il piccolo Cocò a studiar l'arpa o la pittura ad acquerello; e le altre per miracolo, nelle effusioni d'affetto e d'ammirazione, non promettevano che si sarebbero affrettate a mettere al mondo un figliuolo, una figliuola, per avere anch'esse il piacere d'ajutare le coraggiose amiche a provvedersi da vestir discretamente, da pagar la pigione e non morire di fame.
Ma ecco intanto questo signor Tempini, piovuto dal cielo.
Ci volle un bel po', prima che le quattro sorelle rinvenissero dallo stupore.
Conoscevano il Tempini soltanto da pochi mesi; lo avevano veduto, sí e no, una dozzina di volte nei salotti ch'esse frequentavano; né pareva loro ch'egli avesse mai manifestato in alcun modo - timido com'era, e impensierito sempre di quei piedi troppo grossi, ben calzati e indolenziti - d'aver qualche mira su esse.
Quasi quasi, dopo tanta vana e smaniosa attesa, quella richiesta cosí improvvisa e insperata le contrariava; le insospettiva.
Che considerazioni aveva potuto far costui nel venirsi a cacciare, cosí a cuor leggero, con quell'aria smarrita, tra quattro ragazze sole, senza dote, senza stato se non precario, o almeno molto incerto, unite fra loro, legate inseparabilmente dall'ajuto che eran costrette a prestarsi a vicenda? Che s'era immaginato? Come s'era indotto? Che aveva fatto Iduccia per indurlo?
- Ma niente! vi giuro: nientissimo! - badava a protestare Iduccia infocata in volto.
Le sorelle dapprima si mostrarono incredule; tanto che Iduccia si stizzí e dichiarò finanche che non voleva saperne, perché le era antipatico, ecco, antipaticissimo quel...
come si chiamava? Tempini.
Eh via! eh via! Antipatico? Perché? Ma no! - Giovane serio, - disse Serafina; - giovane colto, - disse Carlotta; - laureato in legge, - disse Zoe; e Serafina aggiunse: - Segretario al Ministero di Grazia e Giustizia; - e Carlotta: - Libero docente di...
di...
non ricordo bene di che cosa, all'Università di Roma.
E lo conoscevano appena le sorelle Margheri!
Zoe finanche si ricordò che il Tempini aveva tenuto una volta una conferenza al Circolo Giuridico: sí, una conferenza con projezioni, in cui si mostravano le impronte digitali dei delinquenti - ricordava benissimo - anzi la conferenza era intitolata: Segnalamenti dactiloscopici col rilievo delle impronte digitali.
Del resto, Serafina e Carlotta avrebbero domandato maggiori ragguagli, si sarebbero consigliate con gli amici autorevoli, non perché dubitassero minimamente del Tempini, ma per far le cose proprio a modo.
II
Tre giorni dopo, Spiro Tempini fu accolto in casa, e quindi presentato nelle radunanze quale promesso sposo di Iduccia.
Di Iduccia soltanto? Pareva veramente il promesso sposo di tutt'e quattro le Margheri; anzi, piú che di Iduccia, delle altre tre; perché Iduccia, vedendo cosí naturalmente partecipi le sorelle della soddisfazione, della gioja che avrebbero dovuto esser sue principalmente, s'irrigidiva in un contegno piuttosto riserbato, e faceva peggio; ché quelle, supponendo ch'ella non riuscisse ancora a vincere la prima, ingiusta antipatia per il Tempini, ritenevano che fosse loro dovere compensarlo di quella freddezza, opprimendolo di cure, d'amorevolezze, cosí che egli non se n'accorgesse.
- Spiro, il fazzoletto da collo! Avvolgiti bene, mi raccomando.
Hai la voce un po' rauca.
- Spiro, hai le mani troppo calde.
Perché?
Poi ciascuna gli aveva chiesto un piccolo sacrifizio.
Zoe:
- Per carità, Spiro, non t'insegare piú codesti baffetti.
Carlotta:
- Se fossi in te, Spiro, me li lascerei un po' piú lunghetti i capelli.
Non ti pare, Iduccia, che pettinati cosí a spazzola gli stieno male? Meglio con la scriminatura da un lato.
Alla Guglielmo.
E Serafina:
- Iduccia dovrebbe farti smettere codesti occhiali a staffa.
Da notajo, Dio mio, o da professore tedesco! Meglio le lenti, Spiro! Un pajo di lenti, e senza laccio, mi raccomando! A pince-nez.
Alle piote, nessun accenno.
Erano irrimediabili.
In men d'un mese Spiro Tempini diventò un altro.
I maligni però lo commiseravano a torto, perché egli, cresciuto sempre solo, senza famiglia, senza cure, era felicissimo tra quelle quattro sorelle tanto buone e intelligenti e animose, che lo vezzeggiavano e gli stavano sempre attorno a domandargli ora una notizia, ora un consiglio, ora un servizietto.
- Spiro, chi è Bacone?
- Per piacere, Spiro, abbottonami questo guanto.
- Auff, che caldo! Ti seccherebbe, Spiro, di portarmi questa mantellina?
- Oh di', Spiro, sapresti regolarmi quest'orologino? Va sempre indietro...
Iduccia, zitta.
Sospettare delle sorelle, questo no, neanche per ombra; ma certo cominciava a essere un po' stufa di tutto quello sfoggio di civetteria senza malizia.
Avrebbero dovuto comprenderlo le sorelle, che diamine! avvedersi che il Tempini, essendo per natura cosí timido e servizievole, e standogli esse cosí d'attorno senza requie, tre pittime, la trascurava per badare a loro.
Non gli lasciavano piú né tempo né modo non che d'accostarsi a lei, ma neanche di respirare.
Spiro di qua, Spiro di là...
Avrebbe dovuto aver quattro braccia quel poveretto per offrirne uno a ciascuna e altrettante mani per pigliarsele tutte e quattro.
Le seccava poi maggiormente che esse, con le loro manierine, quasi quasi lo costringevano ogni volta a portar quattro regali invece di uno.
Ma sí! Gli facevano tanta festa, ogni volta, che egli, per paura che rimanessero poi deluse, si guardava bene dal recarne qualcuno particolare a lei ch'era la fidanzata.
Non parlava, Iduccia, ma certe bili ci pigliava a quello spettacolo di vezzi e di premure! Cosí, santo Dio, egli avrebbe potuto chiedere senz'altro la mano di Zoe, o di Carlotta, o anche di Serafina...
Perché aveva chiesto la sua?
Iduccia aspettava dunque con molta impazienza, quantunque senza il minimo entusiasmo, il giorno delle nozze, sperando bene che, in tal giorno almeno, una certa distinzione egli finalmente avrebbe dovuto farla.
III
Avvenne un contrattempo spiacevolissimo.
Per fare il viaggio di nozze, Spiro Tempini aveva sollecitato al Ministero di Grazia e Giustizia un lavoro straordinario.
Non ostante l'amore e il gran da fare che gli davano le tre future cognatine, lo aveva condotto a termine con quella minuziosa diligenza, con quello zelo scrupoloso che soleva mettere in tutti i lavori d'ufficio e negli studii pregiatissimi di scienza positiva.
Contava che questo lavoro gli fosse retribuito pochi giorni prima di quello fissato per le nozze; ma, all'ultimo momento, quando già tutto era disposto per la celebrazione del matrimonio, stampate le partecipazioni, spiccati gli inviti, il decreto ministeriale era stato respinto dalla Corte dei Conti per vizio di forma.
Spiro Tempini parve lí lí per cader fulminato da una congestione cerebrale.
Lui, di solito cosí timido, cosí ossequente, cosí misurato nelle espressioni, si lasciò scappare parole di fuoco contro la burocrazia, contro l'amministrazione dello Stato, anche contro il Ministro, contro tutto il Governo, che gli mandava a monte il viaggio di nozze.
Non per il viaggio di nozze in se stesso; ma perché si vedeva costretto a venir meno a un riguardo di delicatezza, verso le tre cognatine nubili.
S'era stabilito (anzi non s'era messo neanche in discussione) ch'egli avrebbe fatto casa comune con esse; sí, ma santo Dio, almeno la prima notte non avrebbe voluto rimanere lí, sotto lo stesso tetto.
S'immaginava l'imbarazzo, per non dir altro, di quelle tre povere ragazze, quando, andati via tutti gl'invitati, finita la festa, lui e Iduccia...
Ah! Ci sudava freddo.
Sarebbe stato un momento terribile, uno strappo a tutte le convenienze, un angoscioso tormento di tutta la notte...
Come la avrebbero passata quelle tre povere anime, con la sorellina divisa da loro per la prima volta, di là, in un'altra camera con lui?
Invano Spiro Tempini, per rimediarvi, pregò, scongiurò Iduccia, che si contentasse d'un viaggetto di pochi giorni, pur che fosse, d'una giterella a Frascati o ad Albano.
Iduccia - forse perché non capiva ed egli non osò di farla anzi tempo capace - Iduccia non volle saperne.
Le parve un ripiego meschino e umiliante.
Là, là, meglio rimanere a casa.
Il Tempini diede un'ingollatina e arrischiò:
- Dicevo per...
per le tue sorelle, ecco...
Ma la sposina, che si teneva già da un bel pezzo, gli piantò tanto d'occhi in faccia e gli domandò:
- Perché? Che c'entrano le mie sorelle? Ancora?
E chi sa che altro avrebbe aggiunto Iduccia, nella stizza, se non fosse stata una ragazza per bene, che doveva figurare di non capir nulla fino all'ultimo momento.
Fu però una bella festa; non molto vivace, perché si sa, l'idea delle nozze richiama alla mente di chi abbia un po' di senno e di coscienza non lievi doveri e responsabilità; ma degna tuttavia e decorosa, soprattutto per la qualità degli invitati.
Spiro Tempini, che teneva piú alla libera docenza che al posto di segretario al Ministero di Grazia e Giustizia, perché credeva di contare in fine qualche cosa fuori dell'ufficio, invitò pochi colleghi e molti professori d'Università, i quali ebbero la degnazione di parlare animatamente di studii antropologici e psicofisiologici e di sociologia e d'etnografia e di statistica.
Poi il "momento terribile" venne, e fu, pur troppo, quale il Tempini lo aveva preveduto.
Quantunque volessero sembrar disinvolte, le tre sorelle e anche Iduccia stessa vibravano dalla commozione.
Avevano trattato finora con la massima confidenza il Tempini; ma quella sera, che impaccio! che senso, nel vederlo rimanere in casa, con loro; lui solo, uomo; già nel pieno diritto d'entrare in una intimità che, per quanto timida in quei primi istanti e imbarazzata, avventava.
Profondamente turbate, con gli occhi lampeggianti, le tre sorelle guardavano la sposa e le leggevano negli occhi la stessa ambascia che strizzava le loro animucce non al tutto ignare, certo, ma perciò anzi piú trepidanti.
Iduccia si staccava da loro; cominciava da quella sera ad appartenere piú a quell'estraneo che ad esse.
Era una violenza che tanto piú le turbava, quanto piú delicate eran le maniere con cui si manifestava finora.
E poi? Poi Iduccia, lei sola, tra breve, avrebbe saputo...
Le s'accostarono, sorridendo nervosamente, per baciarla.
Subito il sorriso si cangiò in pianto.
Due, Serafina e Carlotta, scapparono via nella loro camera senza neanche volgersi a guardare il cognato; Zoe fu piú coraggiosa: gli mostrò gli occhi rossi di pianto e, alzando il pugno in cui teneva il fazzoletto, gli disse tra due singhiozzi:
- Cattivo!
IV
Ma era destino che Iduccia non dovesse godere della distinzione che il Tempini, finalmente, aveva dovuto fare tra lei e le sorelle.
La pagò, e come! questa distinzione, la povera Iduccia.
Può dirsi che cominciò a morire fin dalla mattina dopo.
Il Tempini volle dare a intendere tanto a lei quanto alle sorelle, che non era propriamente una malattia.
- Disturbi, - diceva alle cognatine, afflitto ma non impensierito.
Alla moglie diceva:
- Eh, troppo presto, Iduccia mia! troppo presto! Basta.
Pazienza.
Ma Iduccia soffriva tanto! Troppo soffriva.
Non aveva un momento solo di requie.
Nausee, capogiri, e una prostrazione cosí grave di tutte le membra che, dopo il terzo mese, non poté piú reggersi in piedi.
Abbandonata su una poltrona, con gli occhi chiusi, senza piú forza neanche di sollevare un dito, udiva intanto di là, nella saletta da pranzo, conversare lietamente le tre sorelle col marito, e si struggeva dall'invidia.
Ah che invidia rabbiosa le sorgeva man mano per quelle tre ragazze, che le pareva ostentassero innanzi a lei, cosí sconfitta, con tutti i loro movimenti, le corse pazze per le stanze, quasi una loro vittoria: quella d'esser rimaste ancora agili e salde nella loro verginità.
Era tanto il dispetto, che quasi quasi credeva il suo male provenisse principalmente dal fastidio ch'esse le cagionavano con la loro vista e le loro parole.
Ecco, ridevano, sonavano l'arpa, si paravano, come se nulla fosse, senza alcun pensiero per lei che stava tanto male.
Ma non era giusto? non era naturale?
Lei aveva marito: esse non l'avevano; bisognava dunque ch'ella ne piangesse pure le conseguenze.
Spiro, del resto, le tranquillava; diceva loro che non c'era da darsene pensiero.
La lieve afflizione che potevano sentire per il malessere di lei era poi bilanciata dalla gioia d'aver presto un nipotino, una nipotina.
Ed era tale questa gioja, ch'esse stimavano finanche ingiusti, talvolta, i lamenti e i sospiri di lei.
Ah, in certi giorni, l'invidia di Iduccia, nel veder le tre sorelle come prima, piú di prima attorno al marito, tre pecette addirittura, s'inveleniva, fino a diventar vera e propria gelosia.
Poi si calmava, si pentiva dei cattivi pensieri; diceva a se stessa ch'era giusto infine che, non potendo lei, badassero almeno loro a Spiro.
E forse, chi sa! ci avrebbero badato sempre loro, tutte e tre vestite di nero.
Perché lei sarebbe morta.
Sí, sí: lo sentiva.
N'era sicurissima! Quell'esserino che man mano le si maturava in grembo, le succhiava a filo a filo la vita.
Che supplizio lento e smanioso! Se la sentiva proprio tirare, la vita, a filo a filo, dal cuore.
Sarebbe morta.
Le tre sorelle avrebbero fatto loro da madre alla sua creaturina.
Se femmina, l'avrebbero chiamata Iduccia, come lei.
Poi, passando gli anni, nessuna delle tre avrebbe piú pensato a lei, perché avrebbero avuto un'altra Iduccia, loro.
Ma il marito? Per lui non poteva essere la stessa cosa, quella bambina.
Egli forse...
quale delle tre avrebbe scelto?
Zoe? Carlotta? Serafina?
Che orrore! Ma perché ci pensava? Tutte e tre insieme, sí, avrebbero potuto far da madre alla sua creaturina; ma se egli ne sceglieva una...
Zoe, per esempio, ecco Zoe, no, non sarebbe stata una buona madre, perché avrebbe avuto da attendere ad altri figliuoli, ai suoi; e alla piccina orfana avrebbero allora badato con piú amore Carlotta e Serafina, quelle cioè ch'egli non avrebbe scelto.
Ecco dunque: se lo faceva per il bene della sua piccina, Spiro non avrebbe dovuto sceglierne alcuna.
Non poteva forse rimanere lí, in casa, come un fratello?
Glielo volle domandare Iduccia, pochi giorni prima del parto, confessandogli la gran paura che aveva di morire e i tristi pensieri che l'avevano straziata durante tutti quei mesi d'agonia.
Spiro le diede su la voce, dapprima; si ribellò; ma poi cedendo alle insistenze di lei - ch'eran puerili, via! come quel timore - dovette giurare.
- Sei contenta, ora?
- Contenta...
Tre giorni dopo, Iduccia morí.
V
Ma potevano mai pensare sul serio le tre sorelle superstiti di prendere il posto della sorellina morta, che aveva lasciato un cosí gran vuoto nel loro cuore e nella casa? Come sospettarlo? Ma nessuna delle tre!
Ecco, faceva male Zoe, anzi, a mostrar troppo il compianto e la tenerezza per la povera piccina orfana.
Serafina e Carlotta, piú riserbate, piú chiuse, quasi irrigidite nel loro cordoglio, la richiamavano:
- Zoe!
- Perché? - domandava Zoe, dopo aver cercato invano di leggere negli occhi delle sorelle la ragione di quel richiamo.
- Lasciala stare, - le diceva freddamente Carlotta.
Serafina poi, a quattr'occhi, le consigliava di frenare un po', ecco, quelle troppo vivaci effusioni d'affetto per la bambina.
- Ma perché? - tornava a domandare Zoe, stordita.
- Quella povera cosuccia nostra!
- Va bene.
Ma innanzi a lui...
- A Spiro?
- Sí.
Frenati.
Potrebbe parergli che tu...
- Che cosa?
- Capirai...
La nostra condizione, adesso; è un po'...
un po' difficile, ecco...
Finché c'era Iduccia...
Ah già! Zoe capiva.
Finché c'era Iduccia, Spiro era come un fratello; ma ora che Iduccia non c'era piú...
Esse erano tre ragazze sole, costrette, per via di quella piccina, a convivere col cognato vedovo, e...
e...
- Dobbiamo farlo per Iduccia nostra! - concludeva Serafina, con un profondo sospiro.
Poco dopo, però, Zoe, ripensandoci meglio, domandava a se stessa:
- Che cosa dobbiamo fare per Iduccia nostra? Poche carezze alla piccina? E perché? Perché Spiro, vedendo ch'io gliene faccio troppe, potrebbe supporre...
Oh Dio! Com'è potuta venire in mente a Serafina una tale idea? Io?
Cosí tutte e tre, ora, si vigilavano a vicenda, quando Spiro era in casa e anche quando non c'era.
E questa vigilanza puntigliosa e il rigido contegno scioglievano a mano a mano e facevano cader tutti i legami d'intimità che s'eran prima annodati fraternamente tra esse e il cognato.
Questi notò presto la freddezza; ma suppose in principio che dipendesse dal cordoglio per la recente sciagura.
Poi cominciò ad avvertire negli sguardi, nelle parole, in tutte le maniere delle tre cognatine un certo ritegno quasi sospettoso, come una mutria impacciata, che distornava la confidenza.
Perché? Non intendevano piú trattarlo da fratello?
Il gelo cresceva di giorno in giorno.
E anche Spiro allora si vide costretto a frenarsi, a ritrarsi.
Un giorno gli cascarono le lenti dal naso; e invece di comperarsene un altro paio, inforcò gli occhiali a staffa già smessi per far piacere a Serafina.
La prima volta che gli toccò d'andare dal barbiere, gli disse che voleva smettere la pettinatura con la divisa da un lato, adottata per consiglio di Carlotta, e si fece tagliare i capelli a spazzola, come prima.
Non riprese a insegarsi i baffi, per non far supporre che, da vedovo, pensasse ancora ad aver cura della propria persona, quantunque Zoe però gli avesse detto che i baffi insegati gli stavano male.
Ma poi, notando che Serafina e Carlotta, a tavola, lanciavano qualche occhiata obliqua a quei baffi e poi si guardavano tra loro, temendo ch'esse potessero sospettare ch'egli intendesse usare qualche particolarità a Zoe, tornò anche a insegarsi i baffi come un tempo.
Cosí si ritrasse dall'intimità anche con la figura.
Tante cure - pensava - tante amorevolezze prima, e ora...
Ma in che aveva mancato? Era forse lui cagione, se Iduccia era morta? Era stata una sciagura.
Egli la sentiva come loro, piú di loro.
Non avrebbe dovuto anzi affratellarli di piú il dolore comune? Desideravano forse le sue cognate che si staccasse da loro e facesse casa da sé? Ma egli, rimanendo, aveva creduto di far loro piacere; le aiutava, e non poco; provvedeva lui quasi del tutto ormai al mantenimento della casa.
E poi c'era la bambina.
La piccola Iduccia.
Non la aveva egli affidata alle loro cure? Ma ecco, notava intanto con grandissimo dolore che anche la piccina era trattata con freddezza, se non proprio trascurata.
Spiro Tempini non sapeva piú che pensare.
Prese il partito di trattenersi quanto piú poteva fuori di casa, per pesare il meno possibile in famiglia.
Da tanti segni gli parve di dovere argomentare che la sua presenza dava ombra e impicciava.
Ma il gelo crebbe ancor piú.
Ora Serafina diceva a Carlotta:
- Vedi? Non sta piú in casa, il signore.
Quel poco che ci sta: guardingo, impacciato.
Chi sa che cova! Ah, povera Iduccia nostra!
Carlotta si stringeva nelle spalle:
- Che ci possiamo far noi?
- Eh già, - incalzava Serafina.
- Vorrei sapere che cosa pretenderebbe da noi, con quella freddezza.
Dovremmo forse buttargli le braccia al collo per trattenerlo? Dico la verità, non me lo sarei mai aspettato!
Carlotta abbassava gli occhi; sospirava:
- Pareva tanto buono...
Ed ecco Zoe:
- Parlate di Spiro? Uomini, e tanto basta! Tutti gli stessi.
Sono appena sei mesi, e già...
Altro sospiro di Carlotta.
Sospirava anche Serafina, e aggiungeva:
- Mi tormenta il pensiero di quella povera creaturina.
E Zoe:
- È chiaro che a lui non basta esser trattato come possiamo trattarlo noi.
E Carlotta, di nuovo con gli occhi bassi:
- Nella condizione nostra...
- Pensate, intanto, pensate, - riprendeva Serafina.
- La nostra piccola Iduccia in mano a una estranea, a una matrigna!
Le tre sorelle fremevano a questo pensiero; si sentivano proprio fendere la schiena da certi brividi, che parevano rasojate a tradimento.
No, no, via! Un sacrifizio era necessario per amore della bambina.
Necessità! Dura necessità! Ma quale delle tre doveva sacrificarsi?
Serafina pensava: "Tocca a me.
Io sono la maggiore.
Ormai qui non si tratta di fare all'amore.
Piú che una moglie per sé, egli deve scegliere una madre per la bambina.
Io sono la maggiore; dunque, la piú adatta.
Scegliendo me, dimostrerà che non ha voluto far torto alla memoria d'Iduccia.
Siamo quasi coetanei.
Ho solamente sei mesi piú di lui".
"Tocca a me" pensava invece Zoe.
"Son la minore; la piú vicina a Iduccia, sant'anima! Egli allora aveva scelto l'ultima.
Ora l'ultima sono io.
Tocca dunque a me.
Senz'alcun dubbio, se s'affaccia anche a lui la necessità di questo sacrifizio, sceglierà me."
Carlotta poi, dal canto suo, non credeva d'esser meno indicata delle altre due.
Pensava che Serafina era troppo attempatella e che, sposando Zoe, Spiro avrebbe dimostrato di badare piú a sé che alla piccina.
Le pareva indubitabile, dunque, che avrebbe scelto lei, piuttosto, che stava nel mezzo, come la virtú.
Ma Spiro? Che pensava Spiro?
Egli aveva giurato.
È vero che non sempre chi vive può serbar fede al giuramento fatto a una morta.
La vita ha certe difficoltà, da cui chi muore si scioglie.
E chi si scioglie non può tener legato chi rimane in vita.
Se non che, quando per la prima volta Spiro Tempini s'era accostato improvvisamente alle quattro Margheri, la scelta aveva potuto farla lui.
Ora, per stare in pace, capiva che avrebbero dovuto invece scegliere loro.
Ma come scegliere, Dio mio, se egli era uno ed esse erano tre?
IL DOVERE DEL MEDICO
I
- E sono miei, - pensava Adriana, udendo il cinguettio de' due bambini nell'altra stanza; e sorrideva tra sé, pur seguitando a intrecciare speditamente una maglietta di lana rossa.
Sorrideva, non sapendo quasi credere a se stessa, che quei bambini fossero suoi, che li avesse fatti lei, e che fossero passati tanti anni, già circa dieci, dal giorno in cui era andata sposa.
Possibile! Si sentiva ancor quasi fanciulla, e il maggiore dei figli intanto aveva otto anni, e lei trenta, fra poco: trenta! possibile? vecchia a momenti! Ma che! ma che! - E sorrideva.
- Il dottore? - domandò a un tratto, quasi a se stessa, sembrandole di udir nella saletta d'ingresso la voce del medico di casa; e si alzò, col dolce sorriso ancora su le labbra.
Le morí subito dopo quel sorriso, assiderato dall'aspetto sconvolto e imbarazzato del dottor Vocalòpulo, che entrava ansante, come se fosse venuto di corsa, e batteva nervosamente le palpebre dietro le lenti molto forti da miope, che gli rimpiccolivano gli occhi.
- Oh Dio, dottore?
- Nulla...
non si agiti...
- La mamma?
- No no! - negò subito, forte, il dottore.
- La mamma, no!
- Tommaso, allora? - gridò Adriana.
E, poiché il dottore, non rispondendo, lasciava intendere che si trattava proprio del marito: - Che gli è accaduto? Mi dica la verità...
Oh Dio, dov'è, dov'è?
Il dottor Vocalòpulo tese le mani, quasi per opporre un argine alle domande.
- Nulla, vedrà...
Una feritina...
- Ferito? E lei...
Me l'hanno ucciso?
E Adriana afferrò un braccio al dottore, sgranando gli occhi, come impazzita.
- Ma no, ma no, signora...
si calmi...
una ferita...
speriamo leggera...
- Un duello?
- Sí, - lasciò cadersi dalle labbra, esitando, il dottore vieppiú turbato.
- Oh, Dio, Dio, no...
mi dica la verità! - insistette Adriana.
- Un duello? Con chi? Senza dirmi nulla?
- Lo saprà.
Intanto...
intanto, calma: pensiamo a lui...
Il letto?...
- Di là...
- rispose ella, stordita, non comprendendo in prima.
Poi riprese con ansia piú smaniosa: - Dove l'hanno ferito? Lei mi spaventa...
Non era con lei, Tommaso? Dov'è? Perché s'è battuto? Con chi? Quand'è stato?...
Mi dica...
- Piano, piano...
- la interruppe il dottor Vocalòpulo, non potendone piú.
- Saprà tutto...
Adesso, è in casa la serva? Per piacere, la chiami.
Un po' di calma, e ordine: dia ascolto a me.
E mentre ella, quasi istupidita, si faceva a chiamare la serva, il dottore, toltosi il cappello, si passò una mano tremolante su la fronte, come si sforzasse di rammentare qualcosa; poi, sovvenendosi, si sbottonò in fretta la giacca, trasse dalla tasca in petto il portabiglietti e scosse piú volte la penna stilografica, pensando alle ordinazioni da scrivere.
Adriana ritornò con la serva.
- Ecco, - disse il Vocalòpulo, seguitando a scrivere.
E, appena ebbe finito: - Subito, alla farmacia piú vicina...
Fiaschi...
no, no...
andate pure, ve li darà il farmacista stesso.
Lesta, mi raccomando.
- È molto grave, dottore? - domandò Adriana, con espressione timida e appassionata, come per farsi perdonare la insistenza.
- No, le ripeto.
Speriamo bene, - le rispose il Vocalòpulo e, per impedire altre domande, aggiunse: - Mi vuol far vedere la camera?
- Sí, ecco, venga...
Ma, appena nella camera, ella domandò ancora, tutta tremante:
- Ma come, dottore; lei non era con Tommaso? Assistono pure due medici ai duelli...
- Bisognerebbe trasportare il letto un po' piú qua...
- osservò il dottore, come se non avesse inteso.
Entrò, in quel punto, di corsa un bellissimo ragazzo, dalla faccia ardita, coi capelli neri ricci e lunghi, svolazzanti.
- Mamma, una barella! Quanta gen...
Vide il medico e s'arrestò di botto, confuso, mortificato, in mezzo alla stanza.
La madre diè un grido e scostò il ragazzo per accorrere dietro al dottore.
Su la soglia questi si voltò e la trattenne:
- Stia qua, signora: sia buona! Vado io, non dubiti...
Col suo pianto gli potrà far male...
Adriana allora si chinò per stringersi forte al seno il figlioletto che le si era aggrappato alla veste, e ruppe in singhiozzi.
- Perché, mamma, perché? - domandava il ragazzo sbigottito, non comprendendo e mettendosi a piangere anche lui.
II
A piè della scala il dottore accolse la barella condotta da quattro militi della carità, mentre due questurini, ajutati dal portinajo, impedivano a una folla di curiosi d'entrare.
- Dottor Vocalòpulo! - gridava un giovanotto tra la folla.
Il dottore si voltò e gridò a sua volta alle guardie:
- Lo lascino passare: è il mio assistente.
Entri, dottor Sià.
I quattro militi si riposavano un po', preparando le cinghie per la salita.
Il portone fu chiuso.
La gente di fuori vi picchiava con le mani e coi piedi, fischiando, vociando.
- Ebbene? - domandò il dottor Vocalòpulo al Sià che sbuffava ancora, tutto sudato.
- La donna?
- Che corsa, caro professore! - rispose il dottor Cosimo Sià.
- La donna? All'ospedale...
Sono tutto sudato! Frattura alla gamba e al braccio...
- Congestione?
- Credo.
Non so...
Son venuto a tempesta.
Che caldo, per bacconaccio! Se potessi avere un bicchier d'acqua...
Il dottor Vocalòpulo scostò un poco la tendina di cerata della barella per vedere il ferito; la riabbassò subito e si volse ai militi:
- Andiamo, sú! Piano e attenzione, figliuoli, mi raccomando.
Mentre si eseguiva con la massima cautela la penosa salita, allo scalpiccío, al rumor delle voci brevi affannose, si schiudevano sui pianerottoli le porte degli altri casigliani.
- Piano, piano...
- ammoniva, quasi a ogni scalino, il dottor Vocalòpulo.
Il Sià veniva dietro, asciugandosi ancora il sudore dalla nuca e dalla fronte, e rispondeva ai casigliani:
- Il signor...
come si chiama? Corsi...
Quarto piano, è vero?
Una signora e una signorina, madre e figlia, scapparono sú di corsa per la scala con un grido d'orrore, e, poco dopo, s'intesero le grida disperate di Adriana.
Il Vocalòpulo scosse la testa, contrariato, e voltosi al Sià:
- Ci badi lei, mi raccomando, - disse, e salí a balzi le altre due branche di scala fino alla porta del Corsi.
- Via, si faccia forza, signora: non gridi cosí! Non capisce che gli farà male? Prego, signore, la conducano di là!
- Voglio vederlo! Mi lascino! Voglio vederlo! - gridava, piangendo e smaniando, Adriana.
E il medico:
- Lo vedrà, non dubiti, non ora però...
La conducano di là!
La barella era già arrivata.
- La porta! - gridò uno dei militi, ansimando.
Il dottor Vocalòpulo accorse ad aprire l'altro battente della porta, mentre Adriana, divincolandosi, trascinava seco le due vicine, imbalordite, verso la barella.
- In quale camera? Prego...
Dov'è il letto? - domandò il dottor Sià.
- Di qua...
ecco! - disse il Vocalòpulo, e gridò alle due pigionali accorse: - Ma la trattengano, perdio! Non son buone neanche da trattenerla?
- Oh Dio benedetto! - esclamò la signora del secondo piano, tozza, popputa, parandosi davanti ad Adriana furibonda.
Le due guardie erano dietro la barella e se ne stavano innanzi alla porta d'ingresso.
A un tratto, per la scala, un vociare e un salire frettoloso di gente.
Certo il portinajo aveva riaperto il portone, e la folla curiosa aveva invaso la scala.
Le due guardie tennero testa all'irruzione.
- Lasciatemi passare! - gridava tra la ressa su gli ultimi scalini, facendosi largo con le braccia, una signora alta, ossuta, vestita di nero, con la faccia pallida, disfatta, e i capelli aridi, ancor neri, non ostante l'età e le sofferenze evidenti.
Si voltava ora di qua ora di là, come se non vedesse: aveva infatti quasi spento lo sguardo tra le palpebre gonfie semichiuse.
Pervenuta alla fine innanzi alla porta, con l'aiuto di un giovinotto ben vestito, che le veniva dietro, fu su la soglia fermata dalle guardie:
- Non si entra!
- Sono la madre! - rispose imperiosamente e, con un gesto che non ammetteva replica, scostò le guardie e s'introdusse in casa.
Il giovinotto ben vestito sguisciò dentro, dietro a lei, dandosi a vedere come uno della famiglia anche lui.
La nuova arrivata si diresse a una stanza quasi buja, con un sol finestrino ferrato presso il tetto.
Non discernendo nulla, chiamò forte:
- Adriana!
Questa, che se ne stava tra le due pigionali che cercavano scioccamente di confortarla, balzò in piedi, gridando:
- Mamma!
- Vieni! vieni con me, figlia mia! povera figlia mia! Andiamocene subito! - disse in fretta, con voce vibrante di sdegno e di dolore, la vecchia signora.
- Non m'abbracciare! Tu non devi rimanere piú qua un solo minuto!
- Oh! mamma! mamma mia! - piangeva intanto Adriana, con le braccia al collo della madre.
Questa si sciolse dall'abbraccio, gemendo:
- Figlia disgraziata, piú di tua madre!
Poi dominando la commozione, riprese con l'accento di prima:
- Un cappello, subito! uno scialle! Prendi questo mio...
Andiamocene subito, coi bambini...
Dove sono? Già mi scottano i piedi, qua...
Maledici questa casa, com'io la maledico!
- Mamma...
che dici, mamma? - domandò Adriana, smarrita nell'atroce cordoglio.
- Ah, non sai? Non sai nulla ancora? non t'hanno detto nulla? non hai nulla sospettato? Tuo marito è un assassino! - gridò la vecchia signora.
- Ma è ferito, mamma!
- Da sé s'è ferito, con le sue mani! Ha ucciso il Nori, capisci? Ti tradiva con la moglie del Nori...
E lei s'è buttata dalla finestra...
Adriana cacciò un urlo e s'abbandonò su la madre, priva di sensi.
Ma la madre, non badandole, sorreggendola, seguitava a dirle tutta tremante:
- Per quella lí...
per quella lí...
te, te, figlia, angelo mio, ch'egli non era degno di guardare...
Assassino!...
Per quella lí...
capisci? capisci?
E con una mano le batteva dolcemente la spalla, carezzandola, quasi ninnandola con quelle parole.
- Che disgrazia! che tragedia! Ma com'è avvenuto? - domandò sottovoce la signora tozza del secondo piano al giovinotto ben vestito che si teneva in un angolo, con un taccuino in mano.
- Quella è la moglie? - domandò il giovinotto a sua volta, in luogo di rispondere.
- Scusi, saprebbe dirmi il casato?
- Di lei?...
Sí, fa Montesani, lei.
- E il nome, scusi?
- Adriana.
Lei è giornalista?
- Zitta, per carità! A servirla.
E mi dica, quella è la madre, è vero?
- La madre di lei, la signora Amalia, sissignore.
- Amalia, grazie, grazie.
Una tragedia, sí signora, una vera tragedia...
- È morta lei, la Noti?
- Ma che morta! La mal'erba, lei m'insegna...
È morto lui, invece, il marito.
- Il giudice?
- Giudice? No, sostituto procuratore del re.
- Sí, quel giovane...
brutto, insomma, mingherlino, calabrese, venuto da poco...
Erano tanto amici col signor Tommaso!
- Eh, si sa! - sghignò il giovinotto.
- Avviene sempre cosí, lei m'insegna...
Ma, scusi, il Corsi dov'è? Vorrei vederlo...
Se lei m'indicasse...
- Ecco, vada di là...
Dopo quella stanza, l'uscio a destra.
- Grazie, signora.
Scusi un'altra domanda: Quanti figliuoli?
- Due.
Due angioletti! Un maschietto di otto anni, una bambina di cinque...
- Grazie di nuovo; scusi...
Il giovinotto s'avviò, seguendo l'indicazione, alla camera del ferito.
Passando per la saletta d'ingresso, sorprese il bel ragazzo del Corsi che, con gli occhi sfavillanti, un sorriso nervoso su le labbra e le mani dietro la schiena, domandava a una delle guardie:
- E dimmi una cosa: come gli ha sparato, col fucile?
III
Tommaso Corsi, col torso nudo, poderoso, sorretto da guanciali, teneva i grandi occhi neri e lucidissimi intenti sul dottor Vocalòpulo, il quale, scamiciato, con le maniche rimboccate su le magre braccia pelose, premeva e studiava da presso la ferita.
Di tanto in tanto gli occhi del Corsi si levavano anche su l'altro medico, come se, nell'attesa che qualcosa a un tratto dovesse mancargli dentro, volesse coglierne il segno o il momento negli occhi altrui.
L'estremo pallore cresceva bellezza al suo maschio volto di solito acceso.
Ora egli fissò sul giornalista, che entrava timido, perplesso, uno sguardo fiero, come se gli domandasse chi fosse e che volesse.
Il giovinotto impallidí, appressandosi al letto, pur senza poter chinare gli occhi, quasi ammaliato da quello sguardo.
- Oh, Vivoli! - disse il dottor Vocalòpulo, voltandosi appena.
Il Corsi chiuse gli occhi, traendo per le nari un lungo respiro.
Lello Vivoli aspettò che il Vocalòpulo gli volgesse di nuovo lo sguardo; ma poi, impaziente:
- Ss, - lo chiamò piano e, accennando il giacente, domandò come stesse, con un gesto della mano.
Il dottore alzò le spalle e chiuse gli occhi, poi con un dito accennò la ferita alla mammella sinistra.
- Allora...
- disse il Vivoli, alzando una mano in atto di benedire.
Una goccia di sangue si partí dalla ferita e rigò lungamente il petto.
Il dottore la deterse con un bioccolo di bambagia, dicendo quasi tra sé:
- Dove diavolo si sarà cacciata la palla?
- Non si sa? - domandò timidamente il Vivoli, senza staccar gli occhi dalla ferita, non ostante il ribrezzo che ne provava.
- E di', sai di che calibro era?
- Nove...
calibro nove, - interloquí con evidente soddisfazione il giovine dottor Sià.
- Dalla ferita si può arguire...
- Suppongo, - rispose il Vocalòpulo accigliato, assorto, - che si sia cacciata qua sotto la scapola...
Eh sí, purtroppo...
il polmone...
E torse la bocca.
Indovinare, determinare il corso capriccioso della palla: per il momento, non si trattava d'altro per lui.
Gli stava davanti un paziente qualunque, sul quale egli doveva esercitare la sua bravura, valendosi di tutti gli espedienti della sua scienza: oltre a questo suo compito materiale e limitato non vedeva nulla, non pensava a nulla.
Solo, la presenza del Vivoli gli fece considerare che, essendo il Corsi conosciutissimo nella città e avendo quella tragedia sconvolto tutta la cittadinanza, poteva giovargli che il pubblico sapesse che il dottor Vocalòpulo era il medico curante.
- Oh, Vivoli, dirai che è affidato alle mie cure.
Il dottor Cosimo Sià dall'altra sponda del letto tossí leggermente.
- E puoi aggiungere, - riprese il Vocalòpulo, - che sono assistito dal dottor Cosimo Sià: te lo presento.
Il Vivoli chinò appena il capo, con un lieve sorriso.
Il Sià, che s'era precipitato con la mano tesa per stringer quella del Vivoli, all'inchino sostenuto di questo, restò goffo, arrossí, trinciò in aria con la mano già tesa un saluto, come per dire: - Ecco, fa lo stesso: Saluto cosí!
Il moribondo schiuse gli occhi e aggrottò le ciglia.
I due medici e il Vivoli lo guardarono quasi con paura.
- Adesso lo fasceremo, - disse con voce premurosa, chinandosi su lui, il Vocalòpulo.
Tommaso Corsi scosse la testa sul guanciale, poi riabbassò lentamente le palpebre su gli occhi foschi, come se non avesse compreso: cosí almeno parve al dottor Vocalòpulo, il quale, storcendo un'altra volta la bocca, mormorò:
- La febbre...
- Io scappo, - disse piano il Vivoli, salutando con la mano il Vocalòpulo e di nuovo inchinando appena il capo al Sià, che rispose, questa volta, con un inchino frettoloso.
- Sià, venga da questa parte.
Bisogna sollevarlo.
Ci vorrebbero due dei nostri infermieri...
- esclamò il Vocalòpulo.
- Basta, ci proveremo.
Ma tengo a fare una sola fasciatura, ben solida, e lí.
- Lo laviamo, ora? - domandò il Sià.
- Sí! L'alcool dov'è? e il catino, prego.
Cosí, aspetti...
Intanto, lei prepari le fasce.
Preparate? Poi la vescica di ghiaccio.
Tommaso Corsi, allorché il dottor Vocalòpulo si fece a fasciarlo, aprí gli occhi, s'infoscò in volto, tentò con una mano di scostar dal petto quelle del dottore, dicendo con voce cavernosa:
- No...
no...
- Come no? - domandò, sorpreso, il dottor Vocalòpulo.
Ma un empito di sangue impedí al Corsi di rispondere, e le parole gli gorgogliarono nella strozza soffocate dalla tosse.
Poi giacque, prostrato, privo di sensi.
E allora fu ripulito e fasciato a dovere dai due medici curanti.
IV
- No, mamma, no...
E come potrei? - rispose Adriana, appena rinvenuta, all'ingiunzione della madre d'abbandonar la casa del marito insieme coi figliuoli.
Si sentiva quasi inchiodata lí, su la seggiola, stordita e tremante, come se un fulmine le fosse caduto da presso.
E invano la madre le smaniava innanzi e la spingeva:
- Via, via, Adriana! Non mi senti?
Si era lasciata mettere uno scialletto addosso e il cappello, e guardava innanzi a sé, come una mendicante.
Non riusciva ancora a farsi un'idea dell'accaduto.
Che le diceva la madre? d'abbandonar quella casa? e come mai, in quel momento? O prima o poi avrebbe dovuto abbandonarla pur sempre? Perché? Il marito non le apparteneva piú? Si era spenta in lei l'ansia di vederlo.
Che volevano intanto quelle due guardie che la madre le accennava lí nella saletta d'ingresso?
- Meglio che muoja! Se vive, in galera!
- Mamma! - supplicò, guardandola.
Ma riabbassò subito gli occhi per trattenere le lagrime.
Sul volto della madre rilesse la condanna del marito: - "Ha ucciso il Nori; ti tradiva con la moglie del Nori".
- Non sapeva però, né poteva ancor quasi pensarlo, né immaginarlo: si vedeva ancora la barella sotto gli occhi e non poteva immaginare altri che lui - Tommaso - ferito, forse moribondo, lí...
E Tommaso dunque aveva ucciso il Nori? aveva una tresca con Angelica Nori, e tutt'e due erano stati scoperti dal marito? Pensò che Tommaso portava sempre con sé la rivoltella.
Per il Nori? No: l'aveva sempre portata, e il Nori e la moglie erano in città da un anno soltanto.
Nello scompiglio della coscienza, una moltitudine d'immagini si ridestavano in lei tumultuosamente: l'una chiamava l'altra e insieme si raggruppavano in balenanti scene precise e subito si disgregavano per ricomporsi in altre scene con vertiginosa rapidità.
Quei due eran venuti da un paese di Calabria accompagnati da una lettera di presentazione a Tommaso, il quale li aveva accolti con la festosa espansione della sua indole sempre gioconda, con aria confidenziale, col sorriso schietto di quel suo maschio volto, in cui gli occhi lampeggiavano, esprimendo la vitalità piena, l'energia operosa, costante, che lo rendevano caro a tutti.
Da quest'indole vivacissima, da questa natura esuberante, in continuo bisogno d'espandersi quasi con violenza, ella era stata investita fin dai primi giorni del matrimonio: s'era sentita trascinare dalla fretta ch'egli aveva di vivere: anzi furia, piú che fretta: vivere senza tregua, senza tanti scrupoli, senza tanto riflettere; vivere e lasciar vivere, passando sopra a ogni impedimento, a ogni ostacolo.
Piú volte ella si era arrestata un po' in questa corsa, per giudicare fra sé qualche azione di lui non stimata perfettamente corretta.
Ma egli non dava tempo al giudizio, come non dava peso ai suoi atti.
Ed ella sapeva ch'era inutile richiamarlo indietro a considerare il mal fatto: scrollava le spalle, sorrideva, e avanti! aveva bisogno d'andare avanti a ogni modo, per ogni via, senza indugiarsi a riflettere tra il bene e il male; e rimaneva sempre alacre e schietto, purificato dall'attività incessante, e sempre lieto e largo di favori a tutti, con tutti alla mano: a trent'otto anni, un fanciullone, capacissimo di mettersi a giocar sul serio coi due figliuoli, e ancora, dopo dieci anni di matrimonio, cosí innamorato di lei, che ella tante volte, anche di recente, aveva dovuto arrossire per qualche atto imprudente di lui innanzi ai bambini o alla serva.
E ora, cosí d'un colpo, quest'arresto fulmineo, questo scoppio! Ma come? come? La cruda prova del fatto non riusciva ancora a dissociare in lei i sentimenti, piú che di solida stima, d'amore fortissimo e devoto per il marito, da cui si sentiva in cuor suo ricambiata.
Forse qualche lieve inganno, sí, sotto quella tumultuosa vitalità; ma la menzogna, no, la menzogna non poteva annidarsi sotto l'allegria costante di lui.
Che egli avesse una tresca con Angelica Nori, non significava, no, aver tradito lei, la moglie; e questo la madre non poteva comprenderlo, perché non sapeva, non sapeva tante cose...
Egli non poteva aver mentito con quelle labbra, con quegli occhi, con quel riso che allegrava tutti i giorni la casa.
- Angelica Nori? Oh ella sapeva bene che cosa fosse costei, anche per il marito: neppure un capriccio: nulla, nulla! la prova soltanto d'una debolezza, nella quale nessun uomo forse sa o può guardarsi dal cadere...
Ma in quale abisso era egli adesso caduto? e la sua casa e lei coi figliuoli giú, giú con lui?
- Figli miei! figli miei! - proruppe alla fine, singhiozzando, con le mani sul volto, quasi per non veder l'abisso che le si spalancava orribile davanti.
- Portali via con te, - aggiunse, rivolgendosi alla madre.
- Loro sí, portali via, ché non vedano...
Io no, mamma: io resto.
Te ne prego...
Si alzò e, cercando alla meglio di trattener le lagrime, andò, seguita dalla madre, in cerca dei bambini che giocavano tra loro in un camerino, ove la serva li aveva chiusi.
Si mise a vestirli, soffocando i singhiozzi che le irrompevano dal petto a ogni loro lieta domanda infantile.
- Con la nonna, sí...
a spasso con la nonna...
E il cavalluccio, sí...
la sciabola pure...
Te li compra la nonna...
Questa contemplava, straziata, la sua cara figliuola, la creatura sua adorata, tanto buona, tanto bella, per cui tutto ormai era finito; e, nell'odio feroce contro colui che gliela faceva soffrir cosí, avrebbe voluto strapparle dalle mani quel bambino che somigliava tutto al padre, fin nella voce e nei gesti.
- Non vuoi proprio venire? - domandò alla figlia, quando i bambini furono pronti.
- Io, bada, qua non metto piú piede.
Resti sola...
La casa di tua madre è aperta.
Ci verrai, se non oggi, domani.
Ma già, anche se non morisse...
- Mamma! - supplicò Adriana, additandole i bambini.
La vecchia signora tacque e andò via coi nipotini, vedendo uscire dalla camera del ferito il dottor Vocalòpulo.
Questi si appressò ad Adriana per raccomandarle di non farsi vedere per il momento dal marito.
- Un'emozione improvvisa, anche lieve, potrebbe riuscirgli fatale.
Non si faccia nulla, per carità, che possa contrariarlo o impressionarlo in qualche modo.
Questa notte resterà a vegliarlo il mio collega.
Se ci fosse bisogno di me...
Non terminò il discorso, notando che ella non gli dava ascolto né gli domandava notizie intorno alla gravità della ferita, e che aveva in capo il cappellino, come se stesse per abbandonare la casa.
Socchiuse gli occhi, scosse un po' il capo, sospirando, e andò via.
V
Nella notte, Tommaso Corsi si riscosse incosciente dal letargo.
Stordito dalla febbre, teneva gli occhi aperti nella penombra della camera.
Un lampadino ardeva sul cassettone, riparato da uno specchio a tre luci: il lume si projettava su la parete vivamente, precisando il disegno e i colori della carta da parato.
Aveva solo la sensazione che il letto fosse piú alto, e che soltanto per ciò notasse in quella camera qualcosa che prima non vi aveva mai notato.
Vedeva meglio l'insieme dell'arredo, il quale, nella quiete altissima, gli pareva spirasse, dall'immobilità sua quasi rassegnata, un conforto familiare, a cui le ricche tende, che dall'alto scendevano fin sul tappeto, davano un'aria insolita di solennità.
"Noi siamo qui, come tu ci hai voluti, per i tuoi comodi" pareva gli dicessero, nella coscienza che man mano si risentiva, i varii oggetti della camera: "siamo la tua casa: tutto è come prima".
A un tratto richiuse gli occhi, quasi abbagliato bruscamente nella penombra da un lampo di luce cruda: la luce che s'era fatta in quell'altra camera, quando colei, urlando, aveva aperto la finestra, d'onde s'era buttata.
Riebbe allora, d'un subito, la memoria orrenda: rivide tutto, come se accadesse proprio allora.
Egli, trattenuto dall'istintivo pudore, non riusciva a balzar dal letto, svestito com'era, e il Noti, ecco, gli esplodeva contro il primo colpo che infrangeva il vetro di un'immagine sacra al capezzale; egli tendeva la mano alla rivoltella sul comodino, ed ecco il sibilo della seconda palla innanzi al volto...
Ma non ricordava d'aver tirato sul Noti: solo quando questi era caduto a sedere sul pavimento, e poi s'era ripiegato bocconi, egli s'era accorto d'aver l'arma ancor calda e fumante in pugno.
Era allora saltato dal letto e, in un attimo, entro di sé, la tremenda lotta di tutte le energie vitali contro l'idea della morte; prima, l'orrore di essa; poi la necessità e il sorgere d'un sentimento atroce, oscuro, a vincere ogni ripugnanza e ogni altro sentimento.
Aveva guardato il cadavere, la finestra donde quella era saltata; aveva udito i clamori della via sottostante, e s'era sentito aprire come un abisso nella coscienza: allora la determinazione violenta gli s'era imposta lucidamente, come un atto a lungo meditato e discusso.
Sí.
Cosí era stato.
- No -, diceva a se stesso, un istante dopo, riaprendo gli occhi brillanti di febbre.
- No; se questa è la mia casa, se io sto qui sul mio letto...
Gli pareva di udir voci liete e confuse di là, nelle altre stanze.
Aveva fatto mettere quelle tende nuove e i tappeti alle stanze per il battesimo dell'ultimo bambino, morto di venti giorni.
Ecco, gli invitati tornavano or ora dalla chiesa.
Angelica Noti, a cui egli offriva il braccio, glielo stringeva a un tratto furtivamente con la mano; egli si voltava a guardarla, stupito, ed ella accoglieva quello sguardo con un sorriso impudente, da scema, e chiudeva voluttuosamente le palpebre su i grandi occhi neri, globulenti, in presenza di tutti.
"Quel bambino è morto, - pensava ora egli, - perché l'ha tenuto a battesimo colui, ch'era fra l'altro un jettatore."
Immagini imprevedute, visioni strane, confuse, sensazioni fantastiche, improvvise, pensieri lucidi e precisi, si avvicendavano in lui, nel delirio intermittente.
Sí, sí, lo aveva ucciso.
Ma due volte quel forsennato s'era messo per uccider lui, ed egli nel volgersi per prendere l'arma dal comodino gli aveva gridato sorridendo: "Che fai?" tanto gli pareva impossibile che colui, prima ch'egli si vedesse costretto a minacciarlo e a reagire, non comprendesse ch'era un'infamia, una pazzia ucciderlo a quel modo, in quel momento, uccider lui che si trovava lí per caso, che aveva tant'altra vita fuori di lí: i suoi affari, gli affetti suoi vivi e veri, la sua famiglia, i figli da difendere.
Eh via, disgraziato!
Come mai tutt'a un tratto, quell'omiciattolo sbricio, brutto, scialbo, dall'anima apatica, attediata, che si trascinava nella vita senza alcuna voglia, senz'alcun affetto, e che da tant'anni si sapeva spudoratamente ingannato dalla moglie e non se ne curava, a cui pareva costasse pena e fatica guardare o trar fuori quella sua voce molle miagolante; come mai, tutt'a un tratto, s'era sentito muovere il sangue e per lui soltanto? Non sapeva che donna fosse sua moglie? e non sentiva ch'era una cosa ridicola e pazza e infame nello stesso tempo difender a quel modo ancora l'onor suo affidato a colei, che ne aveva fatto strazio tant'anni, senza che egli avesse mai mostrato d'accorgersene? Ma aveva pure assistito - sí, sí - a tante scene familiari, in cui ella, proprio sotto gli occhi di lui, sotto gli occhi stessi d'Adriana, aveva cercato di sedurlo con quei suoi lezii da scimmietta patita.
Adriana sí se n'era accorta, e lui no? Ne avevano riso tanto insieme, lui e Adriana.
Per una donna come quella lí, dunque, sul serio, una tragedia? Lo scandalo, la morte di lui, la sua morte? Oh, per quel disgraziato, forse, era stata un bene la morte; un regalo! Ma egli...
doveva egli morire per cosí poco? Sul momento, col cadavere sotto gli occhi, assalito dai clamori della via, aveva creduto di non poter farne a meno.
Ebbene, e intanto come mai non era tutto finito? Egli viveva ancora, lí, nella sua stessa camera tranquilla, coricato sul suo letto, come se nulla fosse accaduto.
Ah, se veramente fosse un sogno orribile!...
No: e quel dolore cocente al petto, che gli toglieva il respiro? E poi il letto...
Stese pian piano un braccio nel posto accanto; vuoto...
ecco! Adriana...
Sentí di nuovo l'abisso aprirglisi dentro.
Dov'era ella? e i figliuoli? Lo avevano abbandonato? Solo, dunque, nella casa? e come mai?
Riaprí gli occhi per accertarsi, se quella fosse veramente la sua camera da letto.
Sí: tutto come prima.
Allora un dubbio crudele, in quell'alternativa di delirio e di lucidità mentale, lo vinse: non sapeva piú se, aprendo gli occhi, vedesse per allucinazione la sua camera che spirava la pace consueta, o se sognasse chiudendo gli occhi e rivedendo, con lucidezza di percezione ch'era quasi realtà, l'orribile tragedia della mattina.
Emise un gemito, e subito davanti a gli occhi si vide un volto sconosciuto; sentí posarsi una mano su la fronte, la cui pressione lo confortava, e richiuse gli occhi sospirando, sentendo di dover rassegnarsi a non comprendere piú nulla, a non saper che cosa fosse veramente accaduto.
Era fors'anche sogno quel volto or ora intraveduto, la mano che gli premeva la fronte...
E ricadde nel letargo.
Il dottor Sià si accostò in punta di piedi a un angolo della camera quasi al bujo, dove Adriana vegliava nascosta.
- Forse è meglio, - le disse sottovoce, - che si mandi per il dottor Vocalòpulo.
La febbre cresce e l'aspetto non mi...
S'interruppe; le domandò:
- Vuol vederlo?
Adriana fece segno di no col capo, angosciata.
Poi, sentendo di non poter trattenere un empito improvviso di pianto, balzò in piedi e scappò via dalla camera.
Il dottor Sià richiuse, cauto, l'uscio per impedire che giungesse all'orecchio del morente il pianto convulso della moglie; poi tolse dal petto di lui la vescica, ne vuotò l'acqua e, riempitala novamente di pezzetti di ghiaccio, la ripose su la fasciatura al posto della ferita.
- Ecco fatto.
Osservò quindi di nuovo, a lungo, il volto del giacente, ne ascoltò la respirazione affannosa; poi, non avendo altro da fare, e come se per lui bastasse l'aver provveduto al ghiaccio e l'aver fatto quelle osservazioni, ritornò al proprio posto, alla poltrona, dall'altra parte del letto.
Lí, con gli occhi chiusi, godeva di lasciarsi prendere a mano a mano dal sonno, spegnendo gradatamente in sé la volontà di resistervi, fino al punto estremo in cui il capo gli dava un crollo: schiudeva allora gli occhi e tornava da capo ad abbandonarsi a quella voluttà proibita, che quasi lo inebriava.
VI
Le complicazioni temute dal dottor Vocalòpulo si verificarono pur troppo: prima e piú grave fra tutte, l'infiammazione polmonare, che cagionava quell'altissima febbre.
Senza alcuna preoccupazione estranea alla scienza, di cui era fervidamente appassionato, il dottor Vocalòpulo raddoppiò lo zelo, come se si fosse fatta una fissazione di salvare a ogni costo quel moribondo.
Negli infermi sotto la sua cura egli non vedeva uomini ma casi da studiare: un bel caso, un caso strano, un caso mediocre o comune; quasi che le infermità umane dovessero servire per gli esperimenti della scienza, e non la scienza per le infermità.
Un caso grave e complicato lo interessava sempre a quel modo; ed egli allora non sapeva staccare piú il pensiero dal malato: metteva in pratica le piú recenti esperienze delle primarie cliniche del mondo, di cui consultava scrupolosamente i bollettini, le rassegne e le minute esposizioni dei tentativi, degli espedienti dei piú grandi luminari della scienza medica, e spesso adottava le cure piú arrischiate con fermo coraggio, con fiducia incrollabile.
Si era costituita cosí una grande reputazione.
Ogni anno faceva un viaggio e ritornava entusiasta degli esperimenti a cui aveva assistito, soddisfatto di qualche nuova cognizione appresa, provvisto di nuovi e piú perfezionati strumenti chirurgici, che disponeva - dopo averne studiato minutamente il congegno e averli ripuliti con la massima cura - entro l'armamentario di cristallo, che aveva la forma di un'urna, lí, in mezzo al camerone da studio, e, chiusi, li contemplava ancora, stropicciandosi le mani solide, sempre fredde, o stirandosi con due dita il naso armato di quel pajo di lenti fortissime, che accrescevano la rigidezza austera del suo volto pallido, lungo, equino.
Attorno al letto del Corsi condusse alcuni suoi colleghi, a studiare, a discutere; spiegò tutti i suoi tentativi, l'uno piú nuovo e piú ingegnoso dell'altro, finora però riusciti vani.
Il ferito, sotto quell'altissima febbre, restava in uno stato quasi letargico, interrotto tuttavia da certe crisi di smania delirante, nelle quali, piú d'una volta, eludendo la vigilanza, aveva finanche tentato di disfare la fasciatura.
Di questo "fenomeno" il Vocalòpulo non si era curato piú di tanto; gli era bastato di raccomandare al dottor Sià maggiore attenzione.
Aveva potuto, per mezzo della radiografia, estrarre il projettile di sotto l'ascella, aveva rischiosamente applicato i lenzuoli freddi per abbassare la temperatura.
E finalmente c'era riuscito! La febbre era abbassata, l'infiammazione polmonare era vinta, il pericolo quasi superato.
Nessun compenso materiale avrebbe potuto uguagliare la soddisfazione morale del dottor Vocalòpulo.
Era raggiante; e il dottor Sià con lui, per riflesso.
- Collega, collega, qua la mano! Questo si chiama vincere.
Il Sià gli rispondeva con una sola parola:
- Miracoloso!
Ora la primavera imminente avrebbe senza dubbio affrettato la convalescenza.
Già l'infermo cominciava a risentirsi un po', a uscir dallo stato d'incoscienza in cui s'era mantenuto per tanti giorni.
Ma non sapeva ancora, non sospettava neppure, come si fosse ridotto.
Una mattina, si provò a sollevare le mani dal letto, per guardarsele e, nel veder le dita esangui tremolare, sorrise.
Si sentiva ancora come nel vuoto, in un vuoto però tranquillo, soave, di sogno.
Solo qualche minuzia, lí, nella camera, gli s'avvistava di tratto in tratto: un fregio dipinto nel soffitto, la peluria verde della coperta di lana sul letto, che gli richiamava alla memoria i fili d'erba d'un prato o d'una ajuola; e vi concentrava tutta l'attenzione, beato; poi, prima di stancarsene, richiudeva gli occhi e provava un dolce smarrimento d'ebbrezza, vaneggiava in una delizia ineffabile.
Tutto, tutto era finito; la vita ricominciava adesso...
Ma non era forse rimasta sospesa anche per gli altri? No, no: ecco: un rumor di vettura...
Fuori, per le vie, la vita in tutto quel tempo aveva seguito il suo corso...
Provò come una vellicazione irritante al ventre, a questo pensiero che oscuramente lo contrariava; e si rimise a guardar la calugine verde della coperta, dove gli pareva di veder la campagna: qua la vita, sí, ricominciava veramente, con tutti quei fili d'erba...
E anche cosí per lui ricominciava...
Nuovo, tutto nuovo, egli si sarebbe riaffacciato alla vita...
Un po' d'aria fresca! Ah, se il medico avesse voluto aprirgli un tantino la finestra...
- Dottore, - chiamò; e la sua stessa voce gli fece una strana impressione.
Ma nessuno rispose.
Si provò a guardar nella camera.
Nessuno...
Come mai? Dov'era? - Adriana! Adriana! - Un'angosciosa tenerezza per la moglie lo vinse; e si mise a piangere come un bambino, nel desiderio cocente di buttarle le braccia al collo e stringersela forte, forte al petto...
Chiamò di nuovo, nel dolce pianto:
- Adriana! Adriana!...
Dottore!
Nessuno sentiva? Sgomento, allora, soffocato, stese un braccio al campanello sul comodino; ma avvertí subito un'acuta trafittura interna, che lo tenne un tratto quasi senza respiro, col volto pallido, contratto dallo spasimo; poi sonò, sonò furiosamente.
Accorse, con la sua aria spiritata, il dottor Sià:
- Eccomi! Che abbiamo, signor Tommaso?
- Solo! Mi hanno lasciato solo...
- Ebbene? E perché codesta agitazione? Eccomi qua.
- No.
Adriana! Mi chiami Adriana...
Dov'è? Voglio vederla.
Comandava ora, eh? Il dottor Sià fece un viso lungo lungo e piegò il capo da un lato:
- Cosí, no! Se non si calma, no.
- Voglio veder mia moglie! - replicò egli stizzito, imperioso.
- Può proibirmelo lei?
Il Sià sorrise, perplesso:
- Ecco...
vorrei che...
No no, si stia zitto: vado a chiamargliela.
Non ce ne fu bisogno.
Adriana era dietro l'uscio: si asciugò in fretta le lagrime, accorse, si buttò singhiozzando tra le braccia del marito, come in un abisso d'amore e di disperazione.
Egli non provò dapprima che la gioja di tenersi cosí stretta quella sua adorata, il cui calore, l'odor dei capelli, lo inebriavano.
Quanto, quanto, quanto la amava...
Ma, a un tratto, la sentí singhiozzare.
Si provò a sollevarle con tutt'e due le mani il capo che si affondava su lui; non ne ebbe la forza, e si volse, stordito, al dottor Sià.
Questi accorse e costrinse la signora a strapparsi dal letto; la condusse, sorreggendola in quella crisi violenta di pianto, fuori della camera; poi ritornò presso il convalescente.
- Perché? - domandò il Corsi, sconvolto.
Un pensiero gli attraversò la mente, in un baleno.
Senza badare alla risposta del medico, il Corsi richiuse gli occhi, trafitto.
"Non mi perdona" pensò.
VII
Alle notizie di miglioramento, di prossima guarigione era cresciuta la sorveglianza alla casa del ferito.
Il dottor Vocalòpulo, temendo che l'autorità giudiziaria desse intempestivamente l'ordine che fosse tradotto in carcere, pensò di recarsi da un avvocato amico suo e del Corsi, e a cui il Corsi certamente avrebbe affidato la sua difesa, per pregarlo di andare insieme dal questore a impegnar la loro parola, che l'infermo non avrebbe in alcun modo tentato di sottrarsi alla giustizia.
L'avvocato Camillo Cimetta accettò l'invito.
Era un uomo sui sessant'anni, smilzo, altissimo di statura, tutto gambe.
Gli spiccavano stranamente nel volto squallido, giallognolo, malaticcio, gli occhietti neri, acuti, d'una vivacità straordinaria.
Dotto piú di filosofia che di legge, scettico, oppresso dalla noja della vita, stanco delle amarezze che essa gli aveva procacciate, non aveva mai posto alcun impegno a guadagnarsi la grandissima fama di cui godeva e che gli aveva procurato una ricchezza di cui non sapeva piú che farsi.
La moglie, donna bellissima, insensibile, dispotica, che lo aveva torturato per tanti anni, gli s'era uccisa per neurastenia; l'unica figliuola gli era fuggita di casa con un misero scritturale del suo studio ed era morta soprapparto, dopo aver sofferto un anno di maltrattamenti dal marito indegno.
Era rimasto solo, senza piú scopo nella vita, e aveva rifiutato ogni carica onorifica, la soddisfazione di far valere le sue doti non comuni in una grande città.
E mentre i suoi colleghi si presentavano al banco dell'accusa o della difesa armati di cavilli, abbottati di procedura, o si empivano la bocca di paroloni altisonanti, egli, che non poteva soffrire la toga che l'usciere gli poneva su le spalle, si alzava con le mani in tasca e si metteva a parlare ai giurati, ai giudici, con la massima naturalezza, alla buona, cercando di presentare con la maggiore evidenza possibile qualche pensiero che potesse logicamente far loro impressione; distruggeva con irresistibile arguzia le magnifiche architetture oratorie de' suoi avversarii, e riusciva cosí talvolta ad abbattere i confini formalistici del tristo ambiente giudiziario, perché un'aura di vita vi spirasse, vi passasse un soffio doloroso di umanità, di pietà fraterna, oltre e sopra la legge, per l'uomo nato a soffrire, a errare.
Ottenuta dal questore la promessa che la traduzione in carcere non sarebbe avvenuta se non dopo il consenso del medico, egli e il dottor Vocalòpulo si recarono insieme alla casa del Corsi.
In pochi giorni Adriana si era cangiata cosí, che non pareva piú lei.
- Eccole, signora, il nostro caro avvocato, - le disse il Vocalòpulo.
- Sarà meglio preparare a poco a poco il convalescente alla dura necessità...
- E come, dottore? - esclamò Adriana.
- Pare che egli non ne abbia ancora il piú lontano sospetto.
È come un fanciullo...
si commuove per ogni nonnulla...
Giusto questa mattina mi diceva che, appena in grado di muoversi, vuole andare in campagna, in villeggiatura per un mese...
Il Vocalòpulo sospirò, stirandosi al solito il naso.
Stette un po' a pensare, poi disse:
- Aspettiamo qualche altro giorno.
Intanto facciamogli vedere l'avvocato.
Non è possibile che il pensiero della punizione non gli si affacci.
- E lei crede, avvocato, - domandò Adriana, - crede che sarà grave?
Il Cimetta chiuse gli occhi, aprí le braccia.
Gli occhi di Adriana si riempirono di lagrime.
Giunse, in quella, dall'altra stanza la voce dell'infermo.
Subito Adriana accorse.
- Mi permettano!
Tommaso le tendeva le braccia dal letto.
Ma appena le vide gli occhi rossi di pianto, le prese un braccio e, nascondendovi il volto, le disse:
- Ancora, dunque? non mi perdoni ancora?
Adriana strinse le labbra tremanti, mentre nuove lagrime le sgorgavano dagli occhi; e non trovò in prima la voce per rispondergli.
- No? - insistette egli, senza scoprire il volto.
- Io sí, - rispose Adriana, angosciata, timidamente.
- E allora? - ripigliò il Corsi, guardandola negli occhi lagrimosi.
Le prese il volto tra le mani, e aggiunse:
- Lo comprendi, lo senti, è vero? che tu mai, mai, nel mio cuore, nel mio pensiero, non sei venuta mai meno, tu santa mia, amore, amore mio...
Adriana gli carezzò lievemente i capelli.
- È stata un'infamia! - riprese egli.
- Sí, è bene, è bene che te lo dica, per togliere ogni nube fra noi.
Un'infamia sorprendermi in quel momento vergognoso, di stupido ozio...
Tu lo comprendi, se mi hai perdonato! Stupido fallo, che quel disgraziato ha voluto rendere enorme, tentando d'uccidermi, capisci? due volte...
Uccider me, proprio me, che dovevo per forza difendermi...
perché...
tu lo comprendi! non potevo lasciarmi uccidere per quella lí, è vero?
- Sí, sí, - diceva Adriana, piangendo, per calmarlo, piú col cenno che con la voce.
- È vero? - seguitò egli con forza.
- Non potevo...
per voi! Glielo dissi; ma egli era come impazzito, tutt'a un tratto; m'era venuto sopra, con l'arma in pugno...
E allora io, per forza...
- Sí, sí, - ripeté Adriana, ringojando le lagrime.
- Calmati, sí...
Queste cose...
S'interruppe, vedendo il marito abbandonarsi sfinito sui guanciali, e chiamò forte:
- Dottore! Queste cose, - seguitò alzandosi e chinandosi sul letto, premurosa, - tu le dirai...
le dirai ai giudici, e vedrai che...
Tommaso Corsi si rizzò improvvisamente su un gomito e guardò fiso il dottore e il Cimetta che gli si facevano incontro.
- Ma io, - disse, - eh già...
il processo...
Allividí.
Ricadde sul letto, annichilito.
- Formalità...
- si lasciò cadere dalle labbra il Vocalòpulo, accostandosi di piú al letto.
- E quale altra punizione, - fece il Corsi, quasi tra sé, guardando il soffitto con gli occhi sbarrati, - quale altra punizione maggiore di quella che mi son data io, con le mie mani?
Il Cimetta trasse una mano dalla tasca e agitò l'indice in segno negativo.
- Non conta? - domandò il Corsi.
- E allora?...
- si provò a replicare; ma si riprese: - Eh già! Sí, sí...
Ci credi? Mi pareva che tutto fosse finito...
Adriana! - chiamò, e le buttò di nuovo le braccia al collo.
- Adriana! Sono perduto!
Il Cimetta, commosso, tentennò a lungo il capo, poi sbuffò:
- E perché? per una minchioneria di passata.
Sarà difficile, difficilissimo, caro dottore, farne capace quella rispettabile istituzione che si chiama giuria.
Non tanto, vedete, per il fatto in sé, quanto perché si tratta d'un sostituto procuratore del re.
Se fosse almeno possibile dimostrare che delle corna precedenti il poveretto s'era già accorto! Ma i mezzi? Un morto non si può chiamare a giurare su la sua parola d'onore...
L'onore dei morti se lo mangiano i vermi.
Che valore può avere l'induzione contro la prova di fatto? Del resto, siamo giusti: su la propria testa ciascuno è padrone di accoglier quelle corna che gli garbano.
Le tue, caro Tommaso, è chiaro, non le volle.
Tu dici: "Ma potevo lasciarmi uccidere da lui?".
No.
Ma se volevi rispettato questo diritto di non aver tolta la vita, non dovevi andare a prendergli la moglie, quella bertuccia vestita! Cosí facendo, - bada, io vedo adesso le ragioni dell'accusa, - tu stesso hai derogato al tuo diritto, ti sei esposto al rischio, e non dovevi perciò reagire.
Capisci? Due falli.
Del primo, dell'adulterio, dovevi lasciarti punire da lui, dal marito offeso; e tu invece l'hai ucciso...
- Per forza! - gridò il Corsi, levando il volto rabbiosamente contratto.
- Istintivamente! Per non farmi uccidere!
- Ma subito dopo, invece, - rimbeccò il Cimetta - hai tentato di ucciderti con le tue mani.
- E non deve bastare?
Il Cimetta sorrise.
- Non può bastare.
È anzi a tuo danno, caro mio! Perché, tentando d'ucciderti, hai implicitamente riconosciuto il tuo fallo.
- Sí! E mi sono punito!
- No, caro, - disse con calma il Cimetta.
- Hai tentato di sottrarti alla pena.
- Ma togliendomi la vita! - esclamò, infiammato, il Corsi.
- Che potevo fare di piú?
Il Cimetta si strinse nelle spalle, e disse:
- Avresti dovuto morire.
Non essendo morto...
- Ma sarei morto, - riprese il Corsi, allontanando la moglie e additando fieramente il dottor Vocalòpulo, - sarei morto, se lui non avesse fatto di tutto per salvarmi!
- Come...
io? - balbettò il Vocalòpulo, tirato in ballo quando meno se l'aspettava.
- Voi! Sí.
Per forza! Io non volevo le vostre cure.
Per forza avete voluto prodigarmele, ridarmi la vita.
E perché, dunque, se ora...
- Con calma, con calma...
- disse il Vocalòpulo, sorridendo nervosamente a fior di labbra, costernato.
- Vi fate male, agitandovi cosí...
- Grazie, dottore! Quanta premura...
- sghignò il Corsi.
- Vi sta tanto a cuore l'avermi salvato? Ma senti, Cimetta, senti! Io voglio ragionare.
M'ero ucciso.
Viene un dottore, codesto nostro dottore.
Mi salva.
Con qual diritto mi salva? con qual diritto mi ridà la vita ch'io m'ero tolta, se non poteva farmi rivivere per le mie creaturine, se sapeva ciò che m'aspettava?
Il Vocalòpulo tornò a sorridere nervosamente, intorbidandosi in volto.
- Dopo tutto, - disse, - è un bel modo di ringraziarmi, codesto.
Che dovevo fare?
- Ma lasciarmi morire! - proruppe il Corsi, - se non avevate il diritto di sottrarmi alla pena ch'io m'ero data, molto maggiore del mio fallo! Non c'è piú pena di morte; e io sarei morto, senza di voi.
Ora come faccio io? Di che debbo ringraziarvi?
- Ma noi medici, scusate, - rispose, smarrito, il Vocalòpulo, - noi medici non abbiamo di questi diritti: noi medici abbiamo il dovere della nostra professione.
E me n'appello all'avvocato qua presente.
- E in che differisce, allora, - domandò con amaro scherno il Corsi, - codesto vostro dovere da quello d'un aguzzino?
- Oh insomma! - esclamò, scrollandosi tutto, il Vocalòpulo, - vorreste che un medico passasse sopra la legge?
- Ah, bene! Voi dunque la legge avete servito, - riprese il Corsi, con foga rabbiosa.
- La legge; non me, poveretto...
Mi ero tolta la vita; voi me l'avete ridata a forza.
Tre, quattro volte tentai di strapparmi le fasce.
Voi avete fatto di tutto per salvarmi, per ridarmi la vita.
E perché? Perché la legge, ora, di nuovo me la ritolga, e in un modo piú crudele.
Ecco: a questo, dottore, vi ha condotto il dovere della vostra professione.
E non è un'ingiustizia?
- Ma, scusa, - si provò a interloquire il Cimetta, - del male che hai fatto...
- Mi sono lavato, col mio sangue! - compí subito la frase il Corsi, tutto acceso e vibrante.
- Io sono un altro, ora! Io sono rinato! Come posso restar sospeso a un solo momento di quell'altra mia vita che non esiste piú per me? sospeso, agganciato a quel momento, come se esso rappresentasse tutta la mia esistenza, come se io non fossi mai vissuto per altro? E la mia famiglia? mia moglie? i miei figli, a cui devo dare il pane, la riuscita? Ma come! come! Che volete di piú? Non avete voluto che morissi...
E allora perché? Per vendetta? Contro uno che s'era ucciso...
- Ma che pure ha ucciso! - ribatté forte il Cimetta.
- Trascinato! - rispose, pronto, il Corsi.
- E il rimorso di quel momento io me lo son tolto; in un'ora, io scontai il mio fallo; in un'ora che poteva esser lunga quanto l'eternità.
Ora non ho piú nulla da scontare, io! Questa è un'altra vita per me, che m'è stata ridata.
Debbo rimettermi a vivere per la mia famiglia, debbo rimettermi a lavorare per i miei figliuoli.
M'avete ridato la vita per mandarmi in galera? E non è un atroce delitto, questo? E che giustizia può esser quella che punisce a freddo un uomo ormai privo di rimorsi? come starò io in un reclusorio a scontare un delitto che non ho pensato di commettere, che non avrei mai commesso, se non vi fossi stato trascinato; mentre, meditatamente, ora, a freddo, coloro che approfitteranno della vostra scienza, dottore, la quale mi ha tenuto per forza in vita solo per farmi condannare, commetteranno il delitto piú atroce, quello di farmi abbrutire in un ozio infame, e di fare abbrutire nei vizii della miseria e nell'ignominia i miei figliuoli innocenti? Con quale diritto?
Si rizzò sul busto, sospinto da una rabbia che il sentimento della propria impotenza rendeva feroce: cacciò un urlo e s'afferrò con le dita artigliate la fascia e se la stracciò; poi si riversò bocconi sul letto, convulso; tentò di scoppiare in singhiozzi, ma non poté.
Nella vanità di quello sforzo tremendo, rimase un tratto stordito, come in un vuoto strano, in un attonimento spaventevole.
Diventò cadaverico nel volto segnato dallo strappo recente delle dita.
Adriana spaventata, accorse; gli sollevò prima il capo, poi, ajutata dal Cimetta; si provò a rialzarlo, ma ritrasse subito le mani con un grido di ribrezzo e di terrore: la camicia, sul petto, era zuppa di sangue.
- Dottore! Dottore!
- Gli s'è riaperta la ferita! - esclamò il Cimetta.
Il dottor Vocalòpulo sbarrò gli occhi, impallidí, allibito.
- La ferita?
E, istintivamente, s'appressò al letto.
Ma il Corsi lo arrestò d'un subito, con gli occhi invetrati.
- Ha ragione, - disse allora il dottore, lasciandosi cader le braccia.
- Hanno sentito? Io non posso, non debbo...
PARI
Bartolo Barbi e Guido Pagliocco, entrati insieme per concorso al Ministero dei Lavori Pubblici da vice-segretarii, promossi poi a un tempo segretarii di terza e poi di seconda e poi di prima classe, erano divenuti, dopo tanti anni di vita comune, indivisibili amici.
Abitavano insieme, in due camere ammobiliate al Babuino.
Per grazia particolare della vecchia padrona di casa, che si lodava tanto di loro, avevano anche il salottino a disposizione, ove solevano passar le sere, quando - sempre d'accordo - stabilivano di non andare a teatro o a qualche caffè-concerto.
Giocavano a dadi o a scacchi o a dama, intramezzando alle partite pacate e sennate conversazioncine o sui superiori o sui compagni d'ufficio o su le questioni politiche del momento o anche su le arti belle, di cui si reputavano con una certa soddisfazione estimatori non volgari.
Ogni giorno, difatti, passando e ripassando per via del Babuino, si indugiavano in lunghe contemplazioni o in accigliate meditazioni innanzi alle vetrine degli antiquarii e dei negozianti d'arte moderna; e Bartolo Barbi, ch'era molto perito in tutto ciò che si riferiva alle gerarchie, sia quella ecclesiastica, sia quella militare, sia quella burocratica, e agli usi e ai costumi, si scialava a dar di bestia a certi pittori che, nei soliti quadretti di genere, osavano raffigurar cardinali con paramenti addirittura spropositati.
Era molto caro ai due amici quel salottino raccolto, dai mobili d'antica foggia, consunti a furia di tenerli puliti.
Il vecchio finto tappeto persiano era qua e là ragnato; le tende turche, all'uscio e alla finestra, erano un po' scolorite come la carta da parato, come i fiori di pezza su la mensola e l'ombrellino giapponese, aperto e sospeso a un angolo.
Qualche piccolo intaglio s'era scollato dai tanti porta-ritratti e porta-carte appesi alle pareti, eseguiti in casa, a traforo, dai due amici nei primi anni della loro convivenza.
Fin su l'orlo di quell'ombrellino giapponese, intanto, all'insaputa dei due amici, veniva a quando a quando, zitto zitto, un grosso ragno nero; stava lí un pezzo come a spiare misteriosamente ciò che essi facevano, ciò che essi dicevano; poi si ritraeva.
Dentro l'ombrellino giapponese era tessuta tutt'intorno al fusto un'ampia tela finissima e polverosa.
Forse quel ragno misterioso ne aveva tratto la materia, a filo a filo, dalla vita de' due amici, dai loro giorni sempre uguali, dai loro savii discorsi, tradotti pazientemente in quella sua sottilissima bava seguace.
Né essi né la vecchia padrona di casa ne avevano il piú lontano sospetto.
Di tanto in tanto Barbi e Pagliocco pensavano con rammarico che fra qualche anno sarebbero stati costretti a lasciar quella casa, quel caro salottino.
Aspettavano dal paese i loro due fratelli minori, che dovevano intraprendere a Roma sotto la loro vigilanza gli studii universitarii; e in quella casa non ci sarebbe stato posto per tutti e quattro.
Avrebbero affittato allora un quartierino; lo avrebbero ammobiliato modestamente per conto loro e avrebbero preso una vecchia serva per la pulizia e la cucina.
Vecchia la serva, perché i due giovanottini di primo pelo...
eh, non si sa mai! prudenza ci voleva! Per loro due non ci sarebbe stato piú pericolo.
Ogni mattina erano in piedi, puntuali, alla stess'ora; uscivano insieme a prendere il caffè; entravano insieme al Ministero, dove lavoravano nella stessa stanza l'uno di fronte all'altro; a mezzogiorno andavano a desinare alla stessa trattoria; e insomma, come appajati sotto il medesimo giogo, conducevano una vita affatto uguale, dignitosa, metodica per forza, ma non priva di qualche onesto svago, segnatamente le domeniche.
Quantunque si servissero dallo stesso sarto, pagato puntualmente a tanto al mese, non vestivano allo stesso modo.
Spesso Bartolo Barbi sceglieva la stoffa per l'abito di Guido Pagliocco e viceversa; giudiziosamente; perché sapevano bene quale sarebbe stata piú adatta all'uno, quale all'altro.
Non erano già come due gocce d'acqua in tutto.
Bartolo Barbi era alto di statura e magro, di scarso pelo rossiccio, pallido in volto e lentigginoso, lungo di braccia, un po' dinoccolato: presentava da lontano nella faccia quattro fori e una caverna: gli occhi tondi, le nari aperte e una bocca enorme, dalle labbra aride e screpolate.
Guido Pagliocco era invece robusto e sveglio, tozzo, bruno, bene azzampato, miope e ricciuto.
Si erano però medesimati nell'anima, vagheggiando uno stesso tipo ideale, che s'ingegnavano di raggiungere e d'incarnare in due, ponendovi ciascuno dal canto suo quel tanto che mancava all'altro.
E l'uno amava e ammirava le speciali facoltà e attitudini dell'altro, e lo lasciava fare, senza tentar mai d'invaderne il campo.
Subito, a ogni minima evenienza, si assegnavano le parti; riconoscevano a volo se dovesse parlare o agire l'uno o l'altro; e di ciò che l'uno diceva o faceva l'altro rimaneva sempre contento e soddisfatto, come se meglio non si fosse potuto né dire né fare.
Raggiunto il grado di segretarii di prima classe, proposti insieme per la croce di cavaliere, ottenuta questa onorificenza ben meritata, Barbi e Pagliocco furono invitati alle radunanze che il loro capo-divisione commendator Cargiuri-Crestari teneva ogni venerdí.
I due amici presero a frequentar quelle radunanze con la stessa puntualità scrupolosa con cui adempivano ai doveri d'ufficio.
Ma presto s'accorsero che la loro comunanza di vita fraterna correva un serio pericolo in casa del commendator Cargiuri-Crestari.
Il capo-divisione e la moglie, non avendo proprii figliuoli e figliuole da accasare, pareva si fossero preso il compito di sposar tutti i giovani e le giovani che si raccoglievano ogni venerdí nel loro salotto.
La signora, invitando le vecchie amiche, lasciava intendere con mezzi sorrisi e mezze frasi che le loro figliuole avrebbero trovato presto marito; e molte mamme sollecitavano di continuo, ansiosamente, l'onore di essere ammesse in casa di lei.
Ella però voleva essere lasciata libera nella scelta, voleva che si avesse piena fiducia in lei, nel suo tatto, nel suo intuito, nella sua esperienza.
Guaj se una fanciulla, non contenta del giovane ch'ella, nella sua saggezza, le aveva destinato, faceva invece l'occhiolino a qualche altro! Subito la signora Cargiuri-Crestari si dava attorno per dividere questi illeciti ravvicinamenti, di cui si aveva proprio per male, ecco, e lo lasciava intendere in tutti i modi.
Ma sí, per male, perché Dio solo sapeva quanto e quale studio le costassero quelle sue combinazioni ideali.
Prima di decidere, prima d'assegnare a quel tale giovine quella tal fanciulla, ella teneva l'uno e l'altra quattro o cinque mesi in esperimento; li interrogava su tutti i punti secondo un formulario prestabilito e segnava in un taccuino le risposte; e gusti, educazione, costumi, aspirazioni, tutto indagava, pesava tutto.
E se qualche coppia, messa sú da lei con tanto scrupolo, faceva alla fine una cattiva riuscita, non se ne sapeva proprio dar pace.
Possibile? Ma se dovevano andar cosí bene d'accordo quei due! Ci doveva esser sotto certamente qualche malinteso fra loro! Ed ecco la signora Cargiuri-Crestari affannata, in continue spedizioni alle case delle tante coppie messe sú da lei, per ristabilir l'accordo, che non poteva mancare, diamine! a chiarir quel malinteso che senza dubbio doveva esser sorto tra i due coniugi cosí bene appajati.
Le vittime designate a quelle combinazioni ideali erano naturalmente gl'impiegati subalterni del marito.
La promozione a segretario di prima classe, la croce di cavaliere, avevano per conseguenza inevitabile l'invito ai venerdí del commendatore e, in capo a un anno, il matrimonio.
Il garbo del capo-divisione e della moglie era tanto e tale, che riusciva quasi impossibile ribellarsi; si temeva poi il malumore, l'astio e, chi sa, fors'anche la vendetta del superiore.
Pei due amici Barbi e Pagliocco la signora Cargiuri-Crestari non ebbe bisogno né di studio né di esame.
Suo marito li teneva d'occhio, li covava da un pezzo; glien'aveva tanto parlato, come di due paranzelle che presto sarebbero entrate placidamente in porto!
Li aveva già belli e assegnati in precedenza la signora Cargiuri-Crestari e, come sempre, con intuito meraviglioso, a due fanciulle, amiche anch'esse tra loro, indivisibili: Gemma Gandini e Giulia Montà: quella bionda e questa bruna: la bionda a Pagliocco ch'era bruno, la bruna a Barbi che, se non era proprio biondo, ci pendeva.
Erano belline tutt'e due, e - già s'intende - buone come la stessa bontà.
Ah, niente lezii! niente bischenchi! il commendatore e la moglie non ammettevano in casa se non future mogli per bene, e dunque fanciulle sagge e modeste, econome e massaje.
I giovani potevano fidarsene a occhi chiusi.
Magari la signora Cargiuri-Crestari non badava tanto alle fattezze esteriori, perché - si sa - tutto non si può avere, e la bellezza non è dote che vada molto d'accordo con la modestia e con le altre virtú che a fare una perfetta moglie si ricercano.
Appena scoperta l'insidia, i due amici s'arrestarono alquanto sconcertati.
Avevano da un pezzo non solo chiuso la porta del cuore alla donna, ci avevano anche messo il catenaccio.
Non ne aspettavano piú, neanche in sogno.
Che se talvolta qualche desiderio monello saltava dentro all'improvviso per la finestra degli occhi, subito la ragione arcigna lo cacciava via a pedate.
Non perché avessero in odio il sesso femminile: discorrendo di donne e di pigliar moglie, riconoscevano anzi, in astratto, che lo stato coniugale (fondato - beninteso - nell'onestà e governato dalla pace e dall'amore) era preferibile alla vita da scapolo.
Ma purtroppo il matrimonio, nelle presenti tristissime condizioni sociali, doveva esser considerato come un lusso, che pochi solamente potevano concedersi, i quali poi non erano i piú adatti a pregiarne i vantaggi.
Nelle loro conversazioni serali, Barbi e Pagliocco avevano definito insieme il feminismo questione essenzialmente economica.
Ma sí, perché le donne, poverine, avevano compreso bene la ragione per cui diventava loro di giorno in giorno piú difficile trovar marito.
Il veder frustrata la loro naturale aspirazione, il dover soffocare il loro smanioso bisogno istintivo, le aveva esasperate e le faceva un po' farneticare.
Ma tutta quella loro rivolta ideale contro i cosí detti pregiudizii sociali, tutte quelle loro prediche fervorose per la cosí detta emancipazione della donna, che altro erano in fondo se non una sdegnosa mascheratura del bisogno fisiologico, che urlava sotto? Le donne desiderano gli uomini e non lo possono dire; poverine.
E volevano lavorare per trovar marito, ecco.
Era un rimedio, questo, suggerito dal loro naturale buon senso.
Ma, ahimè, il buon senso è nemico della poesia! E anche questo capivano le donne: capivano cioè che una donna, la quale lavori come un uomo, fra uomini, fuori di casa, non è piú considerata dalla maggioranza degli uomini come l'ideale delle mogli, e si ribellavano contro a questo modo di considerare, che frustrava il loro rimedio, e lo chiamavano pregiudizio.
Ecco il torto.
Pregiudizio il supporre che la donna, praticando di continuo con gli uomini, si sarebbe alla fine immascolinata troppo? Pregiudizio il prevedere che la casa, senza piú le cure assidue, intelligenti, amorose della donna, avrebbe perduto quella poesia intima e cara, che è la maggiore attrattiva del matrimonio per l'uomo? Pregiudizio il supporre che la donna, cooperando anch'essa col proprio guadagno al mantenimento della casa, non avrebbe piú avuto per l'uomo quella devozione e quel rispetto, di cui tanto esso si compiace? Ingiusto, questo rispetto? Ma perché allora, dal canto suo, voleva esser tanto rispettata la donna? Via! via! Se l'uomo e la donna non erano stati fatti da natura allo stesso modo, segno era che una cosa deve far l'uomo e un'altra la donna, e che pari dunque non possono essere.
Mai e poi mai Barbi e Pagliocco avrebbero sposato una donna emancipata, impiegata, padrona di sé.
Non perché volessero schiava la moglie, ma perché tenevano alla loro dignità maschile e non avrebbero saputo tollerare che questa, di fronte ai guadagni della moglie, restasse anche minimamente diminuita.
Metter sú casa, d'altra parte, con lo scarso stipendio di segretario, sarebbe stata una vera e propria pazzia, e dunque niente: non ci pensavano nemmeno.
Ben radicati in queste idee, i due amici deliberarono di resistere; ma, per timore d'offendere il loro capo, non osarono fuggire; seguitarono a frequentare i venerdí del commendator Cargiuri-Crestari.
In capo a tre mesi, il ragno nero che si faceva di tratto in tratto fin su l'orlo dell'ombrellino giapponese a spiare i due amici, intisichí, diventò come una spoglia secca, morí d'inedia, là su la vedetta.
I due amici non gli avevano dato piú materia per quella sua bava seguace; s'erano anch'essi immalinconiti profondamente; giocavano a dama svogliati; non conversavano piú tra loro.
Pareva che l'uno volesse fare avvertire all'altro il vuoto di quella loro esistenza, non mai prima avvertito.
Nessuno dei due però voleva muovere il discorso per il primo.
Una sera, finalmente, si mossero a parlare insieme, e ciascuno ripeté le parole che l'altro aveva su la punta della lingua da un pezzo, perché all'uno e all'altro eran venute da una medesima fonte: dal commendator Cargiuri-Crestari, il quale aveva stimato opportuno far loro in segreto una paternale, cosí senza parere, parlando in generale dei giovani d'oggi che ragionano troppo e sentono poco, che lasciano languire la fiamma della vita, perché han paura di scottarsi (parlava bene, poeticamente, alle volte, il commendatore), e che ci voleva un po' di coraggio, perdio: là, avanti, contro alle difficoltà dell'esistenza.
Le signorine Gandini e Montà avevano, per altro, una discreta doticina; erano poi tra loro da tanti anni amiche inseparabili, e non avrebbero perciò né sciolto, né allentato d'un punto il legame che teneva anch'essi uniti; e dunque...
E dunque, giudiziosamente, al solito, i due amici stabilirono di prendere a pigione due appartamenti contigui, per seguitare a vivere insieme, uniti e separati a un tempo.
Le nozze furono fissate per lo stesso giorno.
Ma una contrarietà piuttosto grave minacciò di rompere nel bel meglio la perfetta identità di sorte de' due amici.
La fidanzata di Guido Pagliocco, Gemma Gandini, non poteva recare in dote piú di dodici mila lire, mentre la Montà ne recava al Barbi venti.
Guido Pagliocco piantò i piedi, risolutamente.
Non tanto, veh, per il danno materiale che al suo contratto di nozze avrebbero arrecato quelle otto mila lire di meno, quanto per le conseguenze morali, che quella disparità avrebbe potuto cagionare, ponendo la propria sposa in una condizione alquanto inferiore a quella della Montà.
Pari in tutto, anche le doti dovevano esser pari.
La vedova Gandini, madre della sposa, riuscí per fortuna, con qualche sacrifizio, a metter la propria figliuola perfettamente in bilancia con la Montà; e cosí i due matrimonii furono celebrati nello stesso giorno, e le due coppie partirono per lo stesso viaggio di nozze a Napoli.
Nessuna ragione d'invidia fra le due spose.
Se Guido Pagliocco era di fattezze piú bello del Barbi, questi era però piú intelligente del Pagliocco.
Del resto, poi, eran cosí uniti idealmente quei due uomini, che quasi formavano un uomo solo, da amare insieme, senz'alcuna invidia né da una parte né dall'altra per quel tanto che a ciascuna necessariamente ne toccava, chiudendo a sera le porte de' due quartierini gemelli.
Ma che Giulia Montà, moglie di Bartolo Barbi, avesse segretamente, in fondo all'anima, una punta d'invidia non confessata neppure a se stessa, per quel tanto che del tipo ideale Barbi-Pagliocco toccava a Gemma Gandini, si vide chiaramente allorquando vennero a Roma i due fratelli degli sposi, Attilio Pagliocco e Federico Barbi, a intraprendere gli studii universitarii.
Le due amiche, che avrebbero provato orrore se anche fugacissimamente su lo specchio interiore della loro coscienza avesse fatto capolino, col viso spaventato del ladro, il desiderio d'un reciproco tradimento, sentirono subito e videro crescere in sé a un tratto e divampare una vivissima simpatia l'una per il cognato dell'altra, e non tardarono a dichiararsela apertamente, con gran sollievo dell'anima, come se ciascuna avesse acquistato di punto in bianco qualcosa che si sentiva mancare.
I due giovani, infatti, somigliavano moltissimo ai loro fratelli.
Attilio Pagliocco era forse un po' piú ottuso di mente del fratello maggiore e fors'anche men bello, ma piú tacchinotto e violento.
Federico Barbi era piú proporzionato e men dinoccolato di Bartolo, con gli occhi meno languidi e le labbra meno aride; era poi piú intelligente del fratello, faceva finanche poesie.
Giulia Barbi-Montà stimò come un pregio quel che di piú animalesco aveva il giovine Pagliocco a paragone del fratello, perché le parve come un compenso alla cresciuta intellettualità intorno a sé, nel suo quartierino, con l'arrivo del cognato poeta; e Gemma Pagliocco-Gandini pregiò maggiormente quel che di piú aereo, di piú poetico aveva il giovine Barbi a paragone del fratello, perché le parve come un compenso alla cresciuta bestialità intorno a sé, nel suo quartierino, con l'arrivo del giovine Attillo che le pareva un mulotto accappucciato.
Naturalmente, né Bartolo Barbi né Guido Pagliocco s'accorsero punto della simpatia delle loro mogli pei loro fratelli.
Se ne accorsero bene questi, però; e, se l'uno e l'altro da un canto ne furono lieti per sé, cominciarono dall'altro a guardarsi fra loro in cagnesco, volendo ciascuno custodir l'onore e la pace del proprio fratello.
E il giovine Federico Barbi, un giorno, andò a rinzelarsi acerbamente con Guido Pagliocco, perché...
- Zitto, per amor di Dio! - scongiurò questi, a mani giunte.
- Non dica nulla al povero Bartolo, per carità! Lasci fare a me...
E zitto, sí, si stette zitto il giovine Barbi, per prudenza; ma né lui seppe accontentarsi, né la moglie del Pagliocco volle che s'accontentasse senz'altro della fiera paternale, che Guido rivolse a quattr'occhi al fratello minore.
Venne allora la volta di questo.
Non volendo, per la pace del fratello, accusar la cognata, e d'altro canto, non potendo prendersi soddisfazione da sé, poiché si sentiva in colpa anche lui, andò a rinzelarsi non meno acerbamente con Bartolo Barbi.
E:
- Zitto, per amor di Dio! - scongiurò questi parimenti, a mani giunte.
- Non dica nulla al povero Guido, per carità! Lasci fare a me...
Pochi giorni dopo, i due amici si trovarono d'accordo - come sempre - nell'idea di allontanare da casa i fratelli, con la scusa che - giovanotti, si sa! - davano un po' d'impaccio e di soggezione, limitando la libertà delle rispettive mogli.
- È vero, Giulia? - domandò Barbi alla sua, in presenza di Pagliocco.
E Giulia, con gli occhi bassi, rispose di sí.
- È vero, Gemma? - domandò alla sua Pagliocco, in presenza di Barbi.
E Gemma, con gli occhi bassi, rispose di sí.
"Povero Pagliocco!" pensava intanto Barbi.
"Povero Barbi!" pensava Pagliocco.
L'USCITA DEL VEDOVO
I
Tante volte la signora Piovanelli, conversando dopo cena col marito, aveva fatto l'augurio che se, per disgrazia, uno dei due dovesse morire prima del tempo - ma fosse morto lui! Lui, lui, sí; anziché lei.
Per il bene dei figliuoli; non per sé, beninteso.
Con qual sorriso aveva accolto quest'augurio della moglie Teodoro Piovanelli, arrotondando su la tovaglia pallottoline di mollica!
Grosso e mite e di modi gentili, si sentiva ferire ogni volta fin nell'anima; sorrideva per dissimulare l'agro, e coi mansueti occhi pallidi e ovati che gli s'intenerivano afflitti nel biondo rossiccio delle ciglia e dei capelli, pareva chiedesse: Ma perché? Perché? Oh bella! Perché è sempre meglio per i figliuoli...
cioè, meglio no: meno peggio - sosteneva la moglie - che muoja il padre, anziché la madre.
- Ma non sarebbe meglio nessuno? - arrischiava allora con lo stesso sorrisetto lui, Piovanelli.
- Permetti? Io dico, va bene, la mamma è mamma.
Mamma ce n'è una sola.
E vale cento, che dico cento? mille volte piú del babbo per i figliuoli; va bene? Ma l'amore...
l'amore è una cosa, è il...
sí, dico...
il come si chiama, il mantenimento...
- Che c'entra il mantenimento? - scattava la moglie.
E lui, Piovanelli, subito:
- Permetti? Io dico...
dico in genere, intendiamoci! Non stiamo mica a parlar di noi, adesso, che grazie a Dio stiamo tanto bene! In genere.
Poni una famigliuola senza beni di fortuna, che viva unicamente di quel poco che guadagna il capo di casa.
Muore lui, il capo di casa, va bene? Come farà la vedova a mantenere i figliuoli?
- Oooh! - rifiatava la moglie, tirandosi indietro e protendendo le mani, come per dire che qui lo aspettava.
- Ti seguo nel tuo ragionamento.
Che potrebbe far di peggio questa vedova? Di' sú, lo lascio dire a te.
- Eh...
- faceva Piovanelli, e si stringeva nelle spalle per non dire, sicuro che anche dicendo come voleva la moglie, questa lo avrebbe sempre tirato a riconoscere che aveva torto lui.
- Riprender marito, è vero? - domandava infatti la moglie.
- Ebbene: per i figliuoli è centomila volte meno peggio che riprenda marito la madre, anziché moglie il padre, perché è sempre centomila volte meglio un padrigno che una madrigna.
E lo sanno tutti!
- Va bene, d'accordo...
ma permetti? - (e Piovanelli si storceva come un cagnolino che vuol farsi perdonare).
- Scusami, veh! Ma non ti pare che, dicendo cosí, tu venga a concludere che...
- lo noto per te, bada! perché so che tu la pensi diversamente...
- venga a concludere, dicevo, che l'uomo, in genere, è...
è meglio della donna?
- Io, cosí? - prorompeva la moglie, balzando in piedi.
- Chi te l'ha detto? Io vengo, anzi, a concludere, come ho sempre concluso, che l'uomo, o è mala carne...
- Sí, sí, scusami...
- O è un imbecille che si lascia menare per il naso dalle donne,
- In genere...
sí, sí, scusami...
- Senza genere, né numero, né caso.
Te lo provo! Una donna che ha figliuoli e che per necessità riprende marito, anche avendo altri figliuoli da questo secondo marito, non cessa mai d'amare i primi; non solo, ma riesce a farli amare anche dal padrigno.
Sfido! Li ha fatti lei, questi e quelli: suo sangue, sua carne! Un vedovo, invece, con figli, che riprenda moglie, anche se non abbia altri figliuoli dalla seconda moglie, non ama piú quelli come prima, perché la madrigna se n'adombra, la madrigna se ne ingelosisce; e se poi questa gliene dà altri, lo tira ad amare i proprii e a trascurare i poveri orfanelli; e lui, vigliacco, schifoso, mascalzone, farabutto, obbedisce!
- Non dici a me, spero...
- domandava, avvilito, Piovanelli con un fil di voce, vedendo la moglie cosí fuori di sé.
- Sai pur bene che io...
- Tu? - inveiva la moglie.
- Tu? Ma tu, il primo! Tu domani, se io morissi! Siete tutti gli stessi! Poveri figli miei! chi sa in quali mani cadrebbero! Con un tal uomo! Per questo, vedi, Dio mi deve conceder la grazia di non farmi morire prima di te! Io, scusami, sai! io, io, per il bene dei figliuoli, io prima con questi occhi devo vederti morto.
Io, io.
E piangerti anche! Oh, sta' pur sicuro che ti piango!
Teodoro Piovanelli si sentiva scoppiare il cuore.
- Ma sí...
vorrei anch'io...
me l'auguro anch'io...
E seguitando a sorridere a quel modo, si levava da tavola e si affacciava alla finestra; per un po' d'aria.
II
Nessuno meglio di lui poteva sapere quanto fosse ingiusta la moglie, dicendo cosí.
Riammogliarsi lui? Ma Dio lo doveva prima fulminare!
Non solo per il bene dei figliuoli non lo avrebbe mai fatto, ma neanche per sé.
E non già perché fosse scottato del matrimonio a causa della moglie che gli era toccata in sorte, ma anche per un tristo concetto che gli s'era profondamente radicato in corpo: di non aver fortuna, ecco; e che infelicissimo sarebbe stato sempre con qualunque donna, se tale era con questa che in fondo, via, non era cattiva: tutt'altro, anzi! saggia massaja, amante della casa e dei figliuoli...
forse un po' troppo franca nel parlare; sí, ma lieve difetto, in fin dei conti, che tante buone qualità avrebbero potuto compensare, se non fosse stato accompagnato da un brutto male, ah brutto...
brutto...
- la gelosia.
Santo Dio! Vera e propria mala sorte.
Gelosa di lui! Fedele come un cane, per natura, una donna sola anche da scapolo gli era sempre bastata.
Gli amici, in gioventú, lo burlavano per questo.
Ma che poteva farci? Non gli piaceva cambiare.
Forse...
sí, magari non sapeva.
Perché...
inutile negarlo; timido, con le donne; tanto timido da far compassione finanche a se stesso, certe volte, per le meschine figure che faceva.
E sua moglie, intanto, certe scene, certe scene che, se i suoi amici d'un tempo fossero stati dietro l'uscio a sentire, sarebbero crepati dalle risa.
Per cosí futili pretesti, poi...
Una volta, perché, distratto, s'era un po' arricciati i baffi, per via.
Un'altra volta perché, in sogno, aveva riso...
Una terza volta perché ella aveva letto nella cronaca d'un giornale che un marito aveva ingannato la moglie ed era stato scoperto...
Diventava un supplizio per lui, ogni sera, la lettura del giornale.
Sua moglie gli si metteva dietro le spalle e cercava, come un bracco, nella cronaca, i fatti scandalosi.
Appena ne trovava uno:
- Qua! Leggi qua! Hai letto? Lo vedi di che siete capaci?...
E giú una filza di male parole.
Gli altri facevano il male, e lui ne doveva pianger la pena, giacché, per la moglie, il tradimento di quei mariti era tal quale come se l'avesse commesso lui: gli toglieva la pace, l'amore di lei, tutte le gioje della famiglia, che aveva pur diritto di godere, lui, illibato com'era e con la coscienza tranquilla.
Odiava il genere umano quella donna - tanto i maschi quanto le femmine - per quella sua terribile malattia.
Il povero Piovanelli strabiliava, sentendola parlare delle donne, di che cosa erano capaci - secondo lei.
- Tu non lo sai, è vero? - gli gridava sdegnata, indispettita, nel vederlo cosí stupito.
- Qua, mordi il ditino, pezzo d'ipocrita.
Ma te lo dico io che posso parlar franca, perché nessuno può sospettare di me e non ho bisogno, io, di far l'ipocrita come tutte le altre per far piacere ai signori uomini.
Te lo dico io!
E quante gliene diceva! Si sentiva violentare, povero Piovanelli, nella sua timidità.
Ormai, lui che aveva avuto sempre il ritegno piú rispettoso per la donna, lui che non s'era mai permesso un atto un po' spinto, una parola arrischiata, lui che aveva creduto sempre difficilissima ogni conquista amorosa, si sentiva insidiato da tutte le parti, e andava per la strada a capo chino; e se qualche donna lo guardava, abbassava subito gli occhi; se qualche donna gli stringeva appena appena la mano, diventava di mille colori.
Tutte le donne della terra eran diventate per lui un incubo: tante nemiche della sua pace.
III
Con quest'animo può immaginarsi che cosa fu la morte per la signora Piovanelli, quando, colta all'improvviso da una fierissima polmonite, se la vide davanti inesorabile, a poco piú di trentasei anni.
Non potendo piú parlare, parlava con gli occhi, parlava con le mani.
Certi gesti! E gli occhi da bestia arrabbiata.
Il povero Piovanelli, quantunque straziato, ne ebbe paura: temette davvero che lo volesse strozzare, quando gli buttò le braccia al collo e glielo strinse, glielo strinse, per la Madonna santissima, con tutta la forza che le restava, quasi se lo volesse trascinare giú nella fossa, con sé.
Ma volentieri lui, sí, volentieri giú con lei.
- Sí, sí, te lo giuro, stai tranquilla! - le ripeteva in un torrente di lagrime, rispondendo al gesto di quelle mani e per placare la ferocia di quegli occhi.
Invano! La disperazione atroce in cui quella donna moriva per non volere, con ostinata ingiustizia, neppure in quel momento supremo fidarsi di lui, accordargli la stima che si meritava, riconoscere la verità del suo cordoglio, di quelle sue lagrime sincere, esasperò talmente Piovanelli, che a un certo punto si mise a urlare come un pazzo, si strappò i capelli, si percosse le guance, se le graffiò; poi, buttandosi ginocchioni innanzi al letto, con le braccia levate:
- Vuoi giurato, di', vuoi giurato che non avvicinerò mai piú una donna, finché campo, perché le odio tutte? Te lo giuro! Non vivrò che per i nostri piccini! O vuoi che mi uccida qua, davanti a te? Pronto! Ma pensa ai nostri piccini, e non ti dannare per me! Oh Dio, che cosa! ah, che cosa...
Dio! Dio!
Incanutí su le tempie in pochi giorni Teodoro Piovanelli, dopo il funerale.
Per nove interi anni non aveva vissuto che per quella donna, assorto continuamente nel pensiero di lei, unico e tormentoso: che non avesse mai cagione di lamentarsi, di diffidar minimamente di lui; in assidua, scrupolosa, timorosa vigilanza di sé.
Quasi con gli occhi chiusi, con le orecchie turate aveva vissuto nove anni; quasi fuori del mondo, come se il mondo non fosse piú esistito.
Si sentí a un tratto come balzato nel vuoto; annichilito.
Il mondo seguitava a vivere intorno a lui; col tramenío incessante, con le mille cure, le brighe giornaliere, svariate: lui n'era rimasto fuori, là serrato in quel cerchio di diffidente clausura, in quella casa vuota, ma pur tutta piena, come l'anima sua, degl'irti sospetti della moglie.
Da questi sospetti, dallo spirito ostile e alacre, dall'energia spesso aggressiva della moglie, egli - vivendo di lei e per lei unicamente - s'era sentito sostenere.
Ora gli pareva d'esser rimasto come un sacco vuoto.
A chi affidarsi? a chi affidare la casa? a chi affidare i figliuoli?
Tutto il suo mondo era lí, in quella casa.
Ma che cos'era piú, ormai, quella casa senza colei che la animava tutta? Egli non vi si sapeva piú neanche rigirare.
Come curare i piccini? come attendere ad essi? Non sapeva da che parte rifarsi.
Tra pochi giorni gli sarebbe toccato ritornare all'ufficio; e quei piccini?
Nessuna serva era mai durata in casa piú di sei mesi.
Quest'ultima c'era da pochi giorni; si era mostrata premurosa nella sventura; pareva una buona vecchina; ma poteva fidarsene?
No.
La moglie, dentro, gli diceva no.
Non per quella serva soltanto; per tutte le serve del mondo.
No.
Se non che, per vivere com'ella voleva, com'egli le aveva giurato, avrebbe dovuto lasciar l'ufficio e tapparsi in casa dalla mattina alla sera.
Era possibile? Doveva lavorare.
Non poteva far le parti anche della moglie, che in fondo faceva tutto in casa.
La sventura non lo aveva colpito per nulla.
Bisognava pure che quella serva facesse qualche cosa invece della moglie.
Ai figliuoli, no, ai figliuoli voleva badar lui: lui vestirli la mattina; preparar loro la colazione; poi condurre a scuola il maggiore; lui servirli a tavola, e poi la sera a cena, e far loro recitare le orazioni e svestirli per metterli a letto, nella loro cameretta vigilata da un ritratto fotografico ingrandito della mamma che non c'era piú.
Quanti baci dava loro tra le lagrime!
Che orrore, poi, quella casa muta, quando i piccini erano a letto!
Tornava a sedere innanzi alla tavola non ancora sparecchiata e si metteva ad arrotondare al solito pallottoline di mollica, rimeditando, angosciato, la sua orrenda sciagura.
Un cupo rammarico lo coceva per la crudele ingiustizia della sua sorte.
Aveva sofferto prima, immeritatamente; soffriva tanto adesso! E nessuno lo poteva consolare.
La moglie non aveva saputo né voluto leggergli dentro, nell'anima; e lo aveva torturato senza ragione; ora ella non poteva vedere com'egli vivesse senza di lei in quella casa, come avesse mantenuto il giuramento fatto; e forse, se di là poteva pensare, immaginava ancora, testarda e cieca, che egli ora godesse, libero...
Che irrisione!
Vedendolo cosí vinto e sprofondato nel cordoglio, la vecchia serva, una di quelle sere, si fece animo e gli suggerí d'andare un po' fuori a fare una giratina per sollievo.
Si voltò a guardarla, torvo; alzò le spalle; non volle neanche risponderle.
- Prenderà un po' d'aria...
- insistette quella, timidamente.
- Starò attenta io ai bambini, non dubiti...
Del resto, non si svegliano mai...
Lei dovrebbe farlo anche per loro, mi perdoni.
Cosí si ammalerà.
Teodoro Piovanelli scosse il capo lentamente, con le ciglia aggrottate e gli occhi chiusi.
Sotto la borsa delle palpebre gonfie gli fervevano le lagrime.
Si levò da tavola, s'appressò alla finestra e si mise a guardar fuori dietro ai vetri.
Eh già...
Egli poteva uscire, ormai, volendo.
Nessuno piú gliel'impediva.
Ma dove andare? e perché? Che funebre squallore nel bujo delle vie deserte, vegliate dai radi lampioni! Rivide col pensiero, come in sogno, altre vie meglio illuminate; immaginò la gente che vi passava, assorta nelle proprie cure, con affetti vivi in cuore, con desiderii vivi nell'anima, o guidata da una abitudine ch'egli non aveva piú; immaginò i caffè luccicanti di specchi...
D'un subito si voltò a guardar la camera, come a un richiamo imperioso, minaccioso dello spettro della moglie.
Cominciava già a venir meno al giuramento? No, no! E si recò nella camera dei bambini; si chinò sui lettucci per contemplarli nel dolce sonno; rattenne la mano tratta irresistibilmente a carezzar le loro testoline: poi si volse, soffocato dall'angoscia, a guardare il ritratto della moglie.
Oh con quale ardore la desiderò in quel momento! Sí, sí, nonostante tutto il martirio che ella gli aveva inflitto per nove anni.
Sí, egli la voleva, la voleva! aveva bisogno di lei! Senza di lei non poteva piú vivere.
Oh, anche a costo di soffrire da lei le pene piú ingiuste e piú crudeli...
Non poteva rassegnarsi a vedere cosí spezzata per sempre la sua esistenza!
Aveva appena quarant'anni!
IV
Man mano che i giorni passavano, e i mesi ormai (eran già quattro mesi!), quel posto vuoto, lí, nel letto matrimoniale, gli suscitava ogni notte, nel cocente ricordo, smanie vieppiú disperate.
Col volto nascosto, affondato nel guanciale che si bagnava di lagrime, bisbigliava nell'ambascia della passione il nome di lei:
- Cesira...
Cesira...
E il cuore gli si schiantava.
- Sempre cosí...
sempre cosí - mormorava poi, piú calmo, con gli occhi sbarrati nel bujo.
Ah come s'era ingannata la moglie sul conto di lui! Ecco: questo pensiero lo struggeva piú d'ogni altro, e di continuo vi ritornava sú.
Se n'era fatto una lima.
Che il mondo fosse tristo, tristi gli uomini, triste le donne, cosí come la moglie aveva creduto, egli poteva ammettere; ammetteva.
Ma lui? tristo anche lui?
Certo, chi sa quanti uomini, rimasti vedovi all'età sua, dopo tre o quattro mesi, cedendo al bisogno stesso della natura...
pur non volendo, pur serbando in cuore viva sempre l'immagine della moglie morta e la pena d'averla perduta, cominciavano a uscire di sera e...
sí, a uscire per lo meno.
Aveva ragione la moglie: "Facilissime, le donne! Se ne incontrano tante per via...".
Ma a quarant'anni...
eh, a quarant'anni, senza piú l'abitudine, non doveva esser mica piacevole rimettersi a far la vita del giovanottino scapolo.
Chi sa quale avvilimento di vergogna!
D'altra parte, però a mettersi con altre donne...
Prima di tutto, perdita di tempo; poi, chi sa quanti impicci e anche...
anche una certa difficoltà...
Per esempio, quella guantaja dalla quale egli andava prima a comperare i guanti per la sua Cesira, 6 e 1/4 (vi era andato dopo la disgrazia a comperarne un pajo anche per sé, neri, per il funerale) - quella guantaja, ecco...
una signora, una vera signora! Come si moveva nella bella bottega lucida, tepida e profumata! Il corpo leggermente proteso...
E mica si sentiva il rumore dei passi; si sentiva il fruscío discreto della sottana di seta...
Nessun imbarazzo, come nessuna sfrontatezza.
Voce dolce, modulata; meravigliosa prontezza a comprendere...
E non già soltanto per attirar la gente.
Era cosí.
O almeno, pareva cosí; naturalmente.
Che nettezza e che precisione! Ebbene, a mettersi con quella...
Dio liberi! E le conseguenze? I proprii piccini...
Ah!
A questo pensiero, retrocedeva d'improvviso, quasi inorridito d'essersi indugiato a fantasticare su tale argomento.
Ma, via! troppo bene sapeva che tali cose non potevano e non dovevano piú sussistere per lui.
Si forzava a dormire.
Ma pur con gli occhi chiusi, poco dopo, ecco qualche altra visione tentatrice...
Fingeva di non avvertirla, come se gli fosse apparsa non provocata da lui.
La lasciava fare...
A poco a poco s'addormentava.
Ma la sera dopo, il supplizio ricominciava.
E la vecchia serva a insistere, a insistere, che via! uscisse di casa per una mezz'oretta sola, almeno, a prendere un po' d'aria...
Batti e batti, alla fine Teodoro Piovanelli si lasciò indurre.
Ma quanto tempo mise a vestirsi! e volle prima recarsi a vedere i bambini che dormivano, e rassettò ben bene le coperte sui loro lettini, e poi quante raccomandazioni alla serva, che stesse bene attenta, per carità! Tuttavia, non ardí alzare gli occhi al ritratto della moglie.
E uscí.
V
Appena su la via, si vide come sperduto.
Da anni e anni non andava piú fuori, la sera.
Il buio, il silenzio gli fecero un'impressione quasi lugubre...
e quel riverbero là, vacillante, del gas sul lastricato...
e piú là, in fondo, nella piazza deserta, quelle lanterne vaghe delle vetture...
Dove si sarebbe diretto?
Scese verso Piazza delle Terme, tutta sonora dell'acqua luminosa della fontana delle Najadi.
Ricordò che la moglie non voleva ch'egli si fermasse a guardar quelle Najadi sguajate.
E non si fermò.
Povera Cesira! Com'era sdegnata che il corpo della donna fosse esposto in atteggiamenti cosí procaci agli sguardi maligni e indiscreti degli uomini! Ci vedeva come un'irrisione, una mancanza di rispetto per il suo sesso, e voleva sapere perché nelle fontane i signori scultori non esponevano invece uomini nudi.
Ma in Piazza Navona, veramente...
la fontana del Moro...
E poi, gli uomini nudi...
in atteggiamenti procaci...
via, forse sarebbero stati un pochino piú scandalosi...
Teodoro Piovanelli, cosí pensando, ebbe un barlume di sorriso su le labbra amare; e imboccò Via Nazionale.
A mano a mano che andava, sopite immagini, impressioni rimaste nella sua coscienza d'altri tempi, non cancellate, sí svanite a lui per il sovrapporsi d'altri stati di coscienza opprimenti, gli si ridestavano, sommovendo e disgregando a poco a poco, con un senso di dolce pena, la triste compagine della coscienza presente.
E ascoltò dentro di sé la voce lontana lontana di lui stesso, qual era in gioventú; la voce delle memorie sepolte, che risorgevano al respiro di quell'aria notturna, al suono de' suoi passi nel silenzio della via.
Arrivato all'imboccatura di Via del Boschetto, s'arrestò, come se qualcuno a un tratto lo avesse trattenuto.
Si guardò attorno; poi, perplesso, con infinita tristezza, guardò giú per quella via, e scosse mestamente il capo.
Tutti i ricordi, le immagini, le impressioni del suo vagabondare notturno d'altri tempi, del tempo in cui era scapolo, si associavano al pensiero di una donna, di quell'unica ch'egli aveva conosciuta prima delle nozze, donna non sua solamente, ma a cui egli, per abitudine, per timidezza, era pure stato sempre fedele, come poi alla moglie.
Quella donna stava lí, allora, in Via del Boschetto.
Si chiamava Annetta; lavorava d'astucci e di sopraffondi; ma le piaceva vestir bene e gli ori le piacevano e i giojelli, anche falsi...
Finché aveva avuta la madre, s'era mantenuta onesta; poi la madre le era morta, e lei non aveva piú saputo veder la ragione di sacrificarsi a vivere in quel modo, senza il compenso di qualche godimento...
Cosí era caduta.
Ogni volta, come per rialzarsi innanzi a se stessa, per non sentir l'avvilimento di ciò che stava per fare, affliggeva quei pochi fidati che andavano a trovarla narrando quanto aveva fatto durante la lunga malattia della madre, tutte le cure che le aveva prodigate, i medicinali costosi che le aveva comperati, quasi per assicurare se stessa che, almeno per questo, non doveva aver rimorsi.
Ebbene, Teodoro Piovanelli, abbandonato in quella sua prima uscita ai ricordi d'allora, guidato naturalmente dall'istintiva esemplare fedeltà cosí crudelmente misconosciuta e negata dalla moglie, ecco, s'era proprio arrestato là, all'imboccatura di Via del Boschetto.
Si vietò d'assumer coscienza del pensiero sortogli d'improvviso, che non sarebbe stato un tradimento alla memoria della moglie, un venir meno al giuramento che le aveva fatto di non avvicinare mai piú altra donna, se fosse ritornato a quella, che già la moglie sapeva per sua stessa confessione.
Quella non sarebbe stata un'altra; quella era già stata sua; ed egli non avrebbe smentito, con quella, la sua fedeltà.
La avrebbe anzi confermata.
No: non se lo volle dire; non se lo volle fare questo ragionamento.
Scese per Via del Boschetto soltanto per curiosità, ecco; per la voluttà amara di seguir la traccia del tempo lontano: senza alcun altro scopo.
Del resto, non sapeva piú neppure se colei stesse ancora lí.
Era molto difficile, dopo nove anni...
L'aveva riveduta tre o quattro volte per via, vestita poveramente, invecchiata, imbruttita, certo caduta piú in basso; ma, naturalmente, aveva fatto finta non solo di non riconoscerla, ma di non averla mai conosciuta.
Quando, di pochi passi lontano dal portoncino ben noto, a destra, scorse la finestretta quadra del mezzanino, sulla porta, con le persiane accostate, che dalle stecche e da sotto lasciavano intravedere il lume della cameretta, Teodoro Piovanelli si turbò profondamente, assalito dall'imagine precisa, là, vivente, del ricordo lontano...
Tutto, tal quale, come allora! Ma ci stava proprio lei, là, ancora? S'accostò al muro, cauto, trepidante, e passò rasente, sotto la finestra; alzò il capo; scorse dietro alle persiane un'ombra, una donna...
- lei? - Passò oltre, tutto sconvolto, insaccato nelle spalle, col sangue che gli frizzava per le vene, come sotto l'imminenza di qualche cosa che dovesse cadergli addosso.
Violentemente gli si ricompose la coscienza tetra e dura del suo stato presente; rivide in un baleno col pensiero la camera dei bambini e quel ritratto, là, vigilante, terribile, della moglie; e s'arrestò affannato nella corsa che aveva preso.
A casa! a casa!
Se non che, davanti al portoncino...
ma sí, lei...
lei ch'era scesa...
Annetta, sí.
Egli la riconobbe subito.
E anche lei lo riconobbe:
- Doro...
tu?
E stese una mano.
Egli si schermí.
- Lasciami...
No, ti prego...
Non posso...
Lasciami...
- Come! - fece lei, ridendo e trattenendolo.
- Se sei venuto a cercarmi...
T'ho visto, sai? Caro...
caro...
sei tornato!...
Sú, via! Perché no? Se sei tornato a me...
Sú, sú...
E lo trasse per forza dentro il portoncino, e poi su per la scala, tenendolo per il braccio.
Egli ansava, col cuore in tumulto, la mente scombujata.
Voleva svincolarsi e non sapeva, non sapeva.
Rivide la cameretta, tal quale anch'essa, dal tetto basso...
il letto, il cassettone, il divanuccio...
le oleografie alle pareti...
Ma quando ella, tra tante parole affollate di cui egli non udiva altro che il suono, gli tolse il cappello e il bastone e poi i guanti, e fece per abbracciarlo, Teodoro Piovanelli, che già tremava tutto, la respinse, si portò le mani al volto, vacillò, come per una vertigine.
- Che hai? - domandò ella sorpresa, un po' costernata: e lo trasse a sedere sul divanuccio.
Un impeto di pianto scosse le spalle di lui.
Ella si provò a staccargli le mani dal volto; ma egli squassò il capo rabbiosamente.
- No! no!
- Tu piangi? - domandò la donna; poi, dopo aver guardato il cappello fasciato di lutto: - Forse...
forse t'è morta?...
Egli accennò di sí col capo.
- Ah, poveretto...
- sospirò lei, pietosamente.
Teodoro Piovanelli scattò in piedi, convulso; prese i guanti, il bastone, si buttò in capo il cappello; balbettò, soffocato:
- Impossibile...
impossibile...
lasciami andare...
Ella non si provò piú a trattenerlo; lo accompagnò, dolente, fino alla porta.
Poi lí, sicurissima ormai che sarebbe ritornato, gli domandò, con voce mesta e con un mesto sorriso:
- T'aspetto, eh, Doro?...
Presto...
Ma egli s'era messo sulla bocca il fazzoletto listato di nero, e non le rispose.
DISTRAZIONE
Nero tra il baglior polverulento d'un sole d'agosto che non dava respiro, un carro funebre di terza classe si fermò davanti al portone accostato d'una casa nuova d'una delle tante vie nuove di Roma, nel quartiere dei Prati di Castello.
Potevano esser le tre del pomeriggio.
Tutte quelle case nuove, per la maggior parte non ancora abitate, pareva guardassero coi vani delle finestre sguarnite quel carro nero.
Fatte da cosí poco apposta per accogliere la vita, invece della vita - ecco qua - la morte vedevano, che veniva a far preda giusto lí.
Prima della vita, la morte.
E se n'era venuto lentamente, a passo, quel carro.
Il cocchiere, che cascava a pezzi dal sonno, con la tuba spelacchiata, buttata a sghembo sul naso, e un piede sul parafango davanti, al primo portone che gli era parso accostato in segno di lutto, aveva dato una stratta alle briglie, l'arresto al manubrio della martinicca, e s'era sdrajato a dormire piú comodamente su la cassetta.
Dalla porta dell'unica bottega della via s'affacciò, scostando la tenda di traliccio, unta e sgualcita, un omaccio spettorato, sudato, sanguigno, con le maniche della camicia rimboccate su le braccia pelose.
- Ps! - chiamò, rivolto al cocchiere.
- Ahò! Piú là...
Il cocchiere reclinò il capo per guardar di sotto la falda della tuba posata sul naso; allentò il freno; scosse le briglie sul dorso dei cavalli e passò avanti alla drogheria, senza dir nulla.
Qua o là, per lui, era lo stesso.
E davanti al portone, anch'esso accostato della casa piú in là, si fermò e riprese a dormire.
- Somaro! - borbottò il droghiere, scrollando le spalle.
- Non s'accorge che tutti i portoni a quest'ora sono accostati.
Dev'essere nuovo del mestiere.
Cosí era veramente.
E non gli piaceva per nientissimo affatto, quel mestiere, a Scalabrino.
Ma aveva fatto il portinajo, e aveva litigato prima con tutti gl'inquilini e poi col padron di casa; il sagrestano a San Rocco, e aveva litigato col parroco; s'era messo per vetturino di piazza e aveva litigato con tutti i padroni di rimessa, fino a tre giorni fa.
Ora, non trovando di meglio in quella stagionaccia morta, s'era allogato in una Impresa di pompe funebri.
Avrebbe litigato pure con questa - lo sapeva sicuro - perché le cose storte, lui, non le poteva soffrire.
E poi era disgraziato, ecco.
Bastava vederlo.
Le spalle in capo; gli occhi a sportello; la faccia gialla, come di cera, e il naso rosso.
Perché rosso, il naso? Perché tutti lo prendessero per ubriacone; quando lui neppure lo sapeva che sapore avesse il vino.
- Puh!
Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca.
E un giorno o l'altro, l'ultima litigata per bene l'avrebbe fatta con l'acqua del fiume, e buona notte.
Per ora là, mangiato dalle mosche e dalla noja, sotto la vampa cocente del sole, ad aspettar quel primo carico.
Il morto.
O non gli sbucò, dopo una buona mezz'ora, da un altro portone in fondo, dall'altro lato della via?
- Te possino...
(al morto) - esclamò tra i denti, accorrendo col carro, mentre i becchini, ansimanti sotto il peso d'una misera bara vestita di mussolo nero, filettata agli orli di fettuccia bianca, sacravano e protestavano:
- Te possino...
(a lui) - Te pij n'accidente - E che er nummero der portone non te l'aveveno dato?
Scalabrino fece la voltata senza fiatare; aspettò che quelli aprissero lo sportello e introducessero il carico nel carro.
- Tira via!
E si mosse, lentamente, a passo, com'era venuto: ancora col piede alzato sul parafango davanti e la tuba sul naso.
Il carro, nudo.
Non un nastro, non un fiore.
Dietro, una sola accompagnatrice.
Andava costei con un velo nero trapunto, da messa, calato sul volto; indossava una veste scura, di mussolo rasato, a fiorellini gialli, e un ombrellino chiaro aveva, sgargiante sotto il sole, aperto e appoggiato su la spalla.
Accompagnava il morto, ma si riparava dal sole con l'ombrellino.
E teneva il capo basso, quasi piú per vergogna che per afflizione.
- Buon passeggio, ah Rosi'! - le gridò dietro il droghiere scamiciato, che s'era fatto di nuovo alla porta della bottega.
E accompagnò il saluto con un riso sguajato, scrollando il capo.
L'accompagnatrice si voltò a guardarlo attraverso il velo; alzò la mano col mezzo guanto di filo per fargli un cenno di saluto, poi l'abbassò per riprendersi di dietro la veste, e mostrò le scarpe scalcagnate.
Aveva però i mezzi guanti di filo e l'ombrellino, lei.
- Povero sor Bernardo, come un cane, - disse forte qualcuno dalla finestra d'una casa.
Il droghiere guardò in sú, seguitando a scrollare il capo.
- Un professore, con la sola servaccia dietro...
- gridò un'altra voce, di vecchia, da un'altra finestra.
Nel sole, quelle voci dall'alto sonavano nel silenzio della strada deserta, strane.
Prima di svoltare, Scalabrino pensò di proporre all'accompagnatrice di pigliare a nolo una vettura per far piú presto, già che nessun cane era venuto a far coda a quel mortorio.
- Con questo sole...
a quest'ora...
Rosina scosse il capo sotto il velo.
Aveva fatto giuramento, lei, che avrebbe accompagnato a piedi il padrone fino all'imboccatura di via San Lorenzo.
- Ma che ti vede il padrone?
Niente! Giuramento.
La vettura, se mai, l'avrebbe presa, lassú, fino a Campoverano.
- E se te la pago io? - insistette Scalabrino.
Niente.
Giuramento.
Scalabrino masticò sotto la tuba un'altra imprecazione e seguitò a passo, prima per il ponte Cavour, poi per Via Tomacelli e per Via Condotti e per Piazza di Spagna e Via Due Macelli e Capo le Case e Via Sistina.
Fin qui, tanto o quanto, si tenne sú, sveglio, per scansare le altre vetture, i tram elettrici e le automobili, considerando che a quel mortorio lí nessuno avrebbe fatto largo e portato rispetto.
Ma quando, attraversata sempre a passo Piazza Barberini, imboccò l'erta via di San Niccolò da Tolentino, rialzò il piede sul parafango, si calò di nuovo la tuba sul naso e si riaccomodò a dormire.
I cavalli, tanto, sapevano la via.
I rari passanti si fermavano e si voltavano a mirare, tra stupiti e indignati.
Il sonno del cocchiere su la cassetta e il sonno del morto dentro il carro: freddo e nel bujo, quello del morto; caldo e nel sole, quello del cocchiere; e poi quell'unica accompagnatrice con l'ombrellino chiaro e il velo nero abbassato sul volto: tutto l'insieme di quel mortorio, insomma, cosí zitto zitto e solo solo, a quell'ora, bruciata, faceva proprio cader le braccia.
Non era il modo, quello, d'andarsene all'altro mondo! Scelti male il giorno, l'ora, la stagione.
Pareva che quel morto lí avesse sdegnato di dare alla morte una conveniente serietà.
Irritava.
Quasi quasi aveva ragione il cocchiere che se la dormiva.
E cosí avesse seguitato a dormire Scalabrino fino al principio di Via San Lorenzo! Ma i cavalli, appena superata l'erta, svoltando per Via Volturno, pensarono bene d'avanzare un po' il passo; e Scalabrino si destò.
Ora, destarsi, veder fermo sul marciapiedi a sinistra un signore allampanato, barbuto, con grossi occhiali neri, stremenzito in un abito grigio, sorcigno, e sentirsi arrivare in faccia, su la tuba, un grosso involto, fu tutt'uno!
Prima che Scalabrino avesse tempo di riaversi, quel signore s'era buttato innanzi ai cavalli, li aveva fermati e, avventando gesti minacciosi, quasi volesse scagliar le mani, non avendo piú altro da scagliare, urlava, sbraitava:
- A me? a me? mascalzone! canaglia! manigoldo! a un padre di famiglia? a un padre di otto figliuoli? manigoldo! farabutto!
Tutta la gente che si trovava a passare per via e tutti i bottegai e gli avventori s'affollarono di corsa attorno al carro e tutti gl'inquilini delle case vicine s'affacciarono alle finestre, e altri curiosi accorsero, al clamore, dalle prossime vie, i quali, non riuscendo a sapere che cosa fosse accaduto, smaniavano, accostandosi a questo e a quello, e si drizzavano su la punta dei piedi.
- Ma che è stato?
- Uhm...
pare che...
dice che...
non so!
- Ma c'è il morto?
- Dove?
- Nel carro, c'è?
- Uhm!...
Chi è morto?
- Gli pigliano la contravvenzione!
- Al morto?
- Al cocchiere...
- E perché?
- Mah!...
pare che...
dice che...
Il signore grigio allampanato seguitava intanto a sbraitare presso la vetrata d'un caffè, dove lo avevano trascinato; reclamava l'involto scagliato contro il cocchiere; ma non s'arrivava ancora a comprendere perché glielo avesse scagliato.
Sul carro, il cocchiere cadaverico, con gli occhi miopi strizzati, si rimetteva in sesto la tuba e rispondeva alla guardia di città che, tra la calca e lo schiamazzo, prendeva appunti su un taccuino.
Alla fine il carro si mosse tra la folla che gli fece largo, vociando; ma, come apparve di nuovo, sotto l'ombrellino chiaro, col velo nero abbassato sul volto, quell'unica accompagnatrice - silenzio.
Solo qualche monellaccio fischiò.
Che era insomma accaduto?
Niente.
Una piccola distrazione.
Vetturino di piazza fino a tre giorni fa, Scalabrino, stordito dal sole, svegliato di soprassalto, s'era scordato di trovarsi su un carro funebre: gli era parso d'essere ancora su la cassetta d'una botticella e, avvezzo com'era ormai da tanti anni a invitar la gente per via a servirsi del suo legno, vedendosi guardato da quel signore sorcigno fermo lí sul marciapiede, gli aveva fatto segno col dito, se voleva montare.
E quel signore, per un piccolo segno, tutto quel baccano...
...
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