LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 6
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Io dovevo rispettarla, adesso, no? Era mia moglie! Ebbene, forse lei non voleva essere rispettata.
Chi sa perché, il vedermi diventare di punto in bianco un marito esemplare, le diede terribilmente ai nervi.
Cominciò per noi una vita d'inferno.
Lei, sempre ingrugnata, spinosa, irrequieta; io, paziente, un po' per paura, un po' per la coscienza d'aver commesso la piú grossa delle bestialità e di doverne piangere le conseguenze.
Le andavo appresso come un cagnolino.
E facevo peggio! Per quanto mi ci scapassi, non riuscivo però a indovinare, che diamine volesse mia moglie.
Ma avrei sfidato chiunque a indovinarlo! Sa che voleva? Voleva esser nata uomo, mia moglie.
E se la pigliava con me perché era nata femmina.
"Uomo, - diceva, - e magari cieco d'un occhio!"
Un giorno le domandai:
- Ma sentiamo un po', che avresti fatto, se fossi nata uomo?
Mi rispose, sbarrando tanto d'occhi:
- Il mascalzone!
- Brava!
- E moglie, niente, sai! Non l'avrei presa.
- Grazie, cara.
- Oh, puoi esserne piú che sicuro!
- E ti saresti spassato? Dunque tu credi che con le donne ci si possa spassare?
Mia moglie mi guardò nel fondo degli occhi.
- Lo domandi a me? - mi disse.
- Tu forse non lo sai? Io non avrei preso moglie anche per non far prigioniera una povera donna.
- Ah, - esclamai.
- Prigioniera ti senti?
E lei:
- Mi sento? E che sono? che sono stata sempre, da che vivo? Io non conosco che te.
Quando mai ho goduto io?
- Avresti voluto conoscer altri?
- Ma certo! ma precisamente come te, che ne hai conosciute tante prima e chi sa quante dopo!
Dunque, signor mio, tenga bene a mente questo: che una donna desidera proprio tal quale come noi.
Lei, per modo d'esempio, vede una bella donna, la segue con gli occhi, se la immagina tutta, e col pensiero la abbraccia, senza dirne nulla, naturalmente, a sua moglie che le cammina accanto? Nel frattempo, sua moglie vede un bell'uomo, lo segue con gli occhi, se lo immagina tutto, e col pensiero lo abbraccia, senza dirne nulla a lei, naturalmente.
Niente di straordinario in questo; ma creda pure che non fa punto piacere il supporre questa cosa ovvia e comunissima nella propria moglie, prigioniera col corpo, non con l'anima.
E il corpo stesso! Dica un po': non abbiamo noi uomini la coscienza che, avendo un'opportunità, non sapremmo affatto resistere? Ebbene, s'immagini che è proprio lo stesso per la donna.
Cascano, cascano che è un piacere, con la stessa facilità, se loro vien fatto, se trovano cioè un uomo risoluto, di cui si possan fidare.
Me l'ha lasciato intender bene mia moglie, parlando - s'intende - delle altre.
E vengo al caso mio.
Naturalmente, dopo un anno di matrimonio, m'ammalai di fegato.
Per sei anni di fila, cure inutili, che fecero strazio del mio povero corpo, ridotto in uno stato da far pietà finanche agli altri ammalati del mio stesso male.
Il rimedio dovevo trovarlo qua.
Ci venni con mia moglie e, nei primi giorni, alloggiai da Rori, dove ora è lei.
Ordinai, appena arrivato, che mi si chiamasse un medico per farmi visitare e prescrivere quanti bicchieri al giorno avrei dovuto bere, o se mi sarebbero convenute piú le docce o i bagni d'acqua sulfurea.
Mi si presentò un bel giovane, bruno, alto, aitante della persona, dall'aria marziale, tutto vestito di nero.
Seppi poco dopo che era stato, difatti, nell'esercito, medico militare, tenente medico; che a Rovigo aveva contratto una relazione con la figlia d'un tipografo; che ne aveva avuto una bambina, e che, costretto a sposare, s'era dimesso ed era venuto qua in condotta.
Otto mesi dopo questo suo grande sacrifizio, gli erano morte quasi contemporaneamente moglie e figliuola.
Erano già passati circa tre anni dalla doppia sciagura, ed egli vestiva ancora di nero, come un bellissimo corvo.
Faceva furore, capirà, con quel sacrifizio delle dimissioni per amore, cosí mal ricompensato dalla sorte; con quelle due disgrazie che gli si leggevano ancora scolpite in tutta la persona, impostata che neanche Carlomagno.
Tutte le donne, a lasciarle fare, avrebbero voluto consolarlo.
Egli lo sapeva e si mostrava sdegnoso.
Dunque venne da me; mi visitò ben bene, palpandomi tutto; mi ripeté press'a poco quel che già tant'altri medici mi avevano detto, e infine mi prescrisse la cura: tre mezzi bicchieri, di questi mezzani, pei primi giorni, poi tre interi, e un giorno bagno, un giorno doccia.
Stava per andarsene, quando finse d'accorgersi della presenza di mia moglie.
- Anche la signora? - domandò, guardandola freddamente.
- No, no, - negò subito mia moglie con viso lungo lungo e le sopracciglia sbalzate fino all'attaccatura dei capelli.
- Eppure, permette? - fece lui.
Le si accostò, le sollevò con delicatezza il mento con una mano, e con l'indice dell'altra le rovesciò appena una palpebra.
- Un po' anemica, - disse.
Mia moglie mi guardò, pallidissima, cose se quella diagnosi a bruciapelo la avesse lí per lí anemizzata.
E con un risolino nervoso su le labbra, alzò le spalle, disse:
- Ma io non mi sento nulla...
Il medico s'inchinò, serio:
- Meglio cosí.
E andò via con molta dignità.
Fosse l'acqua o il bagno o la doccia, o piuttosto, com'io credo, la bella aria che si gode qua e la dolcezza della campagna toscana, il fatto è che mi sentii subito meglio; tanto che decisi di fermarmi per un mese o due; e, per stare con maggior libertà, presi a pigione un appartamentino presso la Pensione, un po' piú giú, da Coli, che ha un bel poggiolo donde si scopre tutta la vallata coi due laghetti di Chiusi e di Montepulciano.
Ma - non so se lei lo ha già supposto - cominciò a sentirsi male mia moglie.
Non diceva anemia, perché lo aveva detto il medico; diceva che si sentiva una certa stanchezza al cuore e come un peso sul petto che le tratteneva il respiro.
E allora io, con l'aria piú ingenua che potei:
- Vuoi farti visitare anche tu, cara?
Si stizzí fieramente, com'io prevedevo, e rifiutò.
Il male, si capisce, crebbe di giorno in giorno, crebbe quanto piú lei s'ostinò nel rifiuto.
Io, duro, non le dissi piú nulla.
Finché lei stessa, un giorno, non potendone piú, mi disse che voleva la visita, ma non di quel medico, no, recisamente no; dell'altro medico condotto (ce n'erano due, allora): dal dottor Berri voleva farsi visitare, ch'era un vecchiotto ispido, asmatico, quasi cieco, già mezzo giubilato, ora giubilato del tutto, all'altro mondo.
- Ma via! - esclamai.
- Chi chiama piú il dottor Berri? E sarebbe poi uno sgarbo immeritato al dottor Loero, che s'è dimostrato sempre cosí premuroso e cortese con noi.
Di fatti, ogni giorno, qua alle Terme, vedendomi scendere dalla vettura con mia moglie, il dottor Loero ci si faceva innanzi con quella impostatura altera e compunta; si congratulava con me della rapida miglioría; m'accompagnava alla fonte e poi sú e giú per i vialetti del parco, non mancando ai debiti riguardi verso mia moglie, ma curandosi pochissimo, nei primi giorni, di lei, che ne gonfiava, s'intende, in silenzio.
Da una settimana, però, avevano preso a battagliar fra loro su l'eterna questione degli uomini e delle donne, dell'uomo che è prepotente, della donna che è vittima, della società che è ingiusta, ecc.
ecc.
Creda, signor mio, non posso piú sentirne parlare, di queste baggianate.
In sette anni di matrimonio, fra me e mia moglie non si parlò mai d'altro.
Le confesso tuttavia che in quella settimana gongolai nel sentir ripetere al dottor Loero con molta compostezza le mie stesse argomentazioni, e col pepe e col sale dell'autorità scientifica.
Mia moglie, a me, mi caricava d'insulti; col dottor Loero, invece, doveva rodere il freno della convenienza; ma della bile che non poteva sputare, insaporava ben bene le parole.
Speravo, con questo, che il mal di cuore le passasse.
Ma che! Come le ho detto, le crebbe di giorno in giorno.
Segno, non le pare? ch'ella voleva convincere con altri argomenti l'avversario.
E guardi un po' che razza di parte tocca talvolta di rappresentare a un povero marito! Sapevo benissimo ch'ella voleva esser visitata dal dottor Loero e ch'era tutta una commedia l'antipatia che questi le faceva, una commedia la pretesa d'esser visitata invece da quel vecchio asmatico e rimbecillito, come una commedia era quel suo mal di cuore.
Eppure dovetti fingere di credere sul serio a tutt'e tre le cose e sudare una camicia per indurla a far quello che lei, in fondo, desiderava.
Caro signore, quando mia moglie, senza busto - s'intende - si stese sul letto e lui, il dottore, la guardò negli occhi nel chinarsi per posarle l'occhio sulla mammella, io la vidi quasi mancare, quasi disfarsi; le vidi negli occhi e nel volto quel tale turbamento...
quel tale tremore, che...
- lei m'intende bene.
La conoscevo e non potevo sbagliare.
Poteva bastare, no? Una moglie rimane onestissima, illibata, inammendabile, dopo una visita come quella; visita medica, c'è poco da dire, sotto gli occhi del marito.
E va bene! Che bisogno c'era, domando io, di venirmi a cantar sul muso quel che già sapevo dentro di me e avevo visto con gli occhi miei e quasi toccato con mano?
Sú, sú.
Coraggio.
Ribeviamo.
Ribeviamo.
Me ne stavo una sera sul poggiolo a contemplare il magnifico spettacolo dell'ampia vallata sotto la luna.
Mia moglie s'era già messa a letto.
Lei mi vede cosí grasso e forse non mi suppone capace di commuovermi a uno spettacolo di natura.
Ma creda che ho un'anima piuttosto mingherlina.
Un'animuccia coi capelli biondi ho, e col visino dolce dolce, diafano e affilato e gli occhi color di cielo.
Un'animuccia insomma che pare un'inglesina, quando, nel silenzio, nella solitudine, s'affaccia alle finestre di questi miei occhiacci di bue, e s'intenerisce alla vista della luna e allo scampanellío che fanno i grilli sparsi per la campagna.
Gli uomini, di giorno, nelle città, e i grilli non si danno requie la notte nelle campagne.
Bella professione, quella del grillo!
- Che fai?
- Canto.
- E perché canti?
Non lo sa nemmeno lui.
Canta.
E tutte le stelle tremano nel cielo.
Lei le guarda.
Bella professione, anche quella delle stelle! Che stanno a farci lassú? Niente.
Guardano anche loro nel vuoto e par che n'abbiano un brivido continuo.
E sapesse quanto mi piace il gufo che, in mezzo a tanta dolcezza, si mette a singhiozzare da lontano, angosciato.
Ci piange lui, dalla dolcezza.
Basta.
Guardavo commosso, come le ho detto, quello spettacolo, ma già sentivo un po' di fresco (eran passate le undici) e stavo per ritirarmi: quando udii picchiar forte e a lungo all'uscio di strada.
Chi poteva essere a quell'ora?
Il dottor Loero.
In uno stato, signor mio, da far compassione finanche alle pietre.
Ubriaco fradicio.
Erano venuti da Firenze, da Perugia e da Roma cinque o sei medici, per la cura dell'acqua, ed egli, col farmacista, aveva pensato bene di dare una cena ai colleghi, nell'Ospedaletto della Croce Verde, dietro la Collegiata, lí vicino a Rori.
Allegra, come lei può immaginare, una cenetta all'ospedale! E altro che cura d'acqua! s'erano ubriacati tutti come tanti...
non diciamo majali, perché i majali, poveracci, non hanno veramente quest'abitudine.
Che idea gli era balenata, nel vino, di venire a inquietar me, ch'ero quella sera, come le ho detto, tutto chiaro di luna?
Barcollava, e dovetti sorreggerlo fino al poggiolo.
Lí m'abbracciò stretto stretto e mi disse che mi voleva bene, un bene da fratello, e che tutta la sera aveva parlato di me coi colleghi, del mio fegato e del mio stomaco rovinati, che gli stavano a cuore, tanto a cuore che, passando innanzi alla mia porta, non aveva voluto trascurare di farmi una visitina, temendo che il giorno appresso non sarebbe potuto andare alle Terme, perché - non si sarebbe detto, veh! - ma aveva proprio bevuto un pochino.
Io a ringraziarlo, si figuri, e a esortarlo ad andarsene a casa, ché era già tardi...
Niente! Volle una seggiola per mettersi a sedere sul poggiolo, e cominciò a parlarmi di mia moglie, che gli piaceva tanto, e voleva che andassi a destarla, perché con lui ci stava, la signora Carlottina, oh se ci stava! e come! Bella puledra ombrosa, che sparava calci per amore, per farsi carezzare...
E via di questo passo, sghignazzando e tentando con gli occhi, che gli si chiudevano soli, certi furbeschi ammiccamenti.
Mi dica lei che potevo fargli in quello stato.
Schiaffeggiare un ubriaco che non si reggeva in piedi? Mia moglie, che s'era svegliata, me lo gridò rabbiosamente tre o quattro volte dal letto.
Anche a me la volontà di schiaffeggiarlo era scesa alle mani: ma chi sa che impressione avrebbe fatto uno schiaffo a quel povero giovine che, nella beata incoscienza del vino, aveva perduto ogni nozione sociale e civile e gridava in faccia la verità allegramente.
Lo afferrai e lo tirai sú dalla seggiola: una certa scrollatina non potei far a meno di dargliela, ma fu lí lí per cascare e dovetti aver cura del suo stato fino alla porta; là...
sí, gli diedi un piccolo spintone e lo mandai a ruzzolare per la strada.
Quando entrai in camera da letto, trovai mia moglie con un diavolo per capello: frenetica addirittura.
S'era levata da letto.
Mi assaltò con ingiurie sanguinose; mi disse che se fossi stato un altro uomo, avrei dovuto pestarmi sotto i piedi quel mascalzone e poi buttarlo dal poggiolo; che ero un uomo di cartapesta, senza sangue nelle vene, senza rossore in faccia, incapace di difendere la rispettabilità della moglie, e capacissimo invece di far tanto di cappello al primo venuto che...
Non la lasciai finire; levai una mano; le gridai che badasse bene: lo schiaffo che avrei dovuto dare a colui, se non fosse stato ubriaco, l'avrei appioppato a lei, se non taceva.
Non tacque, si figuri! Dal furore passò al dileggio.
Ma sicuro che m'era facilissimo fare il gradasso con lei, schiaffeggiare una donna, dopo aver accolto e accompagnato coi debiti riguardi fino alla porta uno che era venuto a insultarmi fino a casa.
Ma perché, perché non ero andata a destarla subito? Anzi perché non glielo avevo introdotto in camera e pregato di mettersi a letto con lei?
- Tu lo sfiderai! - mi gridò in fine, fuori di sé.
- Tu lo sfiderai domani, e guaj a te se non lo fai!
A sentirsi dire certe cose da una donna, qualunque uomo si ribella.
M'ero già spogliato e messo a letto.
Le dissi che la smettesse una buona volta e mi lasciasse dormire in pace: non avrei sfidato nessuno, anche per non dare a lei questa soddisfazione.
Ma durante la notte, tra me e me, ci pensai molto.
Non sapevo e non so di cavalleria, se un gentiluomo debba raccoglier l'insulto e la provocazione di un ubriaco che non sa quel che si dica.
La mattina dopo, ero sul punto di recarmi a prender consiglio da un maggiore in ritiro che avevo conosciuto alle Terme, quando questo stesso maggiore, in compagnia di un altro signore del paese, venne a chiedermi lui soddisfazione a nome del dottor Loero.
Già! per il modo come lo avevo messo alla porta la sera precedente.
Pare che, al mio spintone, cadendo, si fosse ferito al naso.
- Ma se era ubriaco! - gridai a quei signori.
Tanto peggio per me.
Dovevo usargli un certo riguardo.
Io, capisce? E per miracolo mia moglie non mi aveva mangiato, perché non lo avevo buttato giú dal poggiolo!
Basta.
Voglio andar per le leste.
Accettai la sfida; ma mia moglie mi sghignò sul muso e, senza por tempo di mezzo, cominciò a preparar le sue robe.
Voleva partir subito; andarsene, senza aspettar l'esito del duello, che pure sapeva a condizioni gravissime.
Da che ero in ballo, volevo ballare.
Le impose lui, le condizioni: alla pistola.
Benissimo! Ma io pretesi allora, che si facesse a quindici passi.
E scrissi una lettera, alla vigilia, che mi fa crepar dalle risa ogni qual volta la rileggo.
Lei non può figurarsi che sorta di scempiaggini vengano in mente a un pover'uomo in siffatti frangenti.
Non avevo mai maneggiato armi.
Le giuro che, istintivamente, chiudevo gli occhi, sparando.
Il duello si fece su alla Faggeta.
I due primi colpi andarono a vuoto; al terzo...
no, il terzo andò pure a vuoto; fu il quarto; al quarto colpo - veda un po' che testa dura, quella del dottore! - la palla ci vide per me e andò a bollarlo in fronte, ma non gl'intaccò l'osso, gli strisciò sotto la cute capelluta e gli riuscí di dietro, dalla nuca.
Lí per lí parve morto.
Accorremmo tutti; anch'io; ma uno dei miei padrini mi consigliò d'allontanarmi, di salire in vettura e scappare per la via di Chiusi.
Scappai.
Il giorno dopo venni a sapere di che si trattava; e un'altra cosa venni a sapere, che mi riempí di gioja e di rammarico a un tempo: di gioja per me, di rammarico per il mio avversario, il quale, dopo una palla in fronte, pover'uomo, non se la meritava davvero.
Riaprendo gli occhi, nell'Ospedaletto della Croce Verde, il dottor Loero si vide innanzi un bellissimo spettacolo: mia moglie, accorsa al suo capezzale per assisterlo!
Della ferita guarí in una quindicina di giorni: di mia moglie, caro signore, non è piú guarito.
Vogliamo andare per il secondo bicchiere?
PALLINO E MIMÌ
Si chiamò prima Pallino perché, quando nacque, pareva una palla.
Di tutta la figliata, che fu di sei, si salvò lui solo, grazie alle preghiere insistenti e alla tenera protezione dei ragazzi.
Babbo Colombo, come non poteva andare a caccia, ch'era stata la sua passione, non voleva piú neanche cani per casa, e tutti, tutti morti li voleva quei cuccioli là.
Cosí pure fosse morta la Vespina loro madre, che gli ricordava le belle cacciate degli altri anni, quand'egli non soffriva ancora dei maledetti reumi, dell'artritide, che - eccolo là - lo avevano torto come un uncino!
A Chianciano, già il vento ci dava anche nei mesi caldi: certe libecciate che investivano e scotevan le case da schiantarle e portarsele via.
Figurarsi d'inverno! E dunque tutti in cucina, stretti accovacciati da mane a sera nel canto del foco, sotto la cappa, senza cacciar fuori la punta del naso, neanche per andare a messa la domenica.
Giusto, la Collegiata era lí dirimpetto a due passi.
Quasi quasi la messa si poteva vederla dai vetri della finestra di cucina.
Nelle altre camere della casa non ci s'andava se non per ficcarsi a letto, la sera di buon'ora.
Ma babbo Colombo ci faceva anche di giorno una capatina di tanto in tanto, curvo, con le gambe fasciate, spasimando a ogni passo, per andar a vedere dal balcone della sala da pranzo tutta la Val di Chiana che si scopriva di là e il suo bel podere di Caggiolo.
E Vespina, a farglielo apposta, gravida, cosí che poteva appena spiccicar le piote da terra, lo seguiva lemme lemme, per accrescergli il rimpianto della campagna lontana, il dispetto di vedersi ridotto in quello stato.
Maledetta! E ora gli faceva i figliuoli, per giunta.
Ma glieli avrebbe accomodati lui! Oh, senza farli penare, beninteso.
Li avrebbe presi per la coda e là, avrebbe loro sbatacchiata la testa in una pietra.
I ragazzi, la Delmina, Ezio, Igino, la Norina, nel vedergli far l'atto, gridavano:
- No, babbo! piccinini!
Sicché, quando i cuccioli vennero alla luce, ne vollero salvare almeno uno, quello che sembrò loro il piú carino, sottraendolo e nascondendolo.
Ottenuta la grazia, andarono per veder Pallino, e sissignori, gli mancava la coda! Parve loro un tradimento, e si guardarono tutt'e quattro negli occhi:
- Madonna! Senza coda! E come si fa?
Appiccicargliene una finta non si poteva, né fare che il babbo non se n'accorgesse.
Ma ormai la grazia era concessa, e Pallino fu tenuto in casa, per quanto già la tenerezza dei padroncini, a causa di quel ridicolo difetto, fosse venuta a mancare.
Per giunta anche si fece di giorno in giorno piú brutto.
Ma non ne sapeva nulla lui, bestiolino! Senza coda era nato, e pareva ne facesse a meno volentieri; pareva anzi non sospettasse minimamente che gli mancava qualche cosa.
E voleva ruzzare.
Ora, farà pena un bimbo nato male, zoppetto o gobbino, a vederlo ridere e scherzare, ignaro della sua disgrazia; ma una brutta bestiola non ne fa, e se ruzza e disturba, non si ha sofferenza per lei; le si dà un calcio, là e addio.
Pallino, distratto dai suoi giuochi furibondi con un gomitolo o con qualche pantofola da una pedata che lo mandava a ruzzolare da un capo all'altro della cucina, si levava lesto lesto su le due zampette davanti, le orecchie dritte, la testa da un lato, e stava un pezzo a guardare.
Non guaiva né protestava.
Pareva che a poco a poco si capacitasse che i cani debbano esser trattati cosí, che questa fosse una condizione inerente alla sua esistenza canina e che non ci fosse perciò da aversene a male.
Gli ci vollero però circa tre mesi per capire ben bene che al padrone non piaceva che le pantofole gli fossero rosicchiate.
Allora imparò anche a cansar le pedate: appena babbo Colombo alzava il piede, lasciava la preda e andava a cacciarsi sotto il letto.
Lí riparato, imparò un'altra cosa: quanto, cioè, gli uomini siano cattivi.
Si sentí chiamare amorevolmente, invitare a venir fuori col frullo delle dita:
- Qua, Pallino! Caro! caro! qua, piccinino!
S'aspettava carezze, s'aspettava il perdono, ma, appena ghermito per la cuticagna, botte da levare il pelo.
Ah sí? E allora, anche lui si buttò alle cattive: rubò, stracciò, insudiciò, arrivò finanche a morsicare.
Ma ci guadagnò questo, che fu messo alla porta; e, siccome nessuno intercedette per lui, andò randagio e mendico per il paese.
Finché non se lo tolse in bottega Fanfulla Mochi, macellajo, a cui era morto in quei giorni il cagnolino.
Fanfulla Mochi era un bel tipo.
Amava le bestie, e gli toccava ammazzarle; non poteva soffrire gli uomini e gli toccava servirli e rispettarli.
Avrebbe tenuto in cuor suo dalla parte dei poveri; ma, da macellajo, non poteva, perché la carne ai poveri, si sa, riesce indigesta.
Doveva servire i signori che non avevano voluto averlo dalla loro.
Sicuro! Perché era nato signore, lui, almeno per metà! Lo desumeva dal fatto che, uscito a sedici anni da un nobile ospizio in cui era stato accolto fin dalla nascita, gli eran venuti, non sapeva né donde, né come, né perché, sei mila lire, residuo d'un rimborso liquidato in contanti.
Lo avevan messo garzone in una macelleria; e da che c'era, con quella sommetta, aveva seguitato a fare il macellajo per conto suo.
Ma il sanguaccio del gran signore se lo sentiva nelle vene torpide, nelle piote gottose, e un cotal fluido pazzesco gli circolava per il corpo, che ora gli dava una noja cupa e amara, ora lo spingeva a certi atti...
Per esempio: tre anni fa, radendosi la barba e vedendosi allo specchio piú brutto del solito, già invecchiato, infermiccio, s'era lasciata andare una bella rasojata alla gola, tirata coscienziosamente a regola d'arte.
Condotto mezzo morto all'ospedaletto, aveva rassicurato la gente che gli correva dietro spaventata:
- Non è niente, non è niente: un'incicciatina!
Per prima cosa, Fanfulla Mochi ribattezzò Pallino: gli impose il nome di Bistecchino; poi lo portò alla finestra e gli disse:
- Vedi là, Bistecchino, il mio bel Monte Amiata! Grosse le scarpe, ma tu sapessi che cervelli fini ci si fa! Bastardi, ma fini.
Se tu vuoi stare con me, dev'essere un patto che tu diventi un canino saggio e per bene.
T'adotterò io, non temere: acculati qua! Se fossi porco, Bistecchino, mangeresti tu? Io no.
Il porco crede di mangiare per sé e ingrassa per gli altri.
Non è punto bella la sorte del porco.
Ah - io direi - m'allevate per questo? Ringrazio, signori.
Mangiatemi magro.
Pallino a questo punto sternutí due o tre volte, come in segno d'approvazione.
Fanfulla ne fu molto contento, e seguitò a conversare a lungo con lui, ogni giorno; e quello ad ascoltare serio serio, finché, prima una zampa ad annaspare, poi levava la testa e spalancava la bocca a uno sbadiglio seguíto da un variato mugolío, per far intendere al padrone che bastava.
Fosse per la triste esperienza fatta in casa di babbo Colombo, per via della coda che gli mancava, fosse per gli ammaestramenti di Fanfulla, fatto sta ed è che Pallino divenne un cane di carattere, un cane che si faceva notare, non solamente perché scodato, ma anche per il suo particolar modo di condursi tra le bestie sue pari e le superiori.
Era un cane serio, che non dava confidenza a nessuno.
Se qualche suo simile gli veniva dietro o incontro, esso lo puntava raccolto in sé, fermo su le quattro zampe, come per dirgli:
- Chi ti cerca? Lasciami andare!
E questo faceva, non certo per paura, sí per profondo disprezzo dei cani del suo paese, tanto maschi che femmine.
Pareva almeno cosí, perché d'estate quando a Chianciano venivano per la cura dell'acqua i villeggianti in gran numero coi loro cagnolini, e le loro cagnoline, Pallino cangiava di punto in bianco, diventava socievole, chiassone, proprio un altro; tutto il giorno in giro da questa a quella Pensione, a lasciare a suo modo, alzando un'anca, biglietti da visita, il benvenuto ai cani forestieri, agli ospiti, che poi accompagnava da per tutto e, al bisogno, difendeva con feroce zelo dalle aggressioni dei paesani.
Scodinzolare non poteva per salutarli, e si dimenava tutto, si storcignava, si buttava finanche a terra per invitarli a ruzzare.
E i cagnolini forestieri gliene sapevano grado.
In città, uscivano incatenati e con la museruola; qua invece, liberi e sciolti, perché i padroni eran sicuri di non perderli e di non incorrere in multe.
Quei cagnolini, insomma, facevano la villeggiatura anche loro e Pallino era il loro spasso.
Se qualche giorno tardava, essi, in tre, in quattro, si presentavano innanzi alla bottega di Fanfulla per reclamarlo.
- Bistechino, abbi senno! - gli diceva Fanfulla, minacciandolo col dito.
- Codesti cani signorini non sono per te.
Tu cane di strada sei, proletario rinnegato! Non mi piace che tu faccia cosí da buffone ai cani de' signori.
Ma Pallino non gli dava retta, non gli dava retta, non gliene poteva dare, segnatamente quell'anno, perché tra quei cani signorini che venivano a stuzzicarlo in bottega, c'era un amor di canina, piccola quanto un pugno, un batuffoletto bianco arruffato, che non si sapeva dove avesse le zampe, dove le orecchie; letichina di prima forza, che mordeva però per davvero qualche volta.
Certi morsichetti, che ardevano e lasciavano il segno per piú d'un giorno!
Ma Pallino se li pigliava tanto volentieri.
Quella cosina bianca gli guizzava, abbajando, di tra i piedi, per assaltarlo di qua e di là.
Fermo per farle piacere, esso la seguiva con gli occhi in quelle mossette aggraziate; poi, quasi temendo che si straccasse e affiochisse dal troppo abbajare (donde la cavava quella voce piú grossa di lei?) si sdrajava a terra, a pancia all'aria, e aspettava che essa, dopo essersi sfogata per finta, tornasse indietro con la stessa furia e gli saltasse addosso; la abbracciava e si lasciava mordere beatamente il muso e le orecchie.
Se n'era proprio innamorato insomma; e, cosí rozzo e senza coda, povero Pallino, ne' suoi vezzi smorfiosi a quel niente fatto di peli, era d'una ridicolaggine compassionevole.
La canina si chiamava Mimí e alloggiava con la padrona alla Pensione Ronchi.
La padrona era una signorina americana, ormai un po' attempatella, da parecchi anni dimorante in Italia - in cerca d'un marito, dicevano le male lingue.
Perché non lo trovava?
Brutta non era: alta di statura, svelta e anche formosa; begli occhi, bei capelli, labbra un po' tumide, accese, e in tutto il corpo e nel volto un'aria di nobiltà e una certa grazia malinconica.
E poi miss Galley vestiva con ricca e linda semplicità e portava enormi cappelli ondeggianti di lunghi e tenui veli, che le stavano a meraviglia.
Corteggiatori, non gliene mancavano: ne aveva anzi sempre attorno due o tre alla volta, e tutti dapprima, sapendola americana, animati dai piú serii propositi; ma poi...
eh poi, discorrendo, tastando il terreno...
Ecco: povera no, e si vedeva dal modo come viveva; ma ricca miss Galley non era neppure.
E allora...
allora perché era americana?
Senza una buona dote, tanto valeva sposare una signorina paesana.
E tutti i corteggiatori si ritiravano pulitamente in buon ordine.
Miss Galley se ne rodeva e sfogava il rodío segreto in furiose carezza alla sua piccola, cara, fedele Mimí.
Ma fossero state carezze soltanto! La voleva zitella miss Galley, sempre zitella, zitella come lei la sua piccola, cara, fedele Mimí.
Oh avrebbe saputo guardarla lei dalle insidie dei maschiacci! Guaj, guaj se un canino le si accostava.
Subito miss Galley se la toglieva in braccio; ed eran busse, se Mimí, che aveva già cinque anni e non sapeva capacitarsi per qual ragione, rimanendo zitella la padrona, dovesse rimaner zitella anche lei, si ribellava; busse se agitava le zampette per springare a terra, busse se allungava il collo o cacciava il musetto sotto il braccio della sua tiranna per vedere se il canino innamorato la seguisse tuttavia.
Per fortuna, questa crudele sorveglianza si faceva men rigorosa ogni qual volta un nuovo corteggiatore veniva a rinverdir le speranze di miss Galley.
Se Mimí avesse potuto ragionare e riflettere, dalla maggiore o minore libertà di cui godeva, avrebbe potuto argomentare di quanta speranza la nuova avventura desse alimento al cuore inesausto della sua padrona, uccellino dal becco sempre aperto.
Ora, quell'estate, a Chianciano, Mimí era liberissima.
C'era, difatti, alla Pensione Ronchi, un signore, un bell'uomo d'oltre quarant'anni, molto bruno, precocemente canuto, ma coi baffi ancor neri (forse un po' troppo), elegantissimo, il quale, venuto a Chianciano pei quindici giorni della cura, vi si tratteneva da oltre un mese e non accennava ancora d'andarsene, per quanto all'arrivo avesse dichiarato d'avere a Roma urgentissimi affari, a cui s'era sottratto a stento e non senza grave rischio.
Di che genere fossero questi affari, non lo diceva; aveva molto viaggiato e mostrava di conoscer bene Londra e Parigi e d'aver molte aderenze nel mondo giornalistico romano.
Sul registro della Pensione s'era firmato: Comm.
Basilio Gori.
Fin dal primo giorno s'era messo a parlare in inglese, a lungo, con miss Galley.
Ora l'uno e l'altra ogni mattina uscivano dalla Pensione per tempissimo e si recavano a piedi, per il lungo stradale alberato, alle Terme dell'Acqua Santa.
Miss Galley non beveva: diceva d'esser venuta a Chianciano solo per cambiamento d'aria.
Beveva lui.
Passeggiavano accanto, loro due soli, pe' vialetti del prato in pendio sotto gli alti platani, bersagliati dalla maligna curiosità di tutti gli altri bagnanti.
A lui questa maligna curiosità pareva non dispiacesse punto; e se due o tre si fermavano apposta per godere davvicino e con una certa impertinenza di quello spettacolo d'amor peripatetico, egli volgeva loro uno sguardo freddo, sprezzante, ma con un'aria di vanità soddisfatta; ella, invece, abbassava gli occhi, per levarli poco dopo in volto a lui, a ricevere il compenso di quella tenera, istintiva gratitudine che ogni uomo prova per la donna che, sacrificando un po' del suo pudore, dimostra di voler piacere a uno solo, sfidando la malignità degli altri.
Mimí li seguiva, e spesso provocava le risa di quanti stavano a osservar la coppia innamorata, perché di tratto in tratto addentava di dietro la veste della padrona e gliela tirava, gliela scoteva, squassando rabbiosamente la testina, come se volesse richiamarla a sé, arrestarla.
Miss Galley, assalita dalla stizza, strappava la veste dai denti della cagnolina e la mandava a ruzzolar lontano su l'erbetta del prato.
Ma, poco dopo, Mimí ritornava all'assalto, non già perché le premesse la buona reputazione della padrona, ma perché a girar lí per quei pratelli scoscesi s'annojava maledettamente e voleva ritornare in paese ove si sapeva aspettata dal suo Pallino.
Tira e tira, raggiunse finalmente l'intento.
Miss Galley la lasciò, con molti avvertimenti, alla Pensione, adducendo in iscusa che temeva si stancasse troppo, la povera bestiolina.
Difatti miss Galley e il commendator Gori, dopo aver girato per piú di un'ora pei viali dell'Acqua Santa, ritornavano, sempre a piedi, al paese, ma per riprender poco dopo a vagabondare o sú per la strada di Montepulciano, o giú per quella che conduce alla stazione, o salivano al poggio dei Cappuccini, e non rientravano alla Pensione se non all'ora di pranzo.
E, via facendo, ella con l'ombrellino rosso riparava anche lui dai raggi del sole, e tutti e due andavano mollemente quasi avviluppati in una tenerezza deliziosa, assaporando l'ebrietà squisita delle carezze rattenute, dei contatti fuggevoli delle mani, dei lunghi sguardi appassionati, in cui le anime si allacciano, si stringono fino a spasimar di voluttà.
Intanto i vetturini, che non li potevano soffrire perché li vedevano andar sempre a piedi, si facevano venir la tosse ogni qual volta li incontravano per la strada, e quella tosse faceva ridere i signori che traballavano nelle vetturette sgangherate.
A Chianciano ormai non si parlava d'altro; in tutte le Pensioni, al Circolo, al Caffè, in farmacia, al Giuoco del Pallone, all'Arena, miss Galley e il commendator Gori facevano da mane a sera le spese della conversazione.
Chi li aveva incontrati qua e chi là, e lui era messo cosí e lei era messa cosà...
Quelli che, finita la cura, partivano, ragguagliavano i nuovi arrivati, e dopo quattro o cinque giorni domandavano ancora, da lontano, nelle cartoline illustrate, notizie della coppia felice.
Tutt'a un tratto (si era ormai ai primi di settembre) si sparse per Chianciano la notizia che il commendator Gori partiva per Roma all'improvviso, lui solo.
I commenti furono infiniti e grandissimo lo stupore.
Che era accaduto?
Alcuni dicevano che miss Galley aveva saputo che egli era ammogliato e diviso dalla moglie; altri, che il Gori, essendo d'un balzo in principio salito ai sette cieli, aveva avuto bisogno di tutto quel tempo per calare con garbo a ghermir la preda, la quale, alla stretta, gli s'era scoperta magra e spennata; altri poi volevano sostenere che non c'era rottura; che miss Galley avrebbe raggiunto a Roma il fidanzato, e altri infine, che il Gori sarebbe ritornato a Chianciano fra pochi giorni per ripartire quindi con la sposa per Firenze.
Ma quelli della Pensione Ronchi assicuravano che l'avventura era proprio finita, tanto vero che miss Galley non era scesa quel giorno in sala a desinare e che il Gori s'era mostrato a tavola molto turbato.
Tutti questi discorsi s'intrecciavano nella piazza del Giuoco del Pallone, ove l'intera colonia bagnante e molti del paese eran convenuti per assistere alla partenza del Gori.
Quando la vettura uscí dalla porta del paese, tutti si fecero alla spalletta della piazza.
Il Gori, in vettura, leggeva tranquillamente il giornale.
Passando sotto la piazza, levò gli occhi, come per godere, lui attore, dello spettacolo di tanti spettatori.
Ma, all'improvviso, dietro la piccola Arena che sorge in mezzo alla piazza si levò un furibondo abbaío d'una frotta di cani azzuffati, aggrovigliati in una mischia feroce.
Tutti si voltarono a guardare, alcuni ritraendosi per paura, altri accorrendo coi bastoni levati.
In mezzo a quel groviglio c'era Pallino con la sua Mimí, Pallino e Mimí che, tra l'invidia e la gelosia terribile dei loro compagni, erano riusciti finalmente a celebrar le loro nozze.
Le signore torcevano il viso, gli uomini sghignazzavano, quando, preceduta da una frotta di monellacci, si precipitò nella piazza miss Galley, come una furia, scapigliata dal vento e dalla corsa, col cappello in mano e gli occhi gonfi e rossi di pianto.
- Mimí! Mimí! Mimí!
Alla vista dell'orribile scempio, levò le braccia, allibita, poi si coprí il volto con le mani, volse le spalle e risalí in paese con la stessa furia con la quale era venuta.
Rientrata alla Pensione come una bufera, s'avventò contro il Ronchi, contro i camerieri, con le dita artigliate, quasi volesse sbranarli; si contenne a stento, strozzata dalla rabbia, arrangolata, senza potere articolar parola.
Già dianzi aveva perduto la voce, strillando, nell'accorgersi (dopo tanti giorni!) che Mimí non era sorvegliata, che Mimí non era in casa e non si sapeva dove fosse.
Salí nella sua camera, afferrò, ammassò tutte le sue robe nel baule, nelle valige, ordinò una vettura a due cavalli, che la conducesse subito subito alla stazione di Chiusi, perché non voleva trattenersi piú a lungo a Chianciano, neanche un'ora, neanche un minuto.
Sul punto di partire, da quegli stessi monellacci che erano corsi con lei in cerca della cagnolina, ansanti, esultanti per la speranza d'una buona mancia, le fu presentata la povera Mimí, piú morta che viva.
Ma miss Galley, contraffatta dall'ira, con un violentissimo scatto la respinse, storcendo la faccia.
Mimí, all'urto furioso, cadde a terra, batté il musetto e, con acuti guaiti, corse ranca ranca a ficcarsi sotto un divano alto appena tre dita dal suolo, mentre la padrona inviperita montava sul legno e gridava al vetturino:
- Via!
Il Ronchi, i camerieri, i bagnanti rientrati di corsa alla Pensione, restarono un pezzo a guardarsi tra loro, sbalorditi; poi ebbero pietà della povera cagnolina abbandonata; ma, per quanto la chiamassero e la invitassero coi modi piú affettuosi, non ci fu verso di farla uscire da quel nascondiglio.
Bisognò che il Ronchi, ajutato da un cameriere, sollevasse e scostasse il divano.
Ma allora Mimí s'avventò alla porta come una freccia e prese la fuga.
I monelli le corsero dietro, girarono tutto il paese, per ogni verso, arrivarono fin presso la stazione: non la poterono rintracciare.
Il Ronchi, che aveva avuto per lei tante noje, scrollò le spalle, esclamando:
- O vada a farsi benedire!
Dopo cinque o sei giorni, verso sera, Mimí, sudicia, scarduffata, famelica, irriconoscibile, fu rivista per le vie di Chianciano, sotto la pioggia lenta, che segnava la fine della stagione.
Gli ultimi bagnanti partivano: in capo a una settimana, il paesello, annidato su l'alto colle ventoso, avrebbe ripreso il fosco aspetto invernale.
- To', la cagnetta della signorina! - disse qualcuno, vedendola passare.
Ma nessuno si mosse a prenderla, nessuno la chiamò.
E Mimí seguitò a vagare, sotto la pioggia.
Era già stata alla Pensione Ronchi, ma l'aveva trovata chiusa, perché il proprietario s'era affrettato di andare in campagna per la vendemmia.
Di tratto in tratto s'arrestava a guardare con gli occhietti cisposi tra i peli, come se non sapesse ancora comprendere come mai nessuno avesse pietà di lei cosí piccola, di lei cosí carezzata prima e curata: come mai nessuno la prendesse per riportarla alla padrona, che l'aveva perduta, alla padrona, che essa aveva cercato invano per tanto tempo e cercava ancora.
Aveva fame, era stanca, tremava di freddo, non sapeva piú dove andare, dove rifugiarsi.
Nei primi giorni, qualcuno, nel vedersi seguito da lei, si chinò a lisciarla, a commiserarla; ma poi, seccato di trovarsela sempre alle calcagna, la cacciò sgarbatamente.
Era gravida.
Pareva quasi impossibile: una coserellina cosí, che non pareva nemmeno: gravida! E la scostavano col piede.
Fanfulla Mochi, dalla soglia della bottega, vedendola trotterellar per via, sperduta, un giorno la chiamò; le diede da mangiare; e siccome la povera bestiola, ormai avvezza a vedersi scacciata da tutti, se ne stava con la schiena arcuata, per paura, come in attesa di qualche calcio, la lisciò, la carezzò, per rassicurarla.
La povera Mimí, quantunque affamata, lasciò di mangiare per leccar la mano del benefattore.
Allora Fanfulla chiamò Pallino, che dormiva nella cuccia sotto il banco:
- Cane, figlio di cane, brutto libertino scodato, guarda qua la tua sposa!
Ma ormai Mimí non era piú una cagnetta signorina, era divenuta una cagnetta di strada, una delle tante del paese.
E Pallino non la degnò nemmeno d'uno sguardo.
NEL SEGNO
Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all'ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d'introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejòtica.
La capo-sala la guardò male.
- Vuoi farti vedere dagli studenti?
- Sí, per favore; prendete me.
- Ma lo sai che sembri una lucertola?
- Lo so.
Non me n'importa! Prendete me.
- Ma guarda un po' che sfacciata.
E che ti figuri che ti faranno là dentro?
- Come a Nannina, - rispose la Òsimo.
- No?
Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall'ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico.
- E ci vuoi andare? - concluse quella.
- Per me, ti servo.
Ma bada che il segno non te lo levi piú per molti giorni, neppure col sapone.
La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo:
- Voi portatemi, e non ve ne curate.
Le era tornato in volto un po' di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli.
Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti.
E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte.
Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo.
Già due altre volte era sta lí, all'ospedale.
La prima volta, per...
- eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all'ospizio dei trovatelli.
La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all'ospedale piú di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo.
Ora c'era per l'anemia, da un mese.
A forza d'iniezioni di ferro s'era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall'ospedale.
Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur cosí sconsolata.
Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime.
Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai piú altro che morire.
Vittima come era, però, d'una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell'oscura minaccia.
Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose.
Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto.
Invano, allora, le buone suore assistenti s'eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sí; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s'allentava per quelle esortazioni.
Nessuna cosa piú la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s'era illusa, che il vero inganno le era venuto dall'inesperienza, dall'appassionata e credula sua natura, piú che dal giovine a cui s'era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo.
Ma rassegnarsi, no, non poteva.
Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei.
Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni.
Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno...
Sí, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: - Ma un giorno...
- e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire.
Ma lei non mentiva.
Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studii, non fosse venuto a mancare cosí di colpo, laggiú, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d'un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele.
Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d'un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa.
Cosí era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli piú piccoli del barone e anche un po' come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso.
Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità.
Ma che glien'importava, allora? Lavorava con tutto il cuore, per acquistarsi la benevolenza paterna di chi la ospitava, con una speranza segreta: che quelle sue cure amorose, cioè, quei suoi servizi senz'alcun compenso, dopo il sacrificio del padre, valessero a vincere l'opposizione che forse il barone avrebbe fatta al figliuolo maggiore, Riccardo, quando questi, come già le aveva promesso, gli avrebbe dichiarato l'amore che sentiva per lei.
Oh, era sicurissimo Riccardo che il padre avrebbe condisceso di buona voglia; ma aveva appena diciannove anni, era ancora studente di liceo; non si sentiva il coraggio di far quella dichiarazione ai genitori: meglio aspettare qualche anno.
Ora, aspettando...
Ma lí, possibile? nella stessa casa, sempre vicini, fra tante lusinghe, dopo tante promesse, con tanti giuramenti...
La passione la aveva accecata.
Quando, alla fine, il fallo non s'era piú potuto nascondere, cacciata via! Sí, proprio cacciata via, poteva dire, senz'alcuna misericordia, senz'alcun riguardo neanche per il suo stato.
Il Barni aveva scritto a una vecchia zia di lei, perché fosse venuta subito a riprendersela e a portarsela via, laggiú in Calabria, promettendo un assegno; ma la zia aveva scongiurato il barone di aspettare almeno che la nipote si fosse prima liberata a Roma, per non affrontar lo scandalo in un piccolo paese; e il Barni aveva ceduto, ma a patto che il figliuolo non ne avesse saputo nulla e le avesse credute già fuori di Roma.
Dopo il parto, però, ella non era voluta tornare in Calabria; il barone, allora, su tutte le furie, aveva minacciato di togliere l'assegno; e lo aveva tolto difatti, dopo il tentato suicidio.
Riccardo era partito per Firenze; lei, salvata per miracolo, s'era messa a far la giovine di sarta per mantenere sé e la zia.
Era passato un anno; Riccardo era tornato a Roma; ma ella non aveva nemmen tentato di rivederlo.
Fallitole il proposito violento, s'era fitto in capo di lasciarsi morire a poco a poco.
La zia, un bel giorno, aveva perduto la pazienza e se n'era ritornata in Calabria.
Un mese addietro, durante uno svenimento in casa della sarta presso la quale lavorava, era stata condotta lí all'ospedale, e c'era rimasta per curarsi dell'anemia.
L'altro giorno, intanto, dal suo lettino, Raffaella Òsimo aveva veduto passare per la corsia gli studenti di medicina che facevano il corso di semejòtica, e fra questi studenti aveva riveduto, dopo circa due anni, Riccardo, con accanto una giovinetta, che doveva essere una studentessa anche lei, bionda, bella, straniera all'aspetto: e dal modo con cui la guardava...
- ah, Raffaella non poteva ingannarsi! - appariva chiaramente che n'era innamorato.
E come gli sorrideva lei, pendendo quasi dagli occhi di lui...
Li aveva seguiti con lo sguardo fino in fondo alla corsia; poi era rimasta con gli occhi sbarrati, levata su un gomito.
Nannina, la sua vicina di letto, s'era messa a ridere.
- Che hai veduto?
- Nulla...
E aveva sorriso anche lei, riabbandonandosi sul letto, perché il cuore le batteva come volesse balzarle dal seno.
Era venuta poi la capo-sala a invitare Nannina a vestirsi, perché il professore la voleva di là per la lezione agli studenti.
- E che debbono farmi? - aveva domandato Nannina.
- Ti mangeranno! Che vuoi che ti facciano? - le aveva risposto quella.
- Tocca a te; toccherà anche alle altre.
Tanto, tu domani andrai via.
Aveva tremato, dapprima, Raffaella al pensiero che potesse toccare anche a lei.
Ah, cosí caduta, cosí derelitta, come ricomparirgli davanti, lí? Per certi falli, quando la bellezza sia sparita, né compatimento, né commiserazione.
Certo i compagni di Riccardo, vedendola cosí misera, lo avrebbero deriso:
- Come! Con quella lucertolina t'eri messo?
Non sarebbe stata una vendetta.
Né lei, del resto, voleva vendicarsi.
Quando però, dopo circa mezz'ora, Nannina era ritornata al suo lettuccio e le aveva spiegato che cosa le avevano fatto di là e mostrato il corpo tutto segnato, Raffaella improvvisamente aveva cangiato idea; ed ecco, fremeva d'impazienza, ora, aspettando l'arrivo degli studenti.
Giunsero, alla fine, verso le dieci.
C'era Riccardo e, come l'altro giorno, accanto alla studentessa straniera.
Si guardavano e si sorridevano.
- Mi vesto? - domandò Raffaella alla capo-sala, balzando a sedere tutt'accesa sul letto, appena quelli entrarono nella sala in fondo alla corsia.
- Ih che prescia! giú, - le impose la capo-sala, - aspetta prima che il professore dia l'ordine.
Ma Raffaella, come se colei le avesse detto: - Vestiti! - prese a vestirsi di nascosto.
Era già bella e pronta sotto le coperte, quando la capo-sala venne a chiamarla.
Pallida come una morta, convulsa in tutto il misero corpicino, sorridente, con gli occhi sfavillanti e i capelli che le cascavano da tutte le parti, entrò nella sala.
Riccardo Barni, parlava con la giovine studentessa e non s'accorse in prima di lei, che - smarrita fra tanti giovani - lo cercava con gli occhi e non sentiva il medico primario, libero docente di semejòtica, che le diceva:
- Qua, qua, figliuola!
Alla voce del professore, il Barni si voltò e vide Raffaella che lo fissava, avvampata ora in volto: allibí; diventò pallidissimo; gli s'intorbidò la vista.
- Insomma! - gridò il professore.
- Qua!
Raffaella sentí ridere tutti gli studenti e si riscosse vieppiú smarrita; vide che Riccardo si ritraeva in fondo alla sala, verso la finestra; si guardò attorno; sorrise nervosamente e domandò:
- Che debbo fare?
- Qua, qua, qua, stendetevi qua! - le ordinò il professore che stava a capo d'un tavolino, su cui era stesa una specie d'imbottita.
- Eccomi, sissignore! - s'affrettò a ubbidire Raffaella; ma siccome stentava a tirarsi sú a sedere sul tavolino, sorrise di nuovo e disse: - Non ci arrivo...
Uno studente la ajutò a montare.
Seduta, prima di stendersi, guardò il professore, ch'era un bell'uomo, alto di statura, tutto raso, con gli occhiali d'oro, e gli disse, indicando la studentessa straniera:
- Se me lo facesse disegnare da lei...
Nuovo scoppio di risa degli studenti.
Sorrise anche il professore:
- Perché? Ti vergogni?
- Nossignore.
Ma sarei piú contenta.
E si volse a guardare verso la finestra, là in fondo, ove Riccardo s'era rincantucciato, con le spalle volte alla sala.
La bionda studentessa seguí istintivamente quello sguardo.
Aveva già notato l'improvviso turbamento del Barni.
Ora s'accorse ch'egli s'era ritirato là, e si turbò anche lei vivamente.
Ma il professore la chiamò:
- Sú, dunque, a lei, signorina Orlitz.
Contentiamo la paziente.
Raffaella si stese sul tavolino e guardò la studentessa che si sollevava la veletta su la fronte.
Ah, com'era bella, bianca e delicata, con gli occhi celesti, dolci dolci.
Ecco che si liberava dalla mantella, prendeva il lapis dermografico che il professore le porgeva e si chinava su lei per scoprirle, con mani non ben sicure, il seno.
Raffaella Òsimo serrò gli occhi per vergogna di quel suo misero seno, esposto agli sguardi di tanti giovani, là attorno al tavolino.
Sentí posarsi una mano fredda sul cuore.
- Batte troppo...
- disse subito, con spiccato accento esotico, la signorina, ritraendo la mano.
- Quant'è che siete all'ospedale? - domandò il professore.
Raffaella rispose, senza schiuder gli occhi; ma con le palpebre che le fervevano, nervosamente:
- Trentadue giorni.
Son quasi guarita.
- Senta se c'è soffio anemico, - riprese il professore, porgendo alla studentessa lo stetoscopio.
Raffaella sentí sul seno il freddo dello strumento; poi la voce della signorina che diceva:
- Soffio, no...
Palpitazione, troppo.
- Andiamo, faccia la percussione, - ingiunse allora il professore.
Ai primi picchi, Raffaella piegò da un lato la testa, strinse i denti e si provò ad aprire gli occhi; li richiuse subito, facendo un violento sforzo su se stessa per contenersi.
Di tratto in tratto come la studentessa sospendeva un po' la percussione per segnare sotto il dito medio una breve lineetta con il lapis intinto in un bicchier d'acqua che uno studente lí presso reggeva, ella soffiava penosamente per le nari il fiato trattenuto..
Quanto durò quel supplizio? Ed egli era sempre là, presso la finestra...
Perché non lo richiamava il professore? perché non lo invitava a vedere il cuore di lei, che la sua bionda compagna tracciava man mano su quello squallido seno, cosí ridotto per lui?
Ecco, finalmente la percussione era finita.
Ora la studentessa congiungeva tutte le lineette per compire il disegno.
Raffaella fu tentata di guardarselo il suo cuore, lí disegnato; ma, improvvisamente, non poté piú reggere; scoppiò in singhiozzi.
Il professore, seccato, la rimandò nella corsia, ordinando alla capo-sala d'introdurre un'altra inferma meno isterica e meno scema di quella.
La avrebbe egli cercata con gli occhi, almeno, attraversando la corsia? Ma no, no: che importava piú a lei, ormai? Non avrebbe alzato nemmeno il capo per farsi scorgere.
Egli non doveva piú vederla.
Le bastava di avergli fatto conoscere come s'era ridotta per lui.
Prese con le mani tremanti la rimboccatura del lenzuolo e se la tirò sul volto, come se fosse morta.
Per tre giorni Raffaella Òsimo vigilò con attenta cura che il segno del cuore non le si cancellasse dal seno.
Uscita dall'ospedale, innanzi a un piccolo specchio nella sua povera cameretta, si confisse uno stiletto puntato contro la parete, là, nel bel mezzo del segno che la rivale ignara le aveva tracciato.
LA CASA DEL GRANELLA
I
I topi non sospettano l'insidia della trappola.
Vi cascherebbero, se la sospettassero? Ma non se ne capacitano neppure quando vi son cascati.
S'arrampicano squittendo sú per le gretole; cacciano il musetto aguzzo tra una gretola e l'altra; girano; rigirano senza requie, cercando l'uscita.
L'uomo che ricorre alla legge sa, invece, di cacciarsi in una trappola.
Il topo vi si dibatte.
L'uomo, che sa, sta fermo.
Fermo, col corpo, s'intende.
Dentro, cioè con l'anima, fa poi come il topo, e peggio.
E cosí facevano, quella mattina d'agosto, nella sala d'aspetto dell'avvocato Zummo i numerosi clienti, tutti in sudore, mangiati dalle mosche e dalla noja.
Nel caldo soffocante, la loro muta impazienza, assillata dai pensieri segreti, si esasperava di punto in punto.
Fermi però, là, si lanciavano tra loro occhiatacce feroci.
Ciascuno avrebbe voluto tutto per sé, per la sua lite, il signor avvocato, ma prevedeva che questi, dovendo dare udienza a tanti nella mattinata, gli avrebbe accordato pochissimo tempo, e che, stanco, esausto dalla troppa fatica, con quella temperatura di quaranta gradi, confuso, frastornato dall'esame di tante questioni, non avrebbe piú avuto per il suo caso la solita lucidità di mente, il solito acume.
E ogni qualvolta lo scrivano, che copiava in gran fretta una memoria, col colletto sbottonato e un fazzoletto sotto il mento, alzava gli occhi all'orologio a pendolo, due o tre sbuffavano e piú d'una seggiola scricchiolava.
Altri, già sfiniti dal caldo e dalla lunga attesa, guardavano oppressi le alte scansie polverose, sovraccariche d'incartamenti: litigi antichi, procedure, flagello e rovina di tante povere famiglie! Altri ancora, sperando di distrarsi, guardavano le finestre dalle stuoje verdi abbassate, donde venivano i rumori della via, della gente che andava spensierata e felice mentr'essi qua...
auff! E con un gesto furioso scacciavano le mosche, le quali, poverine, obbedendo alla loro natura, si provavano a infastidirli un po' piú e a profittare dell'abbondante sudore che l'agosto e il tormento smanioso delle brighe giudiziarie spremono dalle fronti e dalle mani degli uomini.
Eppure c'era qualcuno piú molesto delle mosche nella sala d'aspetto, quella mattina: il figlio dell'avvocato, brutto ragazzotto di circa dieci anni, il quale era certo scappato di soppiatto dalla casa annessa allo studio, senza calze, scamiciato, col viso sporco, per rallegrare i clienti di papà.
- Tu come ti chiami? Vincenzo? Oh che brutto nome! E questo ciondolo è d'oro? si apre? come si apre? e che c'è dentro? Oh, guarda...
capelli...
E di chi sono? e perché ce li tieni?
Poi, sentendo dietro l'uscio dello studio i passi di papà che veniva ad accompagnare fino alla porta qualche cliente di conto, si cacciava sotto il tavolino, tra le gambe dello scrivano.
Tutti nella sala d'aspetto si levavano in piedi e guardavano con occhi supplici l'avvocato, il quale, alzando le mani, diceva, prima di rientrare nello studio:
- Un po' di pazienza, signori miei.
Uno per volta.
Il fortunato, a cui toccava, lo seguiva ossequioso e richiudeva l'uscio; per gli altri ricominciava piú smaniosa e opprimente l'attesa.
II
Tre soltanto, che parevano marito, moglie e figliuola, non davano alcun segno d'impazienza.
L'uomo, su i sessant'anni, aveva un aspetto funebre; non s'era voluto levar dal capo una vecchia tuba dalle tese piatte, spelacchiata e inverdita, forse per non scemar solennità all'abito nero, all'ampia, greve, antica finanziera, che esalava un odore acuto di naftalina.
Evidentemente s'era parato cosí perché aveva stimato di non poterne fare a meno, venendo a parlare col signor avvocato.
Ma non sudava.
Pareva non avesse piú sangue nelle vene, tanto era pallido; e che avesse le gote e il mento ammuffiti, per una peluria grigia e rada che voleva esser barba.
Aveva gli occhi strabi, chiari, accostati a un gran naso a scarpa; e sedeva curvo, col capo basso, come schiacciato da un peso insopportabile; le mani scarne, diafane, appoggiate al bastoncino.
Accanto a lui, la moglie aveva invece un atteggiamento fierissimo nella lampante balordaggine.
Grassa, popputa, prosperosa, col faccione affocato e un po' anche baffuto e un pajo d'occhi neri spalancati, volti al soffitto.
Con la figliuola, dall'altro lato, si ricascava nel medesimo squallore contegnoso del padre.
Magrissima, pallida, con gli occhi strabi anche lei, sedeva come una gobbina.
Tanto la figlia quanto il padre pareva non cascassero a terra perché nel mezzo avevano quel donnone atticciato che in qualche modo li teneva sú.
Tutti e tre erano osservati dagli altri clienti con intensa curiosità, mista d'una certa costernazione ostile, quantunque essi già tre volte, poverini, avessero ceduto il passo, lasciando intendere che avevano da parlare a lungo col signor avvocato.
Quale sciagura li aveva colpiti? Chi li perseguitava? L'ombra d'una morte violenta, che gridava loro vendetta? La minaccia della miseria?
La miseria, no, di certo.
La moglie era sovraccarica d'oro: grossi orecchini le pendevano dagli orecchi; una collana doppia le stringeva il collo; un gran fermaglio a lagrimoni le andava sú e giú col petto, che pareva un mantice, e una lunga catena le reggeva il ventaglio e tanti e tanti anelli massicci quasi le toglievano l'uso delle tozze dita sanguigne.
Ormai nessuno piú domandava loro il permesso di passare avanti: era già inteso ch'essi sarebbero entrati dopo di tutti.
Ed essi aspettavano, pazientissimi, assorti, anzi sprofondati nel loro cupo affanno segreto.
Solo, di tanto in tanto, la moglie si faceva un po' di vento, e poi lasciava ricadere il ventaglio, e l'uomo si protendeva per ripetere alla figlia:
- Tinina, ricordati del ditale.
Piú d'un cliente aveva cercato di spingere il molestissimo figlio dell'avvocato verso quei tre; ma il ragazzo, adombrato da quel funebre squallore, s'era tratto indietro, arricciando il naso.
L'orologio a pendolo segnava già quasi le dodici, quando, andati via piú o meno soddisfatti tutti gli altri clienti, lo scrivano, vedendoli ancora lí immobili come statue, domandò loro:
- E che aspettano per entrare?
- Ah, - fece l'uomo, levandosi in piedi con le due donne.
- Possiamo?
- Ma sicuro che possono! - sbuffò lo scrivano.
- Avrebbero potuto già da tanto tempo! Si sbrighino, perché l'avvocato desina a mezzogiorno.
Scusino, il loro nome?
L'uomo si tolse finalmente la tuba e, all'improvviso, scoprendo il capo calvo, scoprí anche il martirio che quella terribile finanziera gli aveva fatto soffrire: infiniti rivoletti di sudore gli sgorgarono dal roseo cranio fumante e gl'inondarono la faccia esangue, spiritata.
S'inchinò, sospirando il suo nome:
- Piccirilli Serafino.
III
L'avvocato Zummo credeva d'aver finito per quel giorno, e rassettava le carte su la scrivania, per andarsene, quando si vide innanzi quei tre nuovi, ignoti clienti.
- Lor signori? - domandò di mala grazia.
- Piccirilli Serafino, - ripeté l'uomo funebre, inchinandosi piú profondamente e guardando la moglie e la figliuola per vedere come facevano la riverenza.
La fecero bene, e istintivamente egli accompagnò col corpo la loro mossa da bertucce ammaestrate.
- Seggano, seggano, - disse l'avvocato Zummo, sbarrando tanto d'occhi allo spettacolo di quella mimica.
- È tardi.
Debbo andare.
I tre sedettero subito innanzi alla scrivania, imbarazzatissimi.
La contrazione del timido sorriso, nella faccia cerea del Piccirilli, era orribile: stringeva il cuore.
Chi sa da quanto tempo non rideva piú quel pover uomo!
- Ecco, signor avvocato...
- Siamo venuti, - cominciò contemporaneamente la figlia.
E la madre, con gli occhi al soffitto, sbuffò:
- Cose dell'altro mondo!
- Insomma, parli uno, - disse Zummo, accigliato.
- Chiaramente e brevemente.
Di che si tratta?
- Ecco, signor avvocato, - riprese il Piccirilli, dando un'ingollatina.
- Abbiamo ricevuto una citazione.
- Assassinio, signor avvocato! - proruppe di nuovo la moglie.
- Mammà, - fece timidamente la figlia, per esortarla a tacere o a parlar piú pacata.
Il Piccirilli guardò la moglie, e, con quella autorità che la meschinissima corporatura gli poteva conferire, aggiunse:
- Mararo', ti prego: parlo io! Una citazione, signor avvocato.
Noi abbiamo dovuto lasciar la casa in cui abitavamo, perché...
- Ho capito.
Sfratto? - domandò Zummo per tagliar corto.
- Nossignore, - rispose umilmente il Piccirilli.
- Al contrario.
Abbiamo pagato sempre la pigione, puntualmente, anticipata.
Ce ne siamo andati da noi, contro la volontà del proprietario, anzi.
E il proprietario ora ci chiama a rispettare il contratto di locazione e, per di piú, responsabili di danni e interessi, perché, dice, la casa noi gliel'abbiamo infamata.
- Come come? - fece Zummo, rabbujandosi e guardando, questa volta, la moglie.
- Ve ne siete andati da voi; gli avete infamato la casa, e il proprietario...
Non capisco.
Parliamoci chiaro, signori miei! L'avvocato è come il confessore.
Commercio illecito?
- Nossignore! - s'affrettò a rispondere il Piccirilli, ponendosi le mani sul petto.
- Che commercio? Niente! Noi non siamo commercianti.
Solo mia moglie dà qualche cosina...
cosí..
in prestito, ma a un interesse...
- Onesto, ho capito!
- Creda, sissignore, consentito finanche dalla Santa Chiesa...
Ma questo non c'entra.
Il Granella, proprietario della casa, dice che noi gliel'abbiamo infamata, perché in tre mesi, in quella casa maledetta, ne abbiamo vedute di tutti i colori, signor avvocato! Mi vengono...
mi vengono i brividi solo a pensarci!
- Oh Signore, scampatene e liberatene tutte le creature della terra! - esclamò con un formidabile sospiro la moglie, levandosi in piedi, levando le braccia e poi facendosi con la mano piena d'anelli il segno della croce.
La figlia, col capo basso e con le labbra strette, aggiunse:
- Una persecuzione...
(Siedi, mammà.)
- Perseguitati, sissignore - rincalzò il padre.
- (Siedi, Mararo'!) Perseguitati, è la parola.
Noi siamo stati per tre mesi perseguitati a morte, in quella casa.
- Perseguitati da chi? - gridò Zummo, perdendo alla fine la pazienza.
- Signor avvocato, - rispose piano il Piccirilli, protendendosi verso la scrivania e ponendosi una mano presso la bocca, mentre con l'altra imponeva silenzio alle due donne, - (Ssss...) Signor avvocato, dagli spiriti!
- Da chi? - fece Zummo, credendo d'aver sentito male.
- Dagli spiriti, sissignore! - raffermò forte, coraggiosamente, la moglie, agitando in aria le mani.
Zummo scattò in piedi, su le furie:
- Ma andate là! Non mi fate ridere! Perseguitati dagli spiriti? Io devo andare a mangiare, signori miei!
Quelli, allora, alzandosi anche loro, lo circondarono per trattenerlo, e presero a parlare tutti e tre insieme, supplici:
- Sissignore, sissignore! Vossignoria non ci crede? Ma ci ascolti...
Spiriti, spiriti infernali! Li abbiamo veduti noi, coi nostri occhi.
Veduti e sentiti...
Siamo stati martoriati, tre mesi!
E Zummo, scrollandosi rabbiosamente:
- Ma andate, vi dico! Sono pazzie! Siete venuti da me? Al manicomio, al manicomio, signori miei!
- Ma se ci hanno citato...
- gemette a mani giunte il Piccirilli.
- Hanno fatto benone! - gli gridò Zummo sul muso.
- Che dice, signor avvocato? - s'intromise la moglie, scostando tutti.
- È questa l'assistenza che Vossignoria presta alla povera gente perseguitata? Oh Signore! Vossignoria parla cosí perché non ha veduto come noi! Ci sono, creda pure, ci sono, gli spiriti! ci sono! E nessuno meglio di noi lo può sapere!
- Voi li avete veduti? - le domandò Zummo con un sorriso di scherno.
- Sissignore, con gli occhi miei, - affermò subito, non interrogato, il Piccirilli.
- Anch'io, coi miei, - aggiunse la figlia, con lo stesso gesto.
- Ma forse coi vostri! - non poté tenersi dallo sbuffare l'avvocato Zummo con gl'indici tesi verso i loro occhi strabi.
- E i miei, allora? - saltò a gridare la moglie, dandosi una manata furiosa sul petto e spalancando gli occhiacci.
- Io ce li ho giusti, per grazia di Dio, e belli grossi, signor avvocato! E li ho veduti anch'io, sa, come ora vedo Lei!
- Ah sí? - fece Zummo.
- Come tanti avvocati?
- E va bene! - sospirò la donna.
- Vossignoria non ci crede; ma abbiamo tanti testimoni, sa? tutto il vicinato che potrebbe venire a deporre...
Zummo aggrottò le ciglia:
- Testimoni che hanno veduto?
- Veduto e udito, sissignore!
- Ma veduto...
che cosa per esempio? - domandò Zummo, stizzito.
- Per esempio, seggiole muoversi, senza che nessuno le toccasse...
- Seggiole?
- Sissignore.
- Quella seggiola là, per esempio?
- Sissignore, quella seggiola là, mettersi a far le capriole per la stanza, come fanno i ragazzacci per istrada; e poi, per esempio...
che debbo dire? un portaspilli, per esempio, di velluto, in forma di melarancia, fatto da mia figlia Tinina, volare dal cassettone su la faccia del povero mio marito, come lanciato...
come lanciato da una mano invisibile; l'armadio a specchio scricchiolare e tremar tutto, come avesse le convulsioni, e dentro...
dentro l'armadio, signor avvocato...
mi s'aggricciano le carni solo a pensarci...
risate!
- Risate! - aggiunse la figlia.
- Risate! - il padre.
E la moglie, senza perder tempo, seguitò:
- Tutte queste cose, signor avvocato mio, le hanno vedute e udite le nostre vicine, che sono pronte, come le ho detto, a testimoniare.
Noi abbiamo veduto e udito ben altro!
- Tinina, il ditale, - suggerí, a questo punto, il padre.
- Ah, sissignore, - prese a dire la figlia, riscotendosi con un sospiro.
- Avevo un ditalino d'argento, ricordo della nonna, sant'anima! Lo guardavo, come la pupilla degli occhi.
Un giorno, lo cerco nella tasca e non lo trovo! lo cerco per tutta la casa e non lo trovo.
Tre giorni a cercarlo, che a momenti ci perdevo anche la testa.
Niente! Quando una notte, mentre stavo a letto, sotto la zanzariera...
- Perché ci sono anche le zanzare, in quella casa, signor avvocato! - interruppe la madre.
- E che zanzare! - appoggiò il padre, socchiudendo gli occhi e tentennando il capo.
- Sento, - riprese la figlia, - sento qualcosa che salta sul cielo della zanzariera...
A questo punto il padre la fece tacere con un gesto della mano.
Doveva attaccar lui.
Era un pezzo concertato, quello.
- Sa, signor avvocato? tal quale come si fanno saltare le palle di gomma, che si dà loro un colpetto e rivengono alla mano.
- Poi, - seguitò la figlia, - come lanciato piú forte, il mio ditalino dal cielo della zanzariera va a schizzare al soffitto e casca per terra, ammaccato.
- Ammaccato, - ripeté la madre.
E il padre:
- Ammaccato!
- Scendo dal letto, tutta tremante, per raccoglierlo e, appena mi chino, al solito, dal tetto...
- Risate, risate, risate...
- terminò la madre.
L'avvocato Zummo restò a pensare, col capo basso e le mani dietro la schiena, poi si riscosse, guardò negli occhi i tre clienti, si grattò il capo con un dito e disse con un risolino nervoso:
- Spiriti burloni, dunque! Seguitate, seguitate...
mi diverto.
- Burloni? Ma che burloni, signor avvocato! - ripigliò la donna.
- Spiriti infernali, deve dire Vossignoria! Tirarci le coperte del letto; sederci su lo stomaco, la notte; percuoterci alle spalle; afferrarci per le braccia; e poi scuotere tutti i mobili, sonare i campanelli, come se, Dio liberi e scampi, ci fosse il terremoto; avvelenarci i bocconi, buttando la cenere nelle pentole e nelle casseruole...
Li chiama burloni Lei? Non ci hanno potuto né il prete né l'acqua benedetta! Allora ne abbiamo parlato al Granella, scongiurandolo di scioglierci dal contratto, perché non volevamo morire là, dallo spavento, dal terrore...
Sa che ci ha risposto quell'assassino? Storie! ci ha risposto.
Gli spiriti.? Mangiate, dice, buone bistecche, dice, e curatevi i nervi.
Lo abbiamo invitato a vedere con gli occhi suoi, a sentire con le sue orecchie.
Niente.
Non ha voluto saperne; anzi ci ha minacciati: "Guardatevi bene" dice "dal farne chiasso, o vi fulmino!".
Proprio cosí.
- E ci ha fulminato! - concluse il marito, scotendo il capo amaramente.
- Ora, signor avvocato, noi ci mettiamo nelle sue mani.
Vossignoria può fidarsi di noi: siamo gente dabbene: sapremo fare il nostro dovere.
L'avvocato Zummo finse, al solito, di non udire queste ultime parole: si stirò per un pezzo ora un baffo ora l'altro, poi guardò l'orologio.
Era presso il tocco.
La famiglia, di là, lo aspettava da un'ora per il desinare.
- Signori miei, - disse, - capirete benissimo che io non posso credere ai vostri spiriti.
Allucinazioni...
storielle da femminucce.
Guardo il caso, adesso, dal lato giuridico.
Voi dite d'aver veduto...
non diciamo spiriti, per carità! dite d'avere anche testimoni, e va bene; dite che l'abitazione in quella casa vi era resa intollerabile da questa specie di persecuzione...
diciamo, strana...
ecco! Il caso è nuovo e speciosissimo; e mi tenta, ve lo confesso.
Ma bisognerà trovare nel codice un qualche appoggio, mi spiego? un fondamento giuridico alla causa.
Lasciatemi vedere, studiare, prima di prendermene l'accollo.
Ora è tardi.
Ritornate domani e vi saprò dare una risposta.
Va bene cosí?
IV
Subito il pensiero di quella strana causa si mise a girar nella mente dell'avvocato Zummo come una ruota di molino.
A tavola, non poté mangiare; dopo tavola, non poté riposare come soleva d'estate, ogni giorno, buttato sul letto.
- Gli spiriti! - ripeteva tra sé di tratto in tratto; e le labbra gli s'aprivano a un sorriso canzonatorio, mentre davanti a gli occhi gli si ripresentavano le comiche figure dei tre nuovi clienti, che giuravano e spergiuravano d'averli veduti.
Tante volte aveva sentito parlar di spiriti; e, per certi racconti delle serve, ne aveva avuto anche lui una gran paura, da ragazzo.
Ricordava ancora le angosce che gli avevano strizzato il coricino atterrito nelle terribili insonnie di quelle notti lontane.
- L'anima! - sospirò a un certo punto, stirando le braccia verso il cielo della zanzariera, e lasciandole poi ricader pesantemente sul letto.
- L'anima immortale...
Eh già! Per ammetter gli spiriti bisogna presupporre l'immortalità dell'anima; c'è poco da dire.
L'immortalità dell'anima...
Ci credo, o non ci credo? Dico e ho detto sempre di no.
Dovrei ora, almeno, ammettere il dubbio, contro ogni mia precedente asserzione.
E che figura ci faccio? Vediamo un po'.
Noi spesso fingiamo con noi stessi, come con gli altri.
Io lo so bene.
Sono molto nervoso e, qualche volta, sissignore, trovandomi solo, io ho avuto paura.
Paura di che? Non lo so.
Ho avuto paura! Noi...
ecco, noi temiamo di indagare il nostro intimo essere, perché una tale indagine potrebbe scoprirci diversi da quelli che ci piace di crederci o di esser creduti.
Io non ho mai pensato sul serio a queste cose.
La vita ci distrae.
Faccende, bisogni, abitudini, tutte le minute brighe cotidiane non ci lasciano tempo di riflettere a queste cose, che pure dovrebbero interessarci sopra tutte le altre.
Muore un amico? Ci arrestiamo là, davanti alla sua morte, come tante bestie restíe, e preferiamo di volgere indietro il p
...
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