LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 5
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- Che cos'è: che cos'è? Guardami!...
Tu non volevi venire, è vero? Ti ha condotto lui, questo discolaccio! Ma non farò nemmeno una carezza a lui...
Tu sei il mio buon Beniamino, il mio gran giovanottone sei...
Caro! caro!...
Suvvia, asciughiamo codeste lagrimucce...
Cosí...
cosí...
Guarda qua questa bella turchese: chi me l'ha regalata? chi l'ha regalata a Nadina sua? Ma questo mio bel vecchiaccio me l'ha regalata...
Toh, caro!
E gli posa un bacio su la fronte.
Poi si alza di scatto e rapidamente con le dita si porta via le lagrime dagli occhi.
- Che posso offrirvi?
Cristoforo Golisch, rimasto mortificato e ingrugnato, non vuole accettar nulla; Beniamino Lenzi accetta un biscottino e lo mangia accostando la bocca alla mano di Nadina che lo tiene tra le dita e finge di non volerglielo dare, scattando con brevi risatine:
- No...
no...
no...
Bellini tutt'e due, adesso, come ridono, come ridono a quello scherzo...
ACQUA AMARA
Poca gente, quella mattina, nel parco attorno alle Terme.
La stagione balneare era ormai per finire.
In due sediletti vicini, in un crocicchio sotto gli alti platani, stavano un giovanotto pallido, anzi giallo, magro da far pietà dentro l'abito nuovo, chiaro, le cui pieghe, per esser troppo ampio, ancora fresche della stiratura, cascavano tutte a zig-zag, e un omaccione su la cinquantina, con un abituccio di teletta tutto raggrinzito dove la pinguedine enorme non lo stirava fino a farlo scoppiare, e un vecchio panama sformato sul testone raso.
Reggevano entrambi per il manico i bicchieri ancor pieni della tepida e greve acqua alcalina presa or ora alla fonte.
L'uomo grasso, quasi intronato ancora dagli strepitosi ronfi che aveva dovuto tirar col naso durante la notte, socchiudeva di tanto in tanto nel faccione da padre abate satollo e pago gli occhi imbambolati dal sonno.
Il giovanotto magro, all'aria frizzante della mattina, sentiva freddo e aveva perfino qualche brivido.
Né l'uno né l'altro sapevano risolversi a bere e pareva che ciascuno aspettasse dall'altro l'esempio.
Alla fine, dopo il primo sorso, si guardarono coi volti contratti dalla medesima espressione di nausea.
- Il fegato, eh? - domandò piano, a un tratto, l'uomo grasso al giovinotto, riscotendosi.
- Colichette epatiche, eh? Lei ha moglie, mi figuro...
- No, perché? - domandò a sua volta il giovinotto con un penoso raggrinzamento di tutta la faccia, che voleva esser sorriso.
- Mi pareva, cosí all'aria...
- sospirò l'altro.
- Ma se non ha moglie, stia pur tranquillo: lei guarirà!
Il giovinotto tornò a sorridere come prima.
- Lei soffre forse di fegato? - domandò poi, argutamente.
- No, no, niente piú moglie, io! - s'affrettò a rispondere con serietà l'uomo grasso.
- Soffrivo di fegato; ma grazie a Dio, mi sono liberato della moglie; son guarito.
Vengo qua, da tredici anni ormai, per atto di gratitudine.
Scusi, quand'è arrivato lei?
- Ieri sera, alle sei, - disse il giovinotto.
- Ah, per questo! - esclamò l'altro, socchiudendo gli occhi e tentennando il testone.
- Se fosse arrivato di mattina, già mi conoscerebbe.
- Io...
la conoscerei?
- Ma sí, come mi conoscono tutti, qua.
Sono famoso! Guardi, alla Piazza dell'Arena, in tutti gli Alberghi, in tutte le Pensioni, al Circolo, al Caffè da Pedoca, in farmacia, da tredici anni a questa parte, stagione per stagione, non si parla che di me.
Io lo so e ne godo e ci vengo apposta.
Dov'è sceso lei? Da Rori? Bravo.
Stia pur sicuro che oggi, a tavola da Rori, le narreranno la mia storia.
Ci prendo avanti, se permette, e gliela narro io, filo filo.
Cosí dicendo, si tirò sú faticosamente dal suo sedile e andò a quello del giovinotto, che gli fece posto, con la faccetta gialla tutta strizzata per la contentezza.
- Prima di tutto, per intenderci, qua mi chiamano Il marito della dottoressa.
Cambiè mi chiamo.
Di nome, Bernardo.
Bernardone, perché sono grosso.
Beva.
Bevo anch'io.
Bevvero.
Fecero una nuova smorfia di disgusto, che vollero cangiar subito in un sorriso, guardandosi teneramente.
E Cambiè riprese:
- Lei è giovanissimo e patituccio sul serio.
Queste confidenze sviscerate che le farò, le potranno servire piú di quest'acquaccia qua, che è amara, ma, in compenso, non giova a nulla, creda pure.
Ce la danno a bere, in tutti i sensi, e noi la beviamo perché è cattiva.
Se fosse buona...
Ma no, basta: perché lei fa la cura e le conviene aver fiducia.
Deve sapere che sentivo dire matrimonio e, con rispetto parlando, mi si rompeva lo stomaco, proprio mi...
mi veniva di...
sissignore.
Vedevo un corteo nuziale? sapevo che un amico andava a nozze? Lo stesso effetto.
Ma che vuole da noi, sciagurati mortali? Spunta una macchiolina nel sole? un subisso di cataclismi.
Un re si alza con la lingua sporca? guerre e sterminii senza fine.
Un vulcano ci ha il singhiozzo? terremoti, catastrofi, un'ecatombe...
A Napoli, al tempo mio, ci scoppiò il colera: quel gran colera di circa vent'anni fa, di cui lei, se non si ricorda, avrà certo sentito parlare.
Mio padre, povero impiegato, con la bella fortuna che lo perseguitava, naturalmente si trovò a Napoli, l'anno del colera.
Io, che avevo già trent'anni e vi avevo trovato un buon collocamento, avevo preso a pigione un quartierino da scapolo, non molto lontano da casa mia.
Stavo in famiglia, e lí tenevo una ragazza che m'era piovuta come dal cielo.
Carlotta.
Si chiamava cosí.
Ed era figlia d'un...
non c'è niente di male, sa! professioni, - figlia d'uno strozzino.
Prete spogliato.
Era scappata di casa per certi litigi con la madraccia e un fratellino farabutto, che non starò a raccontarle.
Pareva bonina, lei; ed era forse, allora; ma capirà: amante, poco ci sofisticavo.
Scusi, è religioso lei? Cosí cosí.
Forse piú non che sí.
Come me.
Mia madre, invece, caro signore, religiosissima.
Povera donna, soffriva molto di quella mia relazione per lei peccaminosa.
Sapeva che quella ragazza, prima che mia, non era stata d'altri.
Scoppiato il colera, atterrita dalla grande moría e convinta fermamente che dovessimo tutti morire, io sopra tutti, ch'ero, secondo lei, in peccato mortale, per placare l'ira divina, pretese da me il sacrifizio che sposassi, almeno in chiesa solamente, quella ragazza.
Creda pure che non l'avrei mai fatto, se Carlotta non fosse stata colpita dal male.
Dovevo salvarle l'anima, almeno: l'avevo promesso a mia madre.
Corsi a chiamare un prete e la sposai.
Ma che fu? mano santa? miracolo? Pareva morta, guarí!
Mia madre, per spirito di carità, anzi di sacrifizio, non ostante la tremarella, aveva voluto assistere alla cerimonia, e poi rimanere lí presso al letto della colpita.
Sembrava che il colera fosse venuto a Napoli per me, per castigar me dal peccato mortale, e che dovesse passare con la guarigione di Carlotta, tanto impegno, tanto zelo mise mia madre a curarla.
Appena l'ebbe salvata, vedendo che lí, in quel quartierino, mancavano per la convalescente tutti i comodi, volle anche portarsela a casa, non ostante la mia opposizione.
Capirà bene che, entrata, Carlotta non ne uscí se non mia sposa legittima di lí a poco, appena cessata la moría.
E ribeviamo, caro signore!
Per fortuna, a Carlotta durante l'epidemia erano morti padre, madre e fratelli.
Fortuna e disgrazia, perché, unica superstite della famiglia, ereditò trentotto o quarantamila lire, frutto della nobile professione paterna.
Moglie e con la dote, che vide, signor mio? cambiò da un giorno all'altro, da cosí a cosí.
Ora senta.
Sarà che io mi trovo in corpo un certo spiritaccio...
come dire? fi...
filosofesco, che magari a lei potrà sembrare strambo; ma mi lasci dire.
Crede lei che ci siano due soli generi, il maschile e il femminile?
Nossignore.
La moglie è un genere a parte; come il marito, un genere a parte.
E, quanto ai generi, la donna, col matrimonio, ci guadagna sempre.
Avanza! Entra cioè a partecipar di tanto del genere mascolino, di quanto l'uomo, necessariamente, ne scapita molto, creda a me.
Se mi venisse la malinconia di comporre una grammatichetta ragionata come dico io, vorrei mettere per regola che si debba dire: il moglie; e, per conseguenza, la marito.
Lei ride? Ma per la moglie, caro signore, il marito non è piú un uomo.
Tanto vero, che non si cura piú di piacergli.
"Con te non c'è piú sugo, -pensa la moglie.
- Tu già mi conosci."
Ma pure, se il marito è cosí dabbenaccio da rinzelarsi, vedendola per esempio a letto come una diavola, coi capelli incartocciati, col viso impiastricciato, e via dicendo:
- Ma io lo faccio per te! - è capace di rispondergli lei.
- Per me?
- Sicuro.
Per non farti sfigurare.
Ti piacerebbe che la gente, vedendoci per via, dicesse: "Oh guarda un po' che moglie è andata a scegliersi quel pover'uomo"?
E il marito, che - gliel'assicuro - non è piú uomo, si sta zitto; quand'invece dovrebbe gridare:
- Ma me lo dico io da me, cara, che moglie sono andato a scegliermi, nel vederti cosí, adesso, accanto a me! Ah, tu mi ti mostri brutta per casa e a letto, perché gli altri poi, per via, possano esclamare: "Oh guarda che bella moglie ha quel pover'uomo"? E mi debbono invidiare per giunta? Ma grazie, grazie cara, di quest'invidia per me, che si traduce, naturalmente, in un desiderio di te.
Tu vuoi esser desiderata perché io sia invidiato? Quanto sei buona! Ma piú buono sono io che t'ho sposata.
E il dialogo potrebbe seguitare.
Perché c'è il caso, sa? che la moglie abbia anche l'impudenza incosciente di domandare al marito se, acconciata adesso e parata per uscire a passeggio, gli pare che stia bene.
Il marito dovrebbe risponderle:
- Ma sai, cara? i gusti son tanti.
A me, come a me, già te l'ho detto, codesti capelli pettinati cosí non mi garbano.
A chi vuoi piacere? Bisognerebbe che tu me lo dicessi, per saperti rispondere.
A nessuno? proprio a nessuno? Ma allora, benedetta te, nessuno per nessuno, cerca di piacere a tuo marito, che almeno è uno!
Caro signore, a una tale risposta la moglie guarderebbe il marito quasi per compassione, poi farebbe una spallucciata, come a dire:
- Ma tu che c'entri?
E avrebbe ragione.
Le donne non possono farne a meno: per istinto, vogliono piacere.
Han bisogno d'esser desiderate, le donne.
Ora, capirà, un marito non può piú desiderar la moglie che ha giorno e notte con sé.
Non può desiderarla, intendo com'ella vorrebbe essere desiderata.
Già, come la moglie nel marito non vede piú l'uomo, cosí l'uomo nella moglie, a lungo andare, non vede piú la donna.
L'uomo, piú filosofo per natura, ci passa sopra; la donna, invece, se ne offende; e perciò il marito le diventa presto increscioso e spesso insopportabile.
Essa deve fare il comodo suo, il marito no.
Ma qualunque cosa egli facesse, creda pure, non andrebbe mai bene per lei, perché l'amore, quel tale amore di cui ella ha bisogno, il marito, solamente perché marito, non può piú darglielo.
Piú che amore è una cert'aura di ammirazione di cui ella vuol sentirsi avviluppata.
Ora vada lei ad ammirarla per la casa coi diavoletti in capo, senza busto, in ciabatte, e oggi, poniamo, col mal di pancia e domani col mal di denti.
Quella cert'aura può spirar fuori, dagli occhi degli uomini che non sanno, e dei quali essa, senza parere, con arte sopraffina, ha voluto e saputo attirare e fermare gli sguardi per inebriarsene deliziosamente.
Se è una moglie onesta, questo le basta.
Le parlo adesso delle mogli oneste, io, intendiamoci, anzi delle intemerate addirittura.
Delle altre non c'è piú sugo a parlarne.
Mi consenta un'altra piccola riflessione.
Noi uomini abbiamo preso il vezzo di dire che la donna è un essere incomprensibile.
Signor mio, la donna, invece, è tal quale come noi, ma non può né mostrarlo, né dirlo, perché sa, prima di tutto, che la società non glielo consente, recando a colpa a lei quel che invece reputa naturale per l'uomo; e poi perché sa che non farebbe piacere agli uomini, se lo mostrasse e lo dicesse.
Ecco spiegato l'enigma.
Chi ha avuto come me la disgrazia d'intoppare in una moglie senza peli sulla lingua, lo sa bene.
E diamo ancora una bevutina.
Coraggio!
Non era cosí dapprima Carlotta.
Diventò cosí subito dopo il matrimonio, appena cioè si sentí a posto e s'accorse ch'io cominciai naturalmente a vedere in lei non soltanto il piacere, ma anche quella bruttissima cosa che è il dovere.
Io dovevo rispettarla, adesso, no? Era mia moglie! Ebbene, forse lei non voleva essere rispettata.
Chi sa perché, il vedermi diventare di punto in bianco un marito esemplare, le diede terribilmente ai nervi.
Cominciò per noi una vita d'inferno.
Lei, sempre ingrugnata, spinosa, irrequieta; io, paziente, un po' per paura, un po' per la coscienza d'aver commesso la piú grossa delle bestialità e di doverne piangere le conseguenze.
Le andavo appresso come un cagnolino.
E facevo peggio! Per quanto mi ci scapassi, non riuscivo però a indovinare, che diamine volesse mia moglie.
Ma avrei sfidato chiunque a indovinarlo! Sa che voleva? Voleva esser nata uomo, mia moglie.
E se la pigliava con me perché era nata femmina.
"Uomo, - diceva, - e magari cieco d'un occhio!"
Un giorno le domandai:
- Ma sentiamo un po', che avresti fatto, se fossi nata uomo?
Mi rispose, sbarrando tanto d'occhi:
- Il mascalzone!
- Brava!
- E moglie, niente, sai! Non l'avrei presa.
- Grazie, cara.
- Oh, puoi esserne piú che sicuro!
- E ti saresti spassato? Dunque tu credi che con le donne ci si possa spassare?
Mia moglie mi guardò nel fondo degli occhi.
- Lo domandi a me? - mi disse.
- Tu forse non lo sai? Io non avrei preso moglie anche per non far prigioniera una povera donna.
- Ah, - esclamai.
- Prigioniera ti senti?
E lei:
- Mi sento? E che sono? che sono stata sempre, da che vivo? Io non conosco che te.
Quando mai ho goduto io?
- Avresti voluto conoscer altri?
- Ma certo! ma precisamente come te, che ne hai conosciute tante prima e chi sa quante dopo!
Dunque, signor mio, tenga bene a mente questo: che una donna desidera proprio tal quale come noi.
Lei, per modo d'esempio, vede una bella donna, la segue con gli occhi, se la immagina tutta, e col pensiero la abbraccia, senza dirne nulla, naturalmente, a sua moglie che le cammina accanto? Nel frattempo, sua moglie vede un bell'uomo, lo segue con gli occhi, se lo immagina tutto, e col pensiero lo abbraccia, senza dirne nulla a lei, naturalmente.
Niente di straordinario in questo; ma creda pure che non fa punto piacere il supporre questa cosa ovvia e comunissima nella propria moglie, prigioniera col corpo, non con l'anima.
E il corpo stesso! Dica un po': non abbiamo noi uomini la coscienza che, avendo un'opportunità, non sapremmo affatto resistere? Ebbene, s'immagini che è proprio lo stesso per la donna.
Cascano, cascano che è un piacere, con la stessa facilità, se loro vien fatto, se trovano cioè un uomo risoluto, di cui si possan fidare.
Me l'ha lasciato intender bene mia moglie, parlando - s'intende - delle altre.
E vengo al caso mio.
Naturalmente, dopo un anno di matrimonio, m'ammalai di fegato.
Per sei anni di fila, cure inutili, che fecero strazio del mio povero corpo, ridotto in uno stato da far pietà finanche agli altri ammalati del mio stesso male.
Il rimedio dovevo trovarlo qua.
Ci venni con mia moglie e, nei primi giorni, alloggiai da Rori, dove ora è lei.
Ordinai, appena arrivato, che mi si chiamasse un medico per farmi visitare e prescrivere quanti bicchieri al giorno avrei dovuto bere, o se mi sarebbero convenute piú le docce o i bagni d'acqua sulfurea.
Mi si presentò un bel giovane, bruno, alto, aitante della persona, dall'aria marziale, tutto vestito di nero.
Seppi poco dopo che era stato, difatti, nell'esercito, medico militare, tenente medico; che a Rovigo aveva contratto una relazione con la figlia d'un tipografo; che ne aveva avuto una bambina, e che, costretto a sposare, s'era dimesso ed era venuto qua in condotta.
Otto mesi dopo questo suo grande sacrifizio, gli erano morte quasi contemporaneamente moglie e figliuola.
Erano già passati circa tre anni dalla doppia sciagura, ed egli vestiva ancora di nero, come un bellissimo corvo.
Faceva furore, capirà, con quel sacrifizio delle dimissioni per amore, cosí mal ricompensato dalla sorte; con quelle due disgrazie che gli si leggevano ancora scolpite in tutta la persona, impostata che neanche Carlomagno.
Tutte le donne, a lasciarle fare, avrebbero voluto consolarlo.
Egli lo sapeva e si mostrava sdegnoso.
Dunque venne da me; mi visitò ben bene, palpandomi tutto; mi ripeté press'a poco quel che già tant'altri medici mi avevano detto, e infine mi prescrisse la cura: tre mezzi bicchieri, di questi mezzani, pei primi giorni, poi tre interi, e un giorno bagno, un giorno doccia.
Stava per andarsene, quando finse d'accorgersi della presenza di mia moglie.
- Anche la signora? - domandò, guardandola freddamente.
- No, no, - negò subito mia moglie con viso lungo lungo e le sopracciglia sbalzate fino all'attaccatura dei capelli.
- Eppure, permette? - fece lui.
Le si accostò, le sollevò con delicatezza il mento con una mano, e con l'indice dell'altra le rovesciò appena una palpebra.
- Un po' anemica, - disse.
Mia moglie mi guardò, pallidissima, cose se quella diagnosi a bruciapelo la avesse lí per lí anemizzata.
E con un risolino nervoso su le labbra, alzò le spalle, disse:
- Ma io non mi sento nulla...
Il medico s'inchinò, serio:
- Meglio cosí.
E andò via con molta dignità.
Fosse l'acqua o il bagno o la doccia, o piuttosto, com'io credo, la bella aria che si gode qua e la dolcezza della campagna toscana, il fatto è che mi sentii subito meglio; tanto che decisi di fermarmi per un mese o due; e, per stare con maggior libertà, presi a pigione un appartamentino presso la Pensione, un po' piú giú, da Coli, che ha un bel poggiolo donde si scopre tutta la vallata coi due laghetti di Chiusi e di Montepulciano.
Ma - non so se lei lo ha già supposto - cominciò a sentirsi male mia moglie.
Non diceva anemia, perché lo aveva detto il medico; diceva che si sentiva una certa stanchezza al cuore e come un peso sul petto che le tratteneva il respiro.
E allora io, con l'aria piú ingenua che potei:
- Vuoi farti visitare anche tu, cara?
Si stizzí fieramente, com'io prevedevo, e rifiutò.
Il male, si capisce, crebbe di giorno in giorno, crebbe quanto piú lei s'ostinò nel rifiuto.
Io, duro, non le dissi piú nulla.
Finché lei stessa, un giorno, non potendone piú, mi disse che voleva la visita, ma non di quel medico, no, recisamente no; dell'altro medico condotto (ce n'erano due, allora): dal dottor Berri voleva farsi visitare, ch'era un vecchiotto ispido, asmatico, quasi cieco, già mezzo giubilato, ora giubilato del tutto, all'altro mondo.
- Ma via! - esclamai.
- Chi chiama piú il dottor Berri? E sarebbe poi uno sgarbo immeritato al dottor Loero, che s'è dimostrato sempre cosí premuroso e cortese con noi.
Di fatti, ogni giorno, qua alle Terme, vedendomi scendere dalla vettura con mia moglie, il dottor Loero ci si faceva innanzi con quella impostatura altera e compunta; si congratulava con me della rapida miglioría; m'accompagnava alla fonte e poi sú e giú per i vialetti del parco, non mancando ai debiti riguardi verso mia moglie, ma curandosi pochissimo, nei primi giorni, di lei, che ne gonfiava, s'intende, in silenzio.
Da una settimana, però, avevano preso a battagliar fra loro su l'eterna questione degli uomini e delle donne, dell'uomo che è prepotente, della donna che è vittima, della società che è ingiusta, ecc.
ecc.
Creda, signor mio, non posso piú sentirne parlare, di queste baggianate.
In sette anni di matrimonio, fra me e mia moglie non si parlò mai d'altro.
Le confesso tuttavia che in quella settimana gongolai nel sentir ripetere al dottor Loero con molta compostezza le mie stesse argomentazioni, e col pepe e col sale dell'autorità scientifica.
Mia moglie, a me, mi caricava d'insulti; col dottor Loero, invece, doveva rodere il freno della convenienza; ma della bile che non poteva sputare, insaporava ben bene le parole.
Speravo, con questo, che il mal di cuore le passasse.
Ma che! Come le ho detto, le crebbe di giorno in giorno.
Segno, non le pare? ch'ella voleva convincere con altri argomenti l'avversario.
E guardi un po' che razza di parte tocca talvolta di rappresentare a un povero marito! Sapevo benissimo ch'ella voleva esser visitata dal dottor Loero e ch'era tutta una commedia l'antipatia che questi le faceva, una commedia la pretesa d'esser visitata invece da quel vecchio asmatico e rimbecillito, come una commedia era quel suo mal di cuore.
Eppure dovetti fingere di credere sul serio a tutt'e tre le cose e sudare una camicia per indurla a far quello che lei, in fondo, desiderava.
Caro signore, quando mia moglie, senza busto - s'intende - si stese sul letto e lui, il dottore, la guardò negli occhi nel chinarsi per posarle l'occhio sulla mammella, io la vidi quasi mancare, quasi disfarsi; le vidi negli occhi e nel volto quel tale turbamento...
quel tale tremore, che...
- lei m'intende bene.
La conoscevo e non potevo sbagliare.
Poteva bastare, no? Una moglie rimane onestissima, illibata, inammendabile, dopo una visita come quella; visita medica, c'è poco da dire, sotto gli occhi del marito.
E va bene! Che bisogno c'era, domando io, di venirmi a cantar sul muso quel che già sapevo dentro di me e avevo visto con gli occhi miei e quasi toccato con mano?
Sú, sú.
Coraggio.
Ribeviamo.
Ribeviamo.
Me ne stavo una sera sul poggiolo a contemplare il magnifico spettacolo dell'ampia vallata sotto la luna.
Mia moglie s'era già messa a letto.
Lei mi vede cosí grasso e forse non mi suppone capace di commuovermi a uno spettacolo di natura.
Ma creda che ho un'anima piuttosto mingherlina.
Un'animuccia coi capelli biondi ho, e col visino dolce dolce, diafano e affilato e gli occhi color di cielo.
Un'animuccia insomma che pare un'inglesina, quando, nel silenzio, nella solitudine, s'affaccia alle finestre di questi miei occhiacci di bue, e s'intenerisce alla vista della luna e allo scampanellío che fanno i grilli sparsi per la campagna.
Gli uomini, di giorno, nelle città, e i grilli non si danno requie la notte nelle campagne.
Bella professione, quella del grillo!
- Che fai?
- Canto.
- E perché canti?
Non lo sa nemmeno lui.
Canta.
E tutte le stelle tremano nel cielo.
Lei le guarda.
Bella professione, anche quella delle stelle! Che stanno a farci lassú? Niente.
Guardano anche loro nel vuoto e par che n'abbiano un brivido continuo.
E sapesse quanto mi piace il gufo che, in mezzo a tanta dolcezza, si mette a singhiozzare da lontano, angosciato.
Ci piange lui, dalla dolcezza.
Basta.
Guardavo commosso, come le ho detto, quello spettacolo, ma già sentivo un po' di fresco (eran passate le undici) e stavo per ritirarmi: quando udii picchiar forte e a lungo all'uscio di strada.
Chi poteva essere a quell'ora?
Il dottor Loero.
In uno stato, signor mio, da far compassione finanche alle pietre.
Ubriaco fradicio.
Erano venuti da Firenze, da Perugia e da Roma cinque o sei medici, per la cura dell'acqua, ed egli, col farmacista, aveva pensato bene di dare una cena ai colleghi, nell'Ospedaletto della Croce Verde, dietro la Collegiata, lí vicino a Rori.
Allegra, come lei può immaginare, una cenetta all'ospedale! E altro che cura d'acqua! s'erano ubriacati tutti come tanti...
non diciamo majali, perché i majali, poveracci, non hanno veramente quest'abitudine.
Che idea gli era balenata, nel vino, di venire a inquietar me, ch'ero quella sera, come le ho detto, tutto chiaro di luna?
Barcollava, e dovetti sorreggerlo fino al poggiolo.
Lí m'abbracciò stretto stretto e mi disse che mi voleva bene, un bene da fratello, e che tutta la sera aveva parlato di me coi colleghi, del mio fegato e del mio stomaco rovinati, che gli stavano a cuore, tanto a cuore che, passando innanzi alla mia porta, non aveva voluto trascurare di farmi una visitina, temendo che il giorno appresso non sarebbe potuto andare alle Terme, perché - non si sarebbe detto, veh! - ma aveva proprio bevuto un pochino.
Io a ringraziarlo, si figuri, e a esortarlo ad andarsene a casa, ché era già tardi...
Niente! Volle una seggiola per mettersi a sedere sul poggiolo, e cominciò a parlarmi di mia moglie, che gli piaceva tanto, e voleva che andassi a destarla, perché con lui ci stava, la signora Carlottina, oh se ci stava! e come! Bella puledra ombrosa, che sparava calci per amore, per farsi carezzare...
E via di questo passo, sghignazzando e tentando con gli occhi, che gli si chiudevano soli, certi furbeschi ammiccamenti.
Mi dica lei che potevo fargli in quello stato.
Schiaffeggiare un ubriaco che non si reggeva in piedi? Mia moglie, che s'era svegliata, me lo gridò rabbiosamente tre o quattro volte dal letto.
Anche a me la volontà di schiaffeggiarlo era scesa alle mani: ma chi sa che impressione avrebbe fatto uno schiaffo a quel povero giovine che, nella beata incoscienza del vino, aveva perduto ogni nozione sociale e civile e gridava in faccia la verità allegramente.
Lo afferrai e lo tirai sú dalla seggiola: una certa scrollatina non potei far a meno di dargliela, ma fu lí lí per cascare e dovetti aver cura del suo stato fino alla porta; là...
sí, gli diedi un piccolo spintone e lo mandai a ruzzolare per la strada.
Quando entrai in camera da letto, trovai mia moglie con un diavolo per capello: frenetica addirittura.
S'era levata da letto.
Mi assaltò con ingiurie sanguinose; mi disse che se fossi stato un altro uomo, avrei dovuto pestarmi sotto i piedi quel mascalzone e poi buttarlo dal poggiolo; che ero un uomo di cartapesta, senza sangue nelle vene, senza rossore in faccia, incapace di difendere la rispettabilità della moglie, e capacissimo invece di far tanto di cappello al primo venuto che...
Non la lasciai finire; levai una mano; le gridai che badasse bene: lo schiaffo che avrei dovuto dare a colui, se non fosse stato ubriaco, l'avrei appioppato a lei, se non taceva.
Non tacque, si figuri! Dal furore passò al dileggio.
Ma sicuro che m'era facilissimo fare il gradasso con lei, schiaffeggiare una donna, dopo aver accolto e accompagnato coi debiti riguardi fino alla porta uno che era venuto a insultarmi fino a casa.
Ma perché, perché non ero andata a destarla subito? Anzi perché non glielo avevo introdotto in camera e pregato di mettersi a letto con lei?
- Tu lo sfiderai! - mi gridò in fine, fuori di sé.
- Tu lo sfiderai domani, e guaj a te se non lo fai!
A sentirsi dire certe cose da una donna, qualunque uomo si ribella.
M'ero già spogliato e messo a letto.
Le dissi che la smettesse una buona volta e mi lasciasse dormire in pace: non avrei sfidato nessuno, anche per non dare a lei questa soddisfazione.
Ma durante la notte, tra me e me, ci pensai molto.
Non sapevo e non so di cavalleria, se un gentiluomo debba raccoglier l'insulto e la provocazione di un ubriaco che non sa quel che si dica.
La mattina dopo, ero sul punto di recarmi a prender consiglio da un maggiore in ritiro che avevo conosciuto alle Terme, quando questo stesso maggiore, in compagnia di un altro signore del paese, venne a chiedermi lui soddisfazione a nome del dottor Loero.
Già! per il modo come lo avevo messo alla porta la sera precedente.
Pare che, al mio spintone, cadendo, si fosse ferito al naso.
- Ma se era ubriaco! - gridai a quei signori.
Tanto peggio per me.
Dovevo usargli un certo riguardo.
Io, capisce? E per miracolo mia moglie non mi aveva mangiato, perché non lo avevo buttato giú dal poggiolo!
Basta.
Voglio andar per le leste.
Accettai la sfida; ma mia moglie mi sghignò sul muso e, senza por tempo di mezzo, cominciò a preparar le sue robe.
Voleva partir subito; andarsene, senza aspettar l'esito del duello, che pure sapeva a condizioni gravissime.
Da che ero in ballo, volevo ballare.
Le impose lui, le condizioni: alla pistola.
Benissimo! Ma io pretesi allora, che si facesse a quindici passi.
E scrissi una lettera, alla vigilia, che mi fa crepar dalle risa ogni qual volta la rileggo.
Lei non può figurarsi che sorta di scempiaggini vengano in mente a un pover'uomo in siffatti frangenti.
Non avevo mai maneggiato armi.
Le giuro che, istintivamente, chiudevo gli occhi, sparando.
Il duello si fece su alla Faggeta.
I due primi colpi andarono a vuoto; al terzo...
no, il terzo andò pure a vuoto; fu il quarto; al quarto colpo - veda un po' che testa dura, quella del dottore! - la palla ci vide per me e andò a bollarlo in fronte, ma non gl'intaccò l'osso, gli strisciò sotto la cute capelluta e gli riuscí di dietro, dalla nuca.
Lí per lí parve morto.
Accorremmo tutti; anch'io; ma uno dei miei padrini mi consigliò d'allontanarmi, di salire in vettura e scappare per la via di Chiusi.
Scappai.
Il giorno dopo venni a sapere di che si trattava; e un'altra cosa venni a sapere, che mi riempí di gioja e di rammarico a un tempo: di gioja per me, di rammarico per il mio avversario, il quale, dopo una palla in fronte, pover'uomo, non se la meritava davvero.
Riaprendo gli occhi, nell'Ospedaletto della Croce Verde, il dottor Loero si vide innanzi un bellissimo spettacolo: mia moglie, accorsa al suo capezzale per assisterlo!
Della ferita guarí in una quindicina di giorni: di mia moglie, caro signore, non è piú guarito.
Vogliamo andare per il secondo bicchiere?
PALLINO E MIMÌ
Si chiamò prima Pallino perché, quando nacque, pareva una palla.
Di tutta la figliata, che fu di sei, si salvò lui solo, grazie alle preghiere insistenti e alla tenera protezione dei ragazzi.
Babbo Colombo, come non poteva andare a caccia, ch'era stata la sua passione, non voleva piú neanche cani per casa, e tutti, tutti morti li voleva quei cuccioli là.
Cosí pure fosse morta la Vespina loro madre, che gli ricordava le belle cacciate degli altri anni, quand'egli non soffriva ancora dei maledetti reumi, dell'artritide, che - eccolo là - lo avevano torto come un uncino!
A Chianciano, già il vento ci dava anche nei mesi caldi: certe libecciate che investivano e scotevan le case da schiantarle e portarsele via.
Figurarsi d'inverno! E dunque tutti in cucina, stretti accovacciati da mane a sera nel canto del foco, sotto la cappa, senza cacciar fuori la punta del naso, neanche per andare a messa la domenica.
Giusto, la Collegiata era lí dirimpetto a due passi.
Quasi quasi la messa si poteva vederla dai vetri della finestra di cucina.
Nelle altre camere della casa non ci s'andava se non per ficcarsi a letto, la sera di buon'ora.
Ma babbo Colombo ci faceva anche di giorno una capatina di tanto in tanto, curvo, con le gambe fasciate, spasimando a ogni passo, per andar a vedere dal balcone della sala da pranzo tutta la Val di Chiana che si scopriva di là e il suo bel podere di Caggiolo.
E Vespina, a farglielo apposta, gravida, cosí che poteva appena spiccicar le piote da terra, lo seguiva lemme lemme, per accrescergli il rimpianto della campagna lontana, il dispetto di vedersi ridotto in quello stato.
Maledetta! E ora gli faceva i figliuoli, per giunta.
Ma glieli avrebbe accomodati lui! Oh, senza farli penare, beninteso.
Li avrebbe presi per la coda e là, avrebbe loro sbatacchiata la testa in una pietra.
I ragazzi, la Delmina, Ezio, Igino, la Norina, nel vedergli far l'atto, gridavano:
- No, babbo! piccinini!
Sicché, quando i cuccioli vennero alla luce, ne vollero salvare almeno uno, quello che sembrò loro il piú carino, sottraendolo e nascondendolo.
Ottenuta la grazia, andarono per veder Pallino, e sissignori, gli mancava la coda! Parve loro un tradimento, e si guardarono tutt'e quattro negli occhi:
- Madonna! Senza coda! E come si fa?
Appiccicargliene una finta non si poteva, né fare che il babbo non se n'accorgesse.
Ma ormai la grazia era concessa, e Pallino fu tenuto in casa, per quanto già la tenerezza dei padroncini, a causa di quel ridicolo difetto, fosse venuta a mancare.
Per giunta anche si fece di giorno in giorno piú brutto.
Ma non ne sapeva nulla lui, bestiolino! Senza coda era nato, e pareva ne facesse a meno volentieri; pareva anzi non sospettasse minimamente che gli mancava qualche cosa.
E voleva ruzzare.
Ora, farà pena un bimbo nato male, zoppetto o gobbino, a vederlo ridere e scherzare, ignaro della sua disgrazia; ma una brutta bestiola non ne fa, e se ruzza e disturba, non si ha sofferenza per lei; le si dà un calcio, là e addio.
Pallino, distratto dai suoi giuochi furibondi con un gomitolo o con qualche pantofola da una pedata che lo mandava a ruzzolare da un capo all'altro della cucina, si levava lesto lesto su le due zampette davanti, le orecchie dritte, la testa da un lato, e stava un pezzo a guardare.
Non guaiva né protestava.
Pareva che a poco a poco si capacitasse che i cani debbano esser trattati cosí, che questa fosse una condizione inerente alla sua esistenza canina e che non ci fosse perciò da aversene a male.
Gli ci vollero però circa tre mesi per capire ben bene che al padrone non piaceva che le pantofole gli fossero rosicchiate.
Allora imparò anche a cansar le pedate: appena babbo Colombo alzava il piede, lasciava la preda e andava a cacciarsi sotto il letto.
Lí riparato, imparò un'altra cosa: quanto, cioè, gli uomini siano cattivi.
Si sentí chiamare amorevolmente, invitare a venir fuori col frullo delle dita:
- Qua, Pallino! Caro! caro! qua, piccinino!
S'aspettava carezze, s'aspettava il perdono, ma, appena ghermito per la cuticagna, botte da levare il pelo.
Ah sí? E allora, anche lui si buttò alle cattive: rubò, stracciò, insudiciò, arrivò finanche a morsicare.
Ma ci guadagnò questo, che fu messo alla porta; e, siccome nessuno intercedette per lui, andò randagio e mendico per il paese.
Finché non se lo tolse in bottega Fanfulla Mochi, macellajo, a cui era morto in quei giorni il cagnolino.
Fanfulla Mochi era un bel tipo.
Amava le bestie, e gli toccava ammazzarle; non poteva soffrire gli uomini e gli toccava servirli e rispettarli.
Avrebbe tenuto in cuor suo dalla parte dei poveri; ma, da macellajo, non poteva, perché la carne ai poveri, si sa, riesce indigesta.
Doveva servire i signori che non avevano voluto averlo dalla loro.
Sicuro! Perché era nato signore, lui, almeno per metà! Lo desumeva dal fatto che, uscito a sedici anni da un nobile ospizio in cui era stato accolto fin dalla nascita, gli eran venuti, non sapeva né donde, né come, né perché, sei mila lire, residuo d'un rimborso liquidato in contanti.
Lo avevan messo garzone in una macelleria; e da che c'era, con quella sommetta, aveva seguitato a fare il macellajo per conto suo.
Ma il sanguaccio del gran signore se lo sentiva nelle vene torpide, nelle piote gottose, e un cotal fluido pazzesco gli circolava per il corpo, che ora gli dava una noja cupa e amara, ora lo spingeva a certi atti...
Per esempio: tre anni fa, radendosi la barba e vedendosi allo specchio piú brutto del solito, già invecchiato, infermiccio, s'era lasciata andare una bella rasojata alla gola, tirata coscienziosamente a regola d'arte.
Condotto mezzo morto all'ospedaletto, aveva rassicurato la gente che gli correva dietro spaventata:
- Non è niente, non è niente: un'incicciatina!
Per prima cosa, Fanfulla Mochi ribattezzò Pallino: gli impose il nome di Bistecchino; poi lo portò alla finestra e gli disse:
- Vedi là, Bistecchino, il mio bel Monte Amiata! Grosse le scarpe, ma tu sapessi che cervelli fini ci si fa! Bastardi, ma fini.
Se tu vuoi stare con me, dev'essere un patto che tu diventi un canino saggio e per bene.
T'adotterò io, non temere: acculati qua! Se fossi porco, Bistecchino, mangeresti tu? Io no.
Il porco crede di mangiare per sé e ingrassa per gli altri.
Non è punto bella la sorte del porco.
Ah - io direi - m'allevate per questo? Ringrazio, signori.
Mangiatemi magro.
Pallino a questo punto sternutí due o tre volte, come in segno d'approvazione.
Fanfulla ne fu molto contento, e seguitò a conversare a lungo con lui, ogni giorno; e quello ad ascoltare serio serio, finché, prima una zampa ad annaspare, poi levava la testa e spalancava la bocca a uno sbadiglio seguíto da un variato mugolío, per far intendere al padrone che bastava.
Fosse per la triste esperienza fatta in casa di babbo Colombo, per via della coda che gli mancava, fosse per gli ammaestramenti di Fanfulla, fatto sta ed è che Pallino divenne un cane di carattere, un cane che si faceva notare, non solamente perché scodato, ma anche per il suo particolar modo di condursi tra le bestie sue pari e le superiori.
Era un cane serio, che non dava confidenza a nessuno.
Se qualche suo simile gli veniva dietro o incontro, esso lo puntava raccolto in sé, fermo su le quattro zampe, come per dirgli:
- Chi ti cerca? Lasciami andare!
E questo faceva, non certo per paura, sí per profondo disprezzo dei cani del suo paese, tanto maschi che femmine.
Pareva almeno cosí, perché d'estate quando a Chianciano venivano per la cura dell'acqua i villeggianti in gran numero coi loro cagnolini, e le loro cagnoline, Pallino cangiava di punto in bianco, diventava socievole, chiassone, proprio un altro; tutto il giorno in giro da questa a quella Pensione, a lasciare a suo modo, alzando un'anca, biglietti da visita, il benvenuto ai cani forestieri, agli ospiti, che poi accompagnava da per tutto e, al bisogno, difendeva con feroce zelo dalle aggressioni dei paesani.
Scodinzolare non poteva per salutarli, e si dimenava tutto, si storcignava, si buttava finanche a terra per invitarli a ruzzare.
E i cagnolini forestieri gliene sapevano grado.
In città, uscivano incatenati e con la museruola; qua invece, liberi e sciolti, perché i padroni eran sicuri di non perderli e di non incorrere in multe.
Quei cagnolini, insomma, facevano la villeggiatura anche loro e Pallino era il loro spasso.
Se qualche giorno tardava, essi, in tre, in quattro, si presentavano innanzi alla bottega di Fanfulla per reclamarlo.
- Bistechino, abbi senno! - gli diceva Fanfulla, minacciandolo col dito.
- Codesti cani signorini non sono per te.
Tu cane di strada sei, proletario rinnegato! Non mi piace che tu faccia cosí da buffone ai cani de' signori.
Ma Pallino non gli dava retta, non gli dava retta, non gliene poteva dare, segnatamente quell'anno, perché tra quei cani signorini che venivano a stuzzicarlo in bottega, c'era un amor di canina, piccola quanto un pugno, un batuffoletto bianco arruffato, che non si sapeva dove avesse le zampe, dove le orecchie; letichina di prima forza, che mordeva però per davvero qualche volta.
Certi morsichetti, che ardevano e lasciavano il segno per piú d'un giorno!
Ma Pallino se li pigliava tanto volentieri.
Quella cosina bianca gli guizzava, abbajando, di tra i piedi, per assaltarlo di qua e di là.
Fermo per farle piacere, esso la seguiva con gli occhi in quelle mossette aggraziate; poi, quasi temendo che si straccasse e affiochisse dal troppo abbajare (donde la cavava quella voce piú grossa di lei?) si sdrajava a terra, a pancia all'aria, e aspettava che essa, dopo essersi sfogata per finta, tornasse indietro con la stessa furia e gli saltasse addosso; la abbracciava e si lasciava mordere beatamente il muso e le orecchie.
Se n'era proprio innamorato insomma; e, cosí rozzo e senza coda, povero Pallino, ne' suoi vezzi smorfiosi a quel niente fatto di peli, era d'una ridicolaggine compassionevole.
La canina si chiamava Mimí e alloggiava con la padrona alla Pensione Ronchi.
La padrona era una signorina americana, ormai un po' attempatella, da parecchi anni dimorante in Italia - in cerca d'un marito, dicevano le male lingue.
Perché non lo trovava?
Brutta non era: alta di statura, svelta e anche formosa; begli occhi, bei capelli, labbra un po' tumide, accese, e in tutto il corpo e nel volto un'aria di nobiltà e una certa grazia malinconica.
E poi miss Galley vestiva con ricca e linda semplicità e portava enormi cappelli ondeggianti di lunghi e tenui veli, che le stavano a meraviglia.
Corteggiatori, non gliene mancavano: ne aveva anzi sempre attorno due o tre alla volta, e tutti dapprima, sapendola americana, animati dai piú serii propositi; ma poi...
eh poi, discorrendo, tastando il terreno...
Ecco: povera no, e si vedeva dal modo come viveva; ma ricca miss Galley non era neppure.
E allora...
allora perché era americana?
Senza una buona dote, tanto valeva sposare una signorina paesana.
E tutti i corteggiatori si ritiravano pulitamente in buon ordine.
Miss Galley se ne rodeva e sfogava il rodío segreto in furiose carezza alla sua piccola, cara, fedele Mimí.
Ma fossero state carezze soltanto! La voleva zitella miss Galley, sempre zitella, zitella come lei la sua piccola, cara, fedele Mimí.
Oh avrebbe saputo guardarla lei dalle insidie dei maschiacci! Guaj, guaj se un canino le si accostava.
Subito miss Galley se la toglieva in braccio; ed eran busse, se Mimí, che aveva già cinque anni e non sapeva capacitarsi per qual ragione, rimanendo zitella la padrona, dovesse rimaner zitella anche lei, si ribellava; busse se agitava le zampette per springare a terra, busse se allungava il collo o cacciava il musetto sotto il braccio della sua tiranna per vedere se il canino innamorato la seguisse tuttavia.
Per fortuna, questa crudele sorveglianza si faceva men rigorosa ogni qual volta un nuovo corteggiatore veniva a rinverdir le speranze di miss Galley.
Se Mimí avesse potuto ragionare e riflettere, dalla maggiore o minore libertà di cui godeva, avrebbe potuto argomentare di quanta speranza la nuova avventura desse alimento al cuore inesausto della sua padrona, uccellino dal becco sempre aperto.
Ora, quell'estate, a Chianciano, Mimí era liberissima.
C'era, difatti, alla Pensione Ronchi, un signore, un bell'uomo d'oltre quarant'anni, molto bruno, precocemente canuto, ma coi baffi ancor neri (forse un po' troppo), elegantissimo, il quale, venuto a Chianciano pei quindici giorni della cura, vi si tratteneva da oltre un mese e non accennava ancora d'andarsene, per quanto all'arrivo avesse dichiarato d'avere a Roma urgentissimi affari, a cui s'era sottratto a stento e non senza grave rischio.
Di che genere fossero questi affari, non lo diceva; aveva molto viaggiato e mostrava di conoscer bene Londra e Parigi e d'aver molte aderenze nel mondo giornalistico romano.
Sul registro della Pensione s'era firmato: Comm.
Basilio Gori.
Fin dal primo giorno s'era messo a parlare in inglese, a lungo, con miss Galley.
Ora l'uno e l'altra ogni mattina uscivano dalla Pensione per tempissimo e si recavano a piedi, per il lungo stradale alberato, alle Terme dell'Acqua Santa.
Miss Galley non beveva: diceva d'esser venuta a Chianciano solo per cambiamento d'aria.
Beveva lui.
Passeggiavano accanto, loro due soli, pe' vialetti del prato in pendio sotto gli alti platani, bersagliati dalla maligna curiosità di tutti gli altri bagnanti.
A lui questa maligna curiosità pareva non dispiacesse punto; e se due o tre si fermavano apposta per godere davvicino e con una certa impertinenza di quello spettacolo d'amor peripatetico, egli volgeva loro uno sguardo freddo, sprezzante, ma con un'aria di vanità soddisfatta; ella, invece, abbassava gli occhi, per levarli poco dopo in volto a lui, a ricevere il compenso di quella tenera, istintiva gratitudine che ogni uomo prova per la donna che, sacrificando un po' del suo pudore, dimostra di voler piacere a uno solo, sfidando la malignità degli altri.
Mimí li seguiva, e spesso provocava le risa di quanti stavano a osservar la coppia innamorata, perché di tratto in tratto addentava di dietro la veste della padrona e gliela tirava, gliela scoteva, squassando rabbiosamente la testina, come se volesse richiamarla a sé, arrestarla.
Miss Galley, assalita dalla stizza, strappava la veste dai denti della cagnolina e la mandava a ruzzolar lontano su l'erbetta del prato.
Ma, poco dopo, Mimí ritornava all'assalto, non già perché le premesse la buona reputazione della padrona, ma perché a girar lí per quei pratelli scoscesi s'annojava maledettamente e voleva ritornare in paese ove si sapeva aspettata dal suo Pallino.
Tira e tira, raggiunse finalmente l'intento.
Miss Galley la lasciò, con molti avvertimenti, alla Pensione, adducendo in iscusa che temeva si stancasse troppo, la povera bestiolina.
Difatti miss Galley e il commendator Gori, dopo aver girato per piú di un'ora pei viali dell'Acqua Santa, ritornavano, sempre a piedi, al paese, ma per riprender poco dopo a vagabondare o sú per la strada di Montepulciano, o giú per quella che conduce alla stazione, o salivano al poggio dei Cappuccini, e non rientravano alla Pensione se non all'ora di pranzo.
E, via facendo, ella con l'ombrellino rosso riparava anche lui dai raggi del sole, e tutti e due andavano mollemente quasi avviluppati in una tenerezza deliziosa, assaporando l'ebrietà squisita delle carezze rattenute, dei contatti fuggevoli delle mani, dei lunghi sguardi appassionati, in cui le anime si allacciano, si stringono fino a spasimar di voluttà.
Intanto i vetturini, che non li potevano soffrire perché li vedevano andar sempre a piedi, si facevano venir la tosse ogni qual volta li incontravano per la strada, e quella tosse faceva ridere i signori che traballavano nelle vetturette sgangherate.
A Chianciano ormai non si parlava d'altro; in tutte le Pensioni, al Circolo, al Caffè, in farmacia, al Giuoco del Pallone, all'Arena, miss Galley e il commendator Gori facevano da mane a sera le spese della conversazione.
Chi li aveva incontrati qua e chi là, e lui era messo cosí e lei era messa cosà...
Quelli che, finita la cura, partivano, ragguagliavano i nuovi arrivati, e dopo quattro o cinque giorni domandavano ancora, da lontano, nelle cartoline illustrate, notizie della coppia felice.
Tutt'a un tratto (si era ormai ai primi di settembre) si sparse per Chianciano la notizia che il commendator Gori partiva per Roma all'improvviso, lui solo.
I commenti furono infiniti e grandissimo lo stupore.
Che era accaduto?
Alcuni dicevano che miss Galley aveva saputo che egli era ammogliato e diviso dalla moglie; altri, che il Gori, essendo d'un balzo in principio salito ai sette cieli, aveva avuto bisogno di tutto quel tempo per calare con garbo a ghermir la preda, la quale, alla stretta, gli s'era scoperta magra e spennata; altri poi volevano sostenere che non c'era rottura; che miss Galley avrebbe raggiunto a Roma il fidanzato, e altri infine, che il Gori sarebbe ritornato a Chianciano fra pochi giorni per ripartire quindi con la sposa per Firenze.
Ma quelli della Pensione Ronchi assicuravano che l'avventura era proprio finita, tanto vero che miss Galley non era scesa quel giorno in sala a desinare e che il Gori s'era mostrato a tavola molto turbato.
Tutti questi discorsi s'intrecciavano nella piazza del Giuoco del Pallone, ove l'intera colonia bagnante e molti del paese eran convenuti per assistere alla partenza del Gori.
Quando la vettura uscí dalla porta del paese, tutti si fecero alla spalletta della piazza.
Il Gori, in vettura, leggeva tranquillamente il giornale.
Passando sotto la piazza, levò gli occhi, come per godere, lui attore, dello spettacolo di tanti spettatori.
Ma, all'improvviso, dietro la piccola Arena che sorge in mezzo alla piazza si levò un furibondo abbaío d'una frotta di cani azzuffati, aggrovigliati in una mischia feroce.
Tutti si voltarono a guardare, alcuni ritraendosi per paura, altri accorrendo coi bastoni levati.
In mezzo a quel groviglio c'era Pallino con la sua Mimí, Pallino e Mimí che, tra l'invidia e la gelosia terribile dei loro compagni, erano riusciti finalmente a celebrar le loro nozze.
Le signore torcevano il viso, gli uomini sghignazzavano, quando, preceduta da una frotta di monellacci, si precipitò nella piazza miss Galley, come una furia, scapigliata dal vento e dalla corsa, col cappello in mano e gli occhi gonfi e rossi di pianto.
- Mimí! Mimí! Mimí!
Alla vista dell'orribile scempio, levò le braccia, allibita, poi si coprí il volto con le mani, volse le spalle e risalí in paese con la stessa furia con la quale era venuta.
Rientrata alla Pensione come una bufera, s'avventò contro il Ronchi, contro i camerieri, con le dita artigliate, quasi volesse sbranarli; si contenne a stento, strozzata dalla rabbia, arrangolata, senza potere articolar parola.
Già dianzi aveva perduto la voce, strillando, nell'accorgersi (dopo tanti giorni!) che Mimí non era sorvegliata, che Mimí non era in casa e non si sapeva dove fosse.
Salí nella sua camera, afferrò, ammassò tutte le sue robe nel baule, nelle valige, ordinò una vettura a due cavalli, che la conducesse subito subito alla stazione di Chiusi, perché non voleva trattenersi piú a lungo a Chianciano, neanche un'ora, neanche un minuto.
Sul punto di partire, da quegli stessi monellacci che erano corsi con lei in cerca della cagnolina, ansanti, esultanti per la speranza d'una buona mancia, le fu presentata la povera Mimí, piú morta che viva.
Ma miss Galley, contraffatta dall'ira, con un violentissimo scatto la respinse, storcendo la faccia.
Mimí, all'urto furioso, cadde a terra, batté il musetto e, con acuti guaiti, corse ranca ranca a ficcarsi sotto un divano alto appena tre dita dal suolo, mentre la padrona inviperita montava sul legno e gridava al vetturino:
- Via!
Il Ronchi, i camerieri, i bagnanti rientrati di corsa alla Pensione, restarono un pezzo a guardarsi tra loro, sbalorditi; poi ebbero pietà della povera cagnolina abbandonata; ma, per quanto la chiamassero e la invitassero coi modi piú affettuosi, non ci fu verso di farla uscire da quel nascondiglio.
Bisognò che il Ronchi, ajutato da un cameriere, sollevasse e scostasse il divano.
Ma allora Mimí s'avventò alla porta come una freccia e prese la fuga.
I monelli le corsero dietro, girarono tutto il paese, per ogni verso, arrivarono fin presso la stazione: non la poterono rintracciare.
Il Ronchi, che aveva avuto per lei tante noje, scrollò le spalle, esclamando:
- O vada a farsi benedire!
Dopo cinque o sei giorni, verso sera, Mimí, sudicia, scarduffata, famelica, irriconoscibile, fu rivista per le vie di Chianciano, sotto la pioggia lenta, che segnava la fine della stagione.
Gli ultimi bagnanti partivano: in capo a una settimana, il paesello, annidato su l'alto colle ventoso, avrebbe ripreso il fosco aspetto invernale.
- To', la cagnetta della signorina! - disse qualcuno, vedendola passare.
Ma nessuno si mosse a prenderla, nessuno la chiamò.
E Mimí seguitò a vagare, sotto la pioggia.
Era già stata alla Pensione Ronchi, ma l'aveva trovata chiusa, perché il proprietario s'era affrettato di andare in campagna per la vendemmia.
Di tratto in tratto s'arrestava a guardare con gli occhietti cisposi tra i peli, come se non sapesse ancora comprendere come mai nessuno avesse pietà di lei cosí piccola, di lei cosí carezzata prima e curata: come mai nessuno la prendesse per riportarla alla padrona, che l'aveva perduta, alla padrona, che essa aveva cercato invano per tanto tempo e cercava ancora.
Aveva fame, era stanca, tremava di freddo, non sapeva piú dove andare, dove rifugiarsi.
Nei primi giorni, qualcuno, nel vedersi seguito da lei, si chinò a lisciarla, a commiserarla; ma poi, seccato di trovarsela sempre alle calcagna, la cacciò sgarbatamente.
Era gravida.
Pareva quasi impossibile: una coserellina cosí, che non pareva nemmeno: gravida! E la scostavano col piede.
Fanfulla Mochi, dalla soglia della bottega, vedendola trotterellar per via, sperduta, un giorno la chiamò; le diede da mangiare; e siccome la povera bestiola, ormai avvezza a vedersi scacciata da tutti, se ne stava con la schiena arcuata, per paura, come in attesa di qualche calcio, la lisciò, la carezzò, per rassicurarla.
La povera Mimí, quantunque affamata, lasciò di mangiare per leccar la mano del benefattore.
Allora Fanfulla chiamò Pallino, che dormiva nella cuccia sotto il banco:
- Cane, figlio di cane, brutto libertino scodato, guarda qua la tua sposa!
Ma ormai Mimí non era piú una cagnetta signorina, era divenuta una cagnetta di strada, una delle tante del paese.
E Pallino non la degnò nemmeno d'uno sguardo.
NEL SEGNO
Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all'ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d'introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejòtica.
La capo-sala la guardò male.
- Vuoi farti vedere dagli studenti?
- Sí, per favore; prendete me.
- Ma lo sai che sembri una lucertola?
- Lo so.
Non me n'importa! Prendete me.
- Ma guarda un po' che sfacciata.
E che ti figuri che ti faranno là dentro?
- Come a Nannina, - rispose la Òsimo.
- No?
Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall'ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico.
- E ci vuoi andare? - concluse quella.
- Per me, ti servo.
Ma bada che il segno non te lo levi piú per molti giorni, neppure col sapone.
La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo:
- Voi portatemi, e non ve ne curate.
Le era tornato in volto un po' di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli.
Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti.
E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte.
Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo.
Già due altre volte era sta lí, all'ospedale.
La prima volta, per...
- eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all'ospizio dei trovatelli.
La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all'ospedale piú di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo.
Ora c'era per l'anemia, da un mese.
A forza d'iniezioni di ferro s'era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall'ospedale.
Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur cosí sconsolata.
Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime.
Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai piú altro che morire.
Vittima come era, però, d'una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell'oscura minaccia.
Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose.
Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto.
Invano, allora, le buone suore assistenti s'eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sí; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s'allentava per quelle esortazioni.
Nessuna cosa piú la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s'era illusa, che il vero inganno le era venuto dall'inesperienza, dall'appassionata e credula sua natura, piú che dal giovine a cui s'era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo.
Ma rassegnarsi, no, non poteva.
Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei.
Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni.
Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno...
Sí, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: - Ma un giorno...
- e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire.
Ma lei non mentiva.
Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studii, non fosse venuto a mancare cosí di colpo, laggiú, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d'un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele.
Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d'un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa.
Cosí era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli piú piccoli del barone e anche un po' come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso.
Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità.
Ma che glien'importava, allora? Lavorava con tutto il cuore, per acquistarsi la benevolenza paterna di chi la ospitava, con una speranza segreta: che quelle sue cure amorose, cioè, quei suoi servizi senz'alcun compenso, dopo il sacrificio del padre, valessero a vincere l'opposizione che forse il barone avrebbe fatta al figliuolo maggiore, Riccardo, quando questi, come già le aveva promesso, gli avrebbe dichiarato l'amore che sentiva per lei.
Oh, era sicurissimo Riccardo che il padre avrebbe condisceso di buona voglia; ma aveva appena diciannove anni, era ancora studente di liceo; non si sentiva il coraggio di far quella dichiarazione ai genitori: meglio aspettare qualche anno.
Ora, aspettando...
Ma lí, possibile? nella stessa casa, sempre vicini, fra tante lusinghe, dopo tante promesse, con tanti giuramenti...
La passione la aveva accecata.
Quando, alla fine, il fallo non s'era piú potuto nascondere, cacciata via! Sí, proprio cacciata via, poteva dire, senz'alcuna misericordia, senz'alcun riguardo neanche per il suo stato.
Il Barni aveva scritto a una vecchia zia di lei, perché fosse venuta subito a riprendersela e a portarsela via, laggiú in Calabria, promettendo un assegno; ma la zia aveva scongiurato il barone di aspettare almeno che la nipote si fosse prima liberata a Roma, per non affrontar lo scandalo in un piccolo paese; e il Barni aveva ceduto, ma a patto che il figliuolo non ne avesse saputo nulla e le avesse credute già fuori di Roma.
Dopo il parto, però, ella non era voluta tornare in Calabria; il barone, allora, su tutte le furie, aveva minacciato di togliere l'assegno; e lo aveva tolto difatti, dopo il tentato suicidio.
Riccardo era partito per Firenze; lei, salvata per miracolo, s'era messa a far la giovine di sarta per mantenere sé e la zia.
Era passato un anno; Riccardo era tornato a Roma; ma ella non aveva nemmen tentato di rivederlo.
Fallitole il proposito violento, s'era fitto in capo di lasciarsi morire a poco a poco.
La zia, un bel giorno, aveva perduto la pazienza e se n'era ritornata in Calabria.
Un mese addietro, durante uno svenimento in casa della sarta presso la quale lavorava, era stata condotta lí all'ospedale, e c'era rimasta per curarsi dell'anemia.
L'altro giorno, intanto, dal suo lettino, Raffaella Òsimo aveva veduto passare per la corsia gli studenti di medicina che facevano il corso di semejòtica, e fra questi studenti aveva riveduto, dopo circa due anni, Riccardo, con accanto una giovinetta, che doveva essere una studentessa anche lei, bionda, bella, straniera all'aspetto: e dal modo con cui la guardava...
- ah, Raffaella non poteva ingannarsi! - appariva chiaramente che n'era innamorato.
E come gli sorrideva lei, pendendo quasi dagli occhi di lui...
Li aveva seguiti con lo sguardo fino in fondo alla corsia; poi era rimasta con gli occhi sbarrati, levata su un gomito.
Nannina, la sua vicina di letto, s'era messa a ridere.
- Che hai veduto?
- Nulla...
E aveva sorriso anche lei, riabbandonandosi sul letto, perché il cuore le batteva come volesse balzarle dal seno.
Era venuta poi la capo-sala a invitare Nannina a vestirsi, perché il professore la voleva di là per la lezione agli studenti.
- E che debbono farmi? - aveva domandato Nannina.
- Ti mangeranno! Che vuoi che ti facciano? - le aveva risposto quella.
- Tocca a te; toccherà anche alle altre.
Tanto, tu domani andrai via.
Aveva tremato, dapprima, Raffaella al pensiero che potesse toccare anche a lei.
Ah, cosí caduta, cosí derelitta, come ricomparirgli davanti, lí? Per certi falli, quando la bellezza sia sparita, né compatimento, né commiserazione.
Certo i compagni di Riccardo, vedendola cosí misera, lo avrebbero deriso:
- Come! Con quella lucertolina t'eri messo?
Non sarebbe stata una vendetta.
Né lei, del resto, voleva vendicarsi.
Quando però, dopo circa mezz'ora, Nannina era ritornata al suo lettuccio e le aveva spiegato che cosa le avevano fatto di là e mostrato il corpo tutto segnato, Raffaella improvvisamente aveva cangiato idea; ed ecco, fremeva d'impazienza, ora, aspettando l'arrivo degli studenti.
Giunsero, alla fi
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