LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 7
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E via di questo passo, sghignazzando e tentando con gli occhi, che gli si chiudevano soli, certi furbeschi ammiccamenti.
Mi dica lei che potevo fargli in quello stato.
Schiaffeggiare un ubriaco che non si reggeva in piedi? Mia moglie, che s'era svegliata, me lo gridò rabbiosamente tre o quattro volte dal letto.
Anche a me la volontà di schiaffeggiarlo era scesa alle mani: ma chi sa che impressione avrebbe fatto uno schiaffo a quel povero giovine che, nella beata incoscienza del vino, aveva perduto ogni nozione sociale e civile e gridava in faccia la verità allegramente.
Lo afferrai e lo tirai sú dalla seggiola: una certa scrollatina non potei far a meno di dargliela, ma fu lí lí per cascare e dovetti aver cura del suo stato fino alla porta; là...
sí, gli diedi un piccolo spintone e lo mandai a ruzzolare per la strada.
Quando entrai in camera da letto, trovai mia moglie con un diavolo per capello: frenetica addirittura.
S'era levata da letto.
Mi assaltò con ingiurie sanguinose; mi disse che se fossi stato un altro uomo, avrei dovuto pestarmi sotto i piedi quel mascalzone e poi buttarlo dal poggiolo; che ero un uomo di cartapesta, senza sangue nelle vene, senza rossore in faccia, incapace di difendere la rispettabilità della moglie, e capacissimo invece di far tanto di cappello al primo venuto che...
Non la lasciai finire; levai una mano; le gridai che badasse bene: lo schiaffo che avrei dovuto dare a colui, se non fosse stato ubriaco, l'avrei appioppato a lei, se non taceva.
Non tacque, si figuri! Dal furore passò al dileggio.
Ma sicuro che m'era facilissimo fare il gradasso con lei, schiaffeggiare una donna, dopo aver accolto e accompagnato coi debiti riguardi fino alla porta uno che era venuto a insultarmi fino a casa.
Ma perché, perché non ero andata a destarla subito? Anzi perché non glielo avevo introdotto in camera e pregato di mettersi a letto con lei?
- Tu lo sfiderai! - mi gridò in fine, fuori di sé.
- Tu lo sfiderai domani, e guaj a te se non lo fai!
A sentirsi dire certe cose da una donna, qualunque uomo si ribella.
M'ero già spogliato e messo a letto.
Le dissi che la smettesse una buona volta e mi lasciasse dormire in pace: non avrei sfidato nessuno, anche per non dare a lei questa soddisfazione.
Ma durante la notte, tra me e me, ci pensai molto.
Non sapevo e non so di cavalleria, se un gentiluomo debba raccoglier l'insulto e la provocazione di un ubriaco che non sa quel che si dica.
La mattina dopo, ero sul punto di recarmi a prender consiglio da un maggiore in ritiro che avevo conosciuto alle Terme, quando questo stesso maggiore, in compagnia di un altro signore del paese, venne a chiedermi lui soddisfazione a nome del dottor Loero.
Già! per il modo come lo avevo messo alla porta la sera precedente.
Pare che, al mio spintone, cadendo, si fosse ferito al naso.
- Ma se era ubriaco! - gridai a quei signori.
Tanto peggio per me.
Dovevo usargli un certo riguardo.
Io, capisce? E per miracolo mia moglie non mi aveva mangiato, perché non lo avevo buttato giú dal poggiolo!
Basta.
Voglio andar per le leste.
Accettai la sfida; ma mia moglie mi sghignò sul muso e, senza por tempo di mezzo, cominciò a preparar le sue robe.
Voleva partir subito; andarsene, senza aspettar l'esito del duello, che pure sapeva a condizioni gravissime.
Da che ero in ballo, volevo ballare.
Le impose lui, le condizioni: alla pistola.
Benissimo! Ma io pretesi allora, che si facesse a quindici passi.
E scrissi una lettera, alla vigilia, che mi fa crepar dalle risa ogni qual volta la rileggo.
Lei non può figurarsi che sorta di scempiaggini vengano in mente a un pover'uomo in siffatti frangenti.
Non avevo mai maneggiato armi.
Le giuro che, istintivamente, chiudevo gli occhi, sparando.
Il duello si fece su alla Faggeta.
I due primi colpi andarono a vuoto; al terzo...
no, il terzo andò pure a vuoto; fu il quarto; al quarto colpo - veda un po' che testa dura, quella del dottore! - la palla ci vide per me e andò a bollarlo in fronte, ma non gl'intaccò l'osso, gli strisciò sotto la cute capelluta e gli riuscí di dietro, dalla nuca.
Lí per lí parve morto.
Accorremmo tutti; anch'io; ma uno dei miei padrini mi consigliò d'allontanarmi, di salire in vettura e scappare per la via di Chiusi.
Scappai.
Il giorno dopo venni a sapere di che si trattava; e un'altra cosa venni a sapere, che mi riempí di gioja e di rammarico a un tempo: di gioja per me, di rammarico per il mio avversario, il quale, dopo una palla in fronte, pover'uomo, non se la meritava davvero.
Riaprendo gli occhi, nell'Ospedaletto della Croce Verde, il dottor Loero si vide innanzi un bellissimo spettacolo: mia moglie, accorsa al suo capezzale per assisterlo!
Della ferita guarí in una quindicina di giorni: di mia moglie, caro signore, non è piú guarito.
Vogliamo andare per il secondo bicchiere?
PALLINO E MIMÌ
Si chiamò prima Pallino perché, quando nacque, pareva una palla.
Di tutta la figliata, che fu di sei, si salvò lui solo, grazie alle preghiere insistenti e alla tenera protezione dei ragazzi.
Babbo Colombo, come non poteva andare a caccia, ch'era stata la sua passione, non voleva piú neanche cani per casa, e tutti, tutti morti li voleva quei cuccioli là.
Cosí pure fosse morta la Vespina loro madre, che gli ricordava le belle cacciate degli altri anni, quand'egli non soffriva ancora dei maledetti reumi, dell'artritide, che - eccolo là - lo avevano torto come un uncino!
A Chianciano, già il vento ci dava anche nei mesi caldi: certe libecciate che investivano e scotevan le case da schiantarle e portarsele via.
Figurarsi d'inverno! E dunque tutti in cucina, stretti accovacciati da mane a sera nel canto del foco, sotto la cappa, senza cacciar fuori la punta del naso, neanche per andare a messa la domenica.
Giusto, la Collegiata era lí dirimpetto a due passi.
Quasi quasi la messa si poteva vederla dai vetri della finestra di cucina.
Nelle altre camere della casa non ci s'andava se non per ficcarsi a letto, la sera di buon'ora.
Ma babbo Colombo ci faceva anche di giorno una capatina di tanto in tanto, curvo, con le gambe fasciate, spasimando a ogni passo, per andar a vedere dal balcone della sala da pranzo tutta la Val di Chiana che si scopriva di là e il suo bel podere di Caggiolo.
E Vespina, a farglielo apposta, gravida, cosí che poteva appena spiccicar le piote da terra, lo seguiva lemme lemme, per accrescergli il rimpianto della campagna lontana, il dispetto di vedersi ridotto in quello stato.
Maledetta! E ora gli faceva i figliuoli, per giunta.
Ma glieli avrebbe accomodati lui! Oh, senza farli penare, beninteso.
Li avrebbe presi per la coda e là, avrebbe loro sbatacchiata la testa in una pietra.
I ragazzi, la Delmina, Ezio, Igino, la Norina, nel vedergli far l'atto, gridavano:
- No, babbo! piccinini!
Sicché, quando i cuccioli vennero alla luce, ne vollero salvare almeno uno, quello che sembrò loro il piú carino, sottraendolo e nascondendolo.
Ottenuta la grazia, andarono per veder Pallino, e sissignori, gli mancava la coda! Parve loro un tradimento, e si guardarono tutt'e quattro negli occhi:
- Madonna! Senza coda! E come si fa?
Appiccicargliene una finta non si poteva, né fare che il babbo non se n'accorgesse.
Ma ormai la grazia era concessa, e Pallino fu tenuto in casa, per quanto già la tenerezza dei padroncini, a causa di quel ridicolo difetto, fosse venuta a mancare.
Per giunta anche si fece di giorno in giorno piú brutto.
Ma non ne sapeva nulla lui, bestiolino! Senza coda era nato, e pareva ne facesse a meno volentieri; pareva anzi non sospettasse minimamente che gli mancava qualche cosa.
E voleva ruzzare.
Ora, farà pena un bimbo nato male, zoppetto o gobbino, a vederlo ridere e scherzare, ignaro della sua disgrazia; ma una brutta bestiola non ne fa, e se ruzza e disturba, non si ha sofferenza per lei; le si dà un calcio, là e addio.
Pallino, distratto dai suoi giuochi furibondi con un gomitolo o con qualche pantofola da una pedata che lo mandava a ruzzolare da un capo all'altro della cucina, si levava lesto lesto su le due zampette davanti, le orecchie dritte, la testa da un lato, e stava un pezzo a guardare.
Non guaiva né protestava.
Pareva che a poco a poco si capacitasse che i cani debbano esser trattati cosí, che questa fosse una condizione inerente alla sua esistenza canina e che non ci fosse perciò da aversene a male.
Gli ci vollero però circa tre mesi per capire ben bene che al padrone non piaceva che le pantofole gli fossero rosicchiate.
Allora imparò anche a cansar le pedate: appena babbo Colombo alzava il piede, lasciava la preda e andava a cacciarsi sotto il letto.
Lí riparato, imparò un'altra cosa: quanto, cioè, gli uomini siano cattivi.
Si sentí chiamare amorevolmente, invitare a venir fuori col frullo delle dita:
- Qua, Pallino! Caro! caro! qua, piccinino!
S'aspettava carezze, s'aspettava il perdono, ma, appena ghermito per la cuticagna, botte da levare il pelo.
Ah sí? E allora, anche lui si buttò alle cattive: rubò, stracciò, insudiciò, arrivò finanche a morsicare.
Ma ci guadagnò questo, che fu messo alla porta; e, siccome nessuno intercedette per lui, andò randagio e mendico per il paese.
Finché non se lo tolse in bottega Fanfulla Mochi, macellajo, a cui era morto in quei giorni il cagnolino.
Fanfulla Mochi era un bel tipo.
Amava le bestie, e gli toccava ammazzarle; non poteva soffrire gli uomini e gli toccava servirli e rispettarli.
Avrebbe tenuto in cuor suo dalla parte dei poveri; ma, da macellajo, non poteva, perché la carne ai poveri, si sa, riesce indigesta.
Doveva servire i signori che non avevano voluto averlo dalla loro.
Sicuro! Perché era nato signore, lui, almeno per metà! Lo desumeva dal fatto che, uscito a sedici anni da un nobile ospizio in cui era stato accolto fin dalla nascita, gli eran venuti, non sapeva né donde, né come, né perché, sei mila lire, residuo d'un rimborso liquidato in contanti.
Lo avevan messo garzone in una macelleria; e da che c'era, con quella sommetta, aveva seguitato a fare il macellajo per conto suo.
Ma il sanguaccio del gran signore se lo sentiva nelle vene torpide, nelle piote gottose, e un cotal fluido pazzesco gli circolava per il corpo, che ora gli dava una noja cupa e amara, ora lo spingeva a certi atti...
Per esempio: tre anni fa, radendosi la barba e vedendosi allo specchio piú brutto del solito, già invecchiato, infermiccio, s'era lasciata andare una bella rasojata alla gola, tirata coscienziosamente a regola d'arte.
Condotto mezzo morto all'ospedaletto, aveva rassicurato la gente che gli correva dietro spaventata:
- Non è niente, non è niente: un'incicciatina!
Per prima cosa, Fanfulla Mochi ribattezzò Pallino: gli impose il nome di Bistecchino; poi lo portò alla finestra e gli disse:
- Vedi là, Bistecchino, il mio bel Monte Amiata! Grosse le scarpe, ma tu sapessi che cervelli fini ci si fa! Bastardi, ma fini.
Se tu vuoi stare con me, dev'essere un patto che tu diventi un canino saggio e per bene.
T'adotterò io, non temere: acculati qua! Se fossi porco, Bistecchino, mangeresti tu? Io no.
Il porco crede di mangiare per sé e ingrassa per gli altri.
Non è punto bella la sorte del porco.
Ah - io direi - m'allevate per questo? Ringrazio, signori.
Mangiatemi magro.
Pallino a questo punto sternutí due o tre volte, come in segno d'approvazione.
Fanfulla ne fu molto contento, e seguitò a conversare a lungo con lui, ogni giorno; e quello ad ascoltare serio serio, finché, prima una zampa ad annaspare, poi levava la testa e spalancava la bocca a uno sbadiglio seguíto da un variato mugolío, per far intendere al padrone che bastava.
Fosse per la triste esperienza fatta in casa di babbo Colombo, per via della coda che gli mancava, fosse per gli ammaestramenti di Fanfulla, fatto sta ed è che Pallino divenne un cane di carattere, un cane che si faceva notare, non solamente perché scodato, ma anche per il suo particolar modo di condursi tra le bestie sue pari e le superiori.
Era un cane serio, che non dava confidenza a nessuno.
Se qualche suo simile gli veniva dietro o incontro, esso lo puntava raccolto in sé, fermo su le quattro zampe, come per dirgli:
- Chi ti cerca? Lasciami andare!
E questo faceva, non certo per paura, sí per profondo disprezzo dei cani del suo paese, tanto maschi che femmine.
Pareva almeno cosí, perché d'estate quando a Chianciano venivano per la cura dell'acqua i villeggianti in gran numero coi loro cagnolini, e le loro cagnoline, Pallino cangiava di punto in bianco, diventava socievole, chiassone, proprio un altro; tutto il giorno in giro da questa a quella Pensione, a lasciare a suo modo, alzando un'anca, biglietti da visita, il benvenuto ai cani forestieri, agli ospiti, che poi accompagnava da per tutto e, al bisogno, difendeva con feroce zelo dalle aggressioni dei paesani.
Scodinzolare non poteva per salutarli, e si dimenava tutto, si storcignava, si buttava finanche a terra per invitarli a ruzzare.
E i cagnolini forestieri gliene sapevano grado.
In città, uscivano incatenati e con la museruola; qua invece, liberi e sciolti, perché i padroni eran sicuri di non perderli e di non incorrere in multe.
Quei cagnolini, insomma, facevano la villeggiatura anche loro e Pallino era il loro spasso.
Se qualche giorno tardava, essi, in tre, in quattro, si presentavano innanzi alla bottega di Fanfulla per reclamarlo.
- Bistechino, abbi senno! - gli diceva Fanfulla, minacciandolo col dito.
- Codesti cani signorini non sono per te.
Tu cane di strada sei, proletario rinnegato! Non mi piace che tu faccia cosí da buffone ai cani de' signori.
Ma Pallino non gli dava retta, non gli dava retta, non gliene poteva dare, segnatamente quell'anno, perché tra quei cani signorini che venivano a stuzzicarlo in bottega, c'era un amor di canina, piccola quanto un pugno, un batuffoletto bianco arruffato, che non si sapeva dove avesse le zampe, dove le orecchie; letichina di prima forza, che mordeva però per davvero qualche volta.
Certi morsichetti, che ardevano e lasciavano il segno per piú d'un giorno!
Ma Pallino se li pigliava tanto volentieri.
Quella cosina bianca gli guizzava, abbajando, di tra i piedi, per assaltarlo di qua e di là.
Fermo per farle piacere, esso la seguiva con gli occhi in quelle mossette aggraziate; poi, quasi temendo che si straccasse e affiochisse dal troppo abbajare (donde la cavava quella voce piú grossa di lei?) si sdrajava a terra, a pancia all'aria, e aspettava che essa, dopo essersi sfogata per finta, tornasse indietro con la stessa furia e gli saltasse addosso; la abbracciava e si lasciava mordere beatamente il muso e le orecchie.
Se n'era proprio innamorato insomma; e, cosí rozzo e senza coda, povero Pallino, ne' suoi vezzi smorfiosi a quel niente fatto di peli, era d'una ridicolaggine compassionevole.
La canina si chiamava Mimí e alloggiava con la padrona alla Pensione Ronchi.
La padrona era una signorina americana, ormai un po' attempatella, da parecchi anni dimorante in Italia - in cerca d'un marito, dicevano le male lingue.
Perché non lo trovava?
Brutta non era: alta di statura, svelta e anche formosa; begli occhi, bei capelli, labbra un po' tumide, accese, e in tutto il corpo e nel volto un'aria di nobiltà e una certa grazia malinconica.
E poi miss Galley vestiva con ricca e linda semplicità e portava enormi cappelli ondeggianti di lunghi e tenui veli, che le stavano a meraviglia.
Corteggiatori, non gliene mancavano: ne aveva anzi sempre attorno due o tre alla volta, e tutti dapprima, sapendola americana, animati dai piú serii propositi; ma poi...
eh poi, discorrendo, tastando il terreno...
Ecco: povera no, e si vedeva dal modo come viveva; ma ricca miss Galley non era neppure.
E allora...
allora perché era americana?
Senza una buona dote, tanto valeva sposare una signorina paesana.
E tutti i corteggiatori si ritiravano pulitamente in buon ordine.
Miss Galley se ne rodeva e sfogava il rodío segreto in furiose carezza alla sua piccola, cara, fedele Mimí.
Ma fossero state carezze soltanto! La voleva zitella miss Galley, sempre zitella, zitella come lei la sua piccola, cara, fedele Mimí.
Oh avrebbe saputo guardarla lei dalle insidie dei maschiacci! Guaj, guaj se un canino le si accostava.
Subito miss Galley se la toglieva in braccio; ed eran busse, se Mimí, che aveva già cinque anni e non sapeva capacitarsi per qual ragione, rimanendo zitella la padrona, dovesse rimaner zitella anche lei, si ribellava; busse se agitava le zampette per springare a terra, busse se allungava il collo o cacciava il musetto sotto il braccio della sua tiranna per vedere se il canino innamorato la seguisse tuttavia.
Per fortuna, questa crudele sorveglianza si faceva men rigorosa ogni qual volta un nuovo corteggiatore veniva a rinverdir le speranze di miss Galley.
Se Mimí avesse potuto ragionare e riflettere, dalla maggiore o minore libertà di cui godeva, avrebbe potuto argomentare di quanta speranza la nuova avventura desse alimento al cuore inesausto della sua padrona, uccellino dal becco sempre aperto.
Ora, quell'estate, a Chianciano, Mimí era liberissima.
C'era, difatti, alla Pensione Ronchi, un signore, un bell'uomo d'oltre quarant'anni, molto bruno, precocemente canuto, ma coi baffi ancor neri (forse un po' troppo), elegantissimo, il quale, venuto a Chianciano pei quindici giorni della cura, vi si tratteneva da oltre un mese e non accennava ancora d'andarsene, per quanto all'arrivo avesse dichiarato d'avere a Roma urgentissimi affari, a cui s'era sottratto a stento e non senza grave rischio.
Di che genere fossero questi affari, non lo diceva; aveva molto viaggiato e mostrava di conoscer bene Londra e Parigi e d'aver molte aderenze nel mondo giornalistico romano.
Sul registro della Pensione s'era firmato: Comm.
Basilio Gori.
Fin dal primo giorno s'era messo a parlare in inglese, a lungo, con miss Galley.
Ora l'uno e l'altra ogni mattina uscivano dalla Pensione per tempissimo e si recavano a piedi, per il lungo stradale alberato, alle Terme dell'Acqua Santa.
Miss Galley non beveva: diceva d'esser venuta a Chianciano solo per cambiamento d'aria.
Beveva lui.
Passeggiavano accanto, loro due soli, pe' vialetti del prato in pendio sotto gli alti platani, bersagliati dalla maligna curiosità di tutti gli altri bagnanti.
A lui questa maligna curiosità pareva non dispiacesse punto; e se due o tre si fermavano apposta per godere davvicino e con una certa impertinenza di quello spettacolo d'amor peripatetico, egli volgeva loro uno sguardo freddo, sprezzante, ma con un'aria di vanità soddisfatta; ella, invece, abbassava gli occhi, per levarli poco dopo in volto a lui, a ricevere il compenso di quella tenera, istintiva gratitudine che ogni uomo prova per la donna che, sacrificando un po' del suo pudore, dimostra di voler piacere a uno solo, sfidando la malignità degli altri.
Mimí li seguiva, e spesso provocava le risa di quanti stavano a osservar la coppia innamorata, perché di tratto in tratto addentava di dietro la veste della padrona e gliela tirava, gliela scoteva, squassando rabbiosamente la testina, come se volesse richiamarla a sé, arrestarla.
Miss Galley, assalita dalla stizza, strappava la veste dai denti della cagnolina e la mandava a ruzzolar lontano su l'erbetta del prato.
Ma, poco dopo, Mimí ritornava all'assalto, non già perché le premesse la buona reputazione della padrona, ma perché a girar lí per quei pratelli scoscesi s'annojava maledettamente e voleva ritornare in paese ove si sapeva aspettata dal suo Pallino.
Tira e tira, raggiunse finalmente l'intento.
Miss Galley la lasciò, con molti avvertimenti, alla Pensione, adducendo in iscusa che temeva si stancasse troppo, la povera bestiolina.
Difatti miss Galley e il commendator Gori, dopo aver girato per piú di un'ora pei viali dell'Acqua Santa, ritornavano, sempre a piedi, al paese, ma per riprender poco dopo a vagabondare o sú per la strada di Montepulciano, o giú per quella che conduce alla stazione, o salivano al poggio dei Cappuccini, e non rientravano alla Pensione se non all'ora di pranzo.
E, via facendo, ella con l'ombrellino rosso riparava anche lui dai raggi del sole, e tutti e due andavano mollemente quasi avviluppati in una tenerezza deliziosa, assaporando l'ebrietà squisita delle carezze rattenute, dei contatti fuggevoli delle mani, dei lunghi sguardi appassionati, in cui le anime si allacciano, si stringono fino a spasimar di voluttà.
Intanto i vetturini, che non li potevano soffrire perché li vedevano andar sempre a piedi, si facevano venir la tosse ogni qual volta li incontravano per la strada, e quella tosse faceva ridere i signori che traballavano nelle vetturette sgangherate.
A Chianciano ormai non si parlava d'altro; in tutte le Pensioni, al Circolo, al Caffè, in farmacia, al Giuoco del Pallone, all'Arena, miss Galley e il commendator Gori facevano da mane a sera le spese della conversazione.
Chi li aveva incontrati qua e chi là, e lui era messo cosí e lei era messa cosà...
Quelli che, finita la cura, partivano, ragguagliavano i nuovi arrivati, e dopo quattro o cinque giorni domandavano ancora, da lontano, nelle cartoline illustrate, notizie della coppia felice.
Tutt'a un tratto (si era ormai ai primi di settembre) si sparse per Chianciano la notizia che il commendator Gori partiva per Roma all'improvviso, lui solo.
I commenti furono infiniti e grandissimo lo stupore.
Che era accaduto?
Alcuni dicevano che miss Galley aveva saputo che egli era ammogliato e diviso dalla moglie; altri, che il Gori, essendo d'un balzo in principio salito ai sette cieli, aveva avuto bisogno di tutto quel tempo per calare con garbo a ghermir la preda, la quale, alla stretta, gli s'era scoperta magra e spennata; altri poi volevano sostenere che non c'era rottura; che miss Galley avrebbe raggiunto a Roma il fidanzato, e altri infine, che il Gori sarebbe ritornato a Chianciano fra pochi giorni per ripartire quindi con la sposa per Firenze.
Ma quelli della Pensione Ronchi assicuravano che l'avventura era proprio finita, tanto vero che miss Galley non era scesa quel giorno in sala a desinare e che il Gori s'era mostrato a tavola molto turbato.
Tutti questi discorsi s'intrecciavano nella piazza del Giuoco del Pallone, ove l'intera colonia bagnante e molti del paese eran convenuti per assistere alla partenza del Gori.
Quando la vettura uscí dalla porta del paese, tutti si fecero alla spalletta della piazza.
Il Gori, in vettura, leggeva tranquillamente il giornale.
Passando sotto la piazza, levò gli occhi, come per godere, lui attore, dello spettacolo di tanti spettatori.
Ma, all'improvviso, dietro la piccola Arena che sorge in mezzo alla piazza si levò un furibondo abbaío d'una frotta di cani azzuffati, aggrovigliati in una mischia feroce.
Tutti si voltarono a guardare, alcuni ritraendosi per paura, altri accorrendo coi bastoni levati.
In mezzo a quel groviglio c'era Pallino con la sua Mimí, Pallino e Mimí che, tra l'invidia e la gelosia terribile dei loro compagni, erano riusciti finalmente a celebrar le loro nozze.
Le signore torcevano il viso, gli uomini sghignazzavano, quando, preceduta da una frotta di monellacci, si precipitò nella piazza miss Galley, come una furia, scapigliata dal vento e dalla corsa, col cappello in mano e gli occhi gonfi e rossi di pianto.
- Mimí! Mimí! Mimí!
Alla vista dell'orribile scempio, levò le braccia, allibita, poi si coprí il volto con le mani, volse le spalle e risalí in paese con la stessa furia con la quale era venuta.
Rientrata alla Pensione come una bufera, s'avventò contro il Ronchi, contro i camerieri, con le dita artigliate, quasi volesse sbranarli; si contenne a stento, strozzata dalla rabbia, arrangolata, senza potere articolar parola.
Già dianzi aveva perduto la voce, strillando, nell'accorgersi (dopo tanti giorni!) che Mimí non era sorvegliata, che Mimí non era in casa e non si sapeva dove fosse.
Salí nella sua camera, afferrò, ammassò tutte le sue robe nel baule, nelle valige, ordinò una vettura a due cavalli, che la conducesse subito subito alla stazione di Chiusi, perché non voleva trattenersi piú a lungo a Chianciano, neanche un'ora, neanche un minuto.
Sul punto di partire, da quegli stessi monellacci che erano corsi con lei in cerca della cagnolina, ansanti, esultanti per la speranza d'una buona mancia, le fu presentata la povera Mimí, piú morta che viva.
Ma miss Galley, contraffatta dall'ira, con un violentissimo scatto la respinse, storcendo la faccia.
Mimí, all'urto furioso, cadde a terra, batté il musetto e, con acuti guaiti, corse ranca ranca a ficcarsi sotto un divano alto appena tre dita dal suolo, mentre la padrona inviperita montava sul legno e gridava al vetturino:
- Via!
Il Ronchi, i camerieri, i bagnanti rientrati di corsa alla Pensione, restarono un pezzo a guardarsi tra loro, sbalorditi; poi ebbero pietà della povera cagnolina abbandonata; ma, per quanto la chiamassero e la invitassero coi modi piú affettuosi, non ci fu verso di farla uscire da quel nascondiglio.
Bisognò che il Ronchi, ajutato da un cameriere, sollevasse e scostasse il divano.
Ma allora Mimí s'avventò alla porta come una freccia e prese la fuga.
I monelli le corsero dietro, girarono tutto il paese, per ogni verso, arrivarono fin presso la stazione: non la poterono rintracciare.
Il Ronchi, che aveva avuto per lei tante noje, scrollò le spalle, esclamando:
- O vada a farsi benedire!
Dopo cinque o sei giorni, verso sera, Mimí, sudicia, scarduffata, famelica, irriconoscibile, fu rivista per le vie di Chianciano, sotto la pioggia lenta, che segnava la fine della stagione.
Gli ultimi bagnanti partivano: in capo a una settimana, il paesello, annidato su l'alto colle ventoso, avrebbe ripreso il fosco aspetto invernale.
- To', la cagnetta della signorina! - disse qualcuno, vedendola passare.
Ma nessuno si mosse a prenderla, nessuno la chiamò.
E Mimí seguitò a vagare, sotto la pioggia.
Era già stata alla Pensione Ronchi, ma l'aveva trovata chiusa, perché il proprietario s'era affrettato di andare in campagna per la vendemmia.
Di tratto in tratto s'arrestava a guardare con gli occhietti cisposi tra i peli, come se non sapesse ancora comprendere come mai nessuno avesse pietà di lei cosí piccola, di lei cosí carezzata prima e curata: come mai nessuno la prendesse per riportarla alla padrona, che l'aveva perduta, alla padrona, che essa aveva cercato invano per tanto tempo e cercava ancora.
Aveva fame, era stanca, tremava di freddo, non sapeva piú dove andare, dove rifugiarsi.
Nei primi giorni, qualcuno, nel vedersi seguito da lei, si chinò a lisciarla, a commiserarla; ma poi, seccato di trovarsela sempre alle calcagna, la cacciò sgarbatamente.
Era gravida.
Pareva quasi impossibile: una coserellina cosí, che non pareva nemmeno: gravida! E la scostavano col piede.
Fanfulla Mochi, dalla soglia della bottega, vedendola trotterellar per via, sperduta, un giorno la chiamò; le diede da mangiare; e siccome la povera bestiola, ormai avvezza a vedersi scacciata da tutti, se ne stava con la schiena arcuata, per paura, come in attesa di qualche calcio, la lisciò, la carezzò, per rassicurarla.
La povera Mimí, quantunque affamata, lasciò di mangiare per leccar la mano del benefattore.
Allora Fanfulla chiamò Pallino, che dormiva nella cuccia sotto il banco:
- Cane, figlio di cane, brutto libertino scodato, guarda qua la tua sposa!
Ma ormai Mimí non era piú una cagnetta signorina, era divenuta una cagnetta di strada, una delle tante del paese.
E Pallino non la degnò nemmeno d'uno sguardo.
NEL SEGNO
Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all'ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d'introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejòtica.
La capo-sala la guardò male.
- Vuoi farti vedere dagli studenti?
- Sí, per favore; prendete me.
- Ma lo sai che sembri una lucertola?
- Lo so.
Non me n'importa! Prendete me.
- Ma guarda un po' che sfacciata.
E che ti figuri che ti faranno là dentro?
- Come a Nannina, - rispose la Òsimo.
- No?
Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall'ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico.
- E ci vuoi andare? - concluse quella.
- Per me, ti servo.
Ma bada che il segno non te lo levi piú per molti giorni, neppure col sapone.
La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo:
- Voi portatemi, e non ve ne curate.
Le era tornato in volto un po' di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli.
Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti.
E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte.
Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo.
Già due altre volte era sta lí, all'ospedale.
La prima volta, per...
- eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all'ospizio dei trovatelli.
La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all'ospedale piú di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo.
Ora c'era per l'anemia, da un mese.
A forza d'iniezioni di ferro s'era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall'ospedale.
Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur cosí sconsolata.
Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime.
Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai piú altro che morire.
Vittima come era, però, d'una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell'oscura minaccia.
Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose.
Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto.
Invano, allora, le buone suore assistenti s'eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sí; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s'allentava per quelle esortazioni.
Nessuna cosa piú la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s'era illusa, che il vero inganno le era venuto dall'inesperienza, dall'appassionata e credula sua natura, piú che dal giovine a cui s'era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo.
Ma rassegnarsi, no, non poteva.
Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei.
Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni.
Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno...
Sí, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: - Ma un giorno...
- e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire.
Ma lei non mentiva.
Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studii, non fosse venuto a mancare cosí di colpo, laggiú, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d'un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele.
Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d'un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa.
Cosí era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli piú piccoli del barone e anche un po' come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso.
Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità.
Ma che glien'importava, allora? Lavorava con tutto il cuore, per acquistarsi la benevolenza paterna di chi la ospitava, con una speranza segreta: che quelle sue cure amorose, cioè, quei suoi servizi senz'alcun compenso, dopo il sacrificio del padre, valessero a vincere l'opposizione che forse il barone avrebbe fatta al figliuolo maggiore, Riccardo, quando questi, come già le aveva promesso, gli avrebbe dichiarato l'amore che sentiva per lei.
Oh, era sicurissimo Riccardo che il padre avrebbe condisceso di buona voglia; ma aveva appena diciannove anni, era ancora studente di liceo; non si sentiva il coraggio di far quella dichiarazione ai genitori: meglio aspettare qualche anno.
Ora, aspettando...
Ma lí, possibile? nella stessa casa, sempre vicini, fra tante lusinghe, dopo tante promesse, con tanti giuramenti...
La passione la aveva accecata.
Quando, alla fine, il fallo non s'era piú potuto nascondere, cacciata via! Sí, proprio cacciata via, poteva dire, senz'alcuna misericordia, senz'alcun riguardo neanche per il suo stato.
Il Barni aveva scritto a una vecchia zia di lei, perché fosse venuta subito a riprendersela e a portarsela via, laggiú in Calabria, promettendo un assegno; ma la zia aveva scongiurato il barone di aspettare almeno che la nipote si fosse prima liberata a Roma, per non affrontar lo scandalo in un piccolo paese; e il Barni aveva ceduto, ma a patto che il figliuolo non ne avesse saputo nulla e le avesse credute già fuori di Roma.
Dopo il parto, però, ella non era voluta tornare in Calabria; il barone, allora, su tutte le furie, aveva minacciato di togliere l'assegno; e lo aveva tolto difatti, dopo il tentato suicidio.
Riccardo era partito per Firenze; lei, salvata per miracolo, s'era messa a far la giovine di sarta per mantenere sé e la zia.
Era passato un anno; Riccardo era tornato a Roma; ma ella non aveva nemmen tentato di rivederlo.
Fallitole il proposito violento, s'era fitto in capo di lasciarsi morire a poco a poco.
La zia, un bel giorno, aveva perduto la pazienza e se n'era ritornata in Calabria.
Un mese addietro, durante uno svenimento in casa della sarta presso la quale lavorava, era stata condotta lí all'ospedale, e c'era rimasta per curarsi dell'anemia.
L'altro giorno, intanto, dal suo lettino, Raffaella Òsimo aveva veduto passare per la corsia gli studenti di medicina che facevano il corso di semejòtica, e fra questi studenti aveva riveduto, dopo circa due anni, Riccardo, con accanto una giovinetta, che doveva essere una studentessa anche lei, bionda, bella, straniera all'aspetto: e dal modo con cui la guardava...
- ah, Raffaella non poteva ingannarsi! - appariva chiaramente che n'era innamorato.
E come gli sorrideva lei, pendendo quasi dagli occhi di lui...
Li aveva seguiti con lo sguardo fino in fondo alla corsia; poi era rimasta con gli occhi sbarrati, levata su un gomito.
Nannina, la sua vicina di letto, s'era messa a ridere.
- Che hai veduto?
- Nulla...
E aveva sorriso anche lei, riabbandonandosi sul letto, perché il cuore le batteva come volesse balzarle dal seno.
Era venuta poi la capo-sala a invitare Nannina a vestirsi, perché il professore la voleva di là per la lezione agli studenti.
- E che debbono farmi? - aveva domandato Nannina.
- Ti mangeranno! Che vuoi che ti facciano? - le aveva risposto quella.
- Tocca a te; toccherà anche alle altre.
Tanto, tu domani andrai via.
Aveva tremato, dapprima, Raffaella al pensiero che potesse toccare anche a lei.
Ah, cosí caduta, cosí derelitta, come ricomparirgli davanti, lí? Per certi falli, quando la bellezza sia sparita, né compatimento, né commiserazione.
Certo i compagni di Riccardo, vedendola cosí misera, lo avrebbero deriso:
- Come! Con quella lucertolina t'eri messo?
Non sarebbe stata una vendetta.
Né lei, del resto, voleva vendicarsi.
Quando però, dopo circa mezz'ora, Nannina era ritornata al suo lettuccio e le aveva spiegato che cosa le avevano fatto di là e mostrato il corpo tutto segnato, Raffaella improvvisamente aveva cangiato idea; ed ecco, fremeva d'impazienza, ora, aspettando l'arrivo degli studenti.
Giunsero, alla fine, verso le dieci.
C'era Riccardo e, come l'altro giorno, accanto alla studentessa straniera.
Si guardavano e si sorridevano.
- Mi vesto? - domandò Raffaella alla capo-sala, balzando a sedere tutt'accesa sul letto, appena quelli entrarono nella sala in fondo alla corsia.
- Ih che prescia! giú, - le impose la capo-sala, - aspetta prima che il professore dia l'ordine.
Ma Raffaella, come se colei le avesse detto: - Vestiti! - prese a vestirsi di nascosto.
Era già bella e pronta sotto le coperte, quando la capo-sala venne a chiamarla.
Pallida come una morta, convulsa in tutto il misero corpicino, sorridente, con gli occhi sfavillanti e i capelli che le cascavano da tutte le parti, entrò nella sala.
Riccardo Barni, parlava con la giovine studentessa e non s'accorse in prima di lei, che - smarrita fra tanti giovani - lo cercava con gli occhi e non sentiva il medico primario, libero docente di semejòtica, che le diceva:
- Qua, qua, figliuola!
Alla voce del professore, il Barni si voltò e vide Raffaella che lo fissava, avvampata ora in volto: allibí; diventò pallidissimo; gli s'intorbidò la vista.
- Insomma! - gridò il professore.
- Qua!
Raffaella sentí ridere tutti gli studenti e si riscosse vieppiú smarrita; vide che Riccardo si ritraeva in fondo alla sala, verso la finestra; si guardò attorno; sorrise nervosamente e domandò:
- Che debbo fare?
- Qua, qua, qua, stendetevi qua! - le ordinò il professore che stava a capo d'un tavolino, su cui era stesa una specie d'imbottita.
- Eccomi, sissignore! - s'affrettò a ubbidire Raffaella; ma siccome stentava a tirarsi sú a sedere sul tavolino, sorrise di nuovo e disse: - Non ci arrivo...
Uno studente la ajutò a montare.
Seduta, prima di stendersi, guardò il professore, ch'era un bell'uomo, alto di statura, tutto raso, con gli occhiali d'oro, e gli disse, indicando la studentessa straniera:
- Se me lo facesse disegnare da lei...
Nuovo scoppio di risa degli studenti.
Sorrise anche il professore:
- Perché? Ti vergogni?
- Nossignore.
Ma sarei piú contenta.
E si volse a guardare verso la finestra, là in fondo, ove Riccardo s'era rincantucciato, con le spalle volte alla sala.
La bionda studentessa seguí istintivamente quello sguardo.
Aveva già notato l'improvviso turbamento del Barni.
Ora s'accorse ch'egli s'era ritirato là, e si turbò anche lei vivamente.
Ma il professore la chiamò:
- Sú, dunque, a lei, signorina Orlitz.
Contentiamo la paziente.
Raffaella si stese sul tavolino e guardò la studentessa che si sollevava la veletta su la fronte.
Ah, com'era bella, bianca e delicata, con gli occhi celesti, dolci dolci.
Ecco che si liberava dalla mantella, prendeva il lapis dermografico che il professore le porgeva e si chinava su lei per scoprirle, con mani non ben sicure, il seno.
Raffaella Òsimo serrò gli occhi per vergogna di quel suo misero seno, esposto agli sguardi di tanti giovani, là attorno al tavolino.
Sentí posarsi una mano fredda sul cuore.
- Batte troppo...
- disse subito, con spiccato accento esotico, la signorina, ritraendo la mano.
- Quant'è che siete all'ospedale? - domandò il professore.
Raffaella rispose, senza schiuder gli occhi; ma con le palpebre che le fervevano, nervosamente:
- Trentadue giorni.
Son quasi guarita.
- Senta se c'è soffio anemico, - riprese il professore, porgendo alla studentessa lo stetoscopio.
Raffaella sentí sul seno il freddo dello strumento; poi la voce della signorina che diceva:
- Soffio, no...
Palpitazione, troppo.
- Andiamo, faccia la percussione, - ingiunse allora il professore.
Ai primi picchi, Raffaella piegò da un lato la testa, strinse i denti e si provò ad aprire gli occhi; li richiuse subito, facendo un violento sforzo su se stessa per contenersi.
Di tratto in tratto come la studentessa sospendeva un po' la percussione per segnare sotto il dito medio una breve lineetta con il lapis intinto in un bicchier d'acqua che uno studente lí presso reggeva, ella soffiava penosamente per le nari il fiato trattenuto..
Quanto durò quel supplizio? Ed egli era sempre là, presso la finestra...
Perché non lo richiamava il professore? perché non lo invitava a vedere il cuore di lei, che la sua bionda compagna tracciava man mano su quello squallido seno, cosí ridotto per lui?
Ecco, finalmente la percussione era finita.
Ora la studentessa congiungeva tutte le lineette per compire il disegno.
Raffaella fu tentata di guardarselo il suo cuore, lí disegnato; ma, improvvisamente, non poté piú reggere; scoppiò in singhiozzi.
Il professore, seccato, la rimandò nella corsia, ordinando alla capo-sala d'introdurre un'altra inferma meno isterica e meno scema di quella.
La avrebbe egli cercata con gli occhi, almeno, attraversando la corsia? Ma no, no: che importava piú a lei, ormai? Non avrebbe alzato nemmeno il capo per farsi scorgere.
Egli non doveva piú vederla.
Le bastava di avergli fatto conoscere come s'era ridotta per lui.
Prese con le mani tremanti la rimboccatura del lenzuolo e se la tirò sul volto, come se fosse morta.
Per tre giorni Raffaella Òsimo vigilò con attenta cura che il segno del cuore non le si cancellasse dal seno.
Uscita dall'ospedale, innanzi a un piccolo specchio nella sua povera cameretta, si confisse uno stiletto puntato contro la parete, là, nel bel mezzo del segno che la rivale ignara le aveva tracciato.
LA CASA DEL GRANELLA
I
I topi non sospettano l'insidia della trappola.
Vi cascherebbero, se la sospettassero? Ma non se ne capacitano neppure quando vi son cascati.
S'arrampicano squittendo sú per le gretole; cacciano il musetto aguzzo tra una gretola e l'altra; girano; rigirano senza requie, cercando l'uscita.
L'uomo che ricorre alla legge sa, invece, di cacciarsi in una trappola.
Il topo vi si dibatte.
L'uomo, che sa, sta fermo.
Fermo, col corpo, s'intende.
Dentro, cioè con l'anima, fa poi come il topo, e peggio.
E cosí facevano, quella mattina d'agosto, nella sala d'aspetto dell'avvocato Zummo i numerosi clienti, tutti in sudore, mangiati dalle mosche e dalla noja.
Nel caldo soffocante, la loro muta impazienza, assillata dai pensieri segreti, si esasperava di punto in punto.
Fermi però, là, si lanciavano tra loro occhiatacce feroci.
Ciascuno avrebbe voluto tutto per sé, per la sua lite, il signor avvocato, ma prevedeva che questi, dovendo dare udienza a tanti nella mattinata, gli avrebbe accordato pochissimo tempo, e che, stanco, esausto dalla troppa fatica, con quella temperatura di quaranta gradi, confuso, frastornato dall'esame di tante questioni, non avrebbe piú avuto per il suo caso la solita lucidità di mente, il solito acume.
E ogni qualvolta lo scrivano, che copiava in gran fretta una memoria, col colletto sbottonato e un fazzoletto sotto il mento, alzava gli occhi all'orologio a pendolo, due o tre sbuffavano e piú d'una seggiola scricchiolava.
Altri, già sfiniti dal caldo e dalla lunga attesa, guardavano oppressi le alte scansie polverose, sovraccariche d'incartamenti: litigi antichi, procedure, flagello e rovina di tante povere famiglie! Altri ancora, sperando di distrarsi, guardavano le finestre dalle stuoje verdi abbassate, donde venivano i rumori della via, della gente che andava spensierata e felice mentr'essi qua...
auff! E con un gesto furioso scacciavano le mosche, le quali, poverine, obbedendo alla loro natura, si provavano a infastidirli un po' piú e a profittare dell'abbondante sudore che l'agosto e il tormento smanioso delle brighe giudiziarie spremono dalle fronti e dalle mani degli uomini.
Eppure c'era qualcuno piú molesto delle mosche nella sala d'aspetto, quella mattina: il figlio dell'avvocato, brutto ragazzotto di circa dieci anni, il quale era certo scappato di soppiatto dalla casa annessa allo studio, senza calze, scamiciato, col viso sporco, per rallegrare i clienti di papà.
- Tu come ti chiami? Vincenzo? Oh che brutto nome! E questo ciondolo è d'oro? si apre? come si apre? e che c'è dentro? Oh, guarda...
capelli...
E di chi sono? e perché ce li tieni?
Poi, sentendo dietro l'uscio dello studio i passi di papà che veniva ad accompagnare fino alla porta qualche cliente di conto, si cacciava sotto il tavolino, tra le gambe dello scrivano.
Tutti nella sala d'aspetto si levavano in piedi e guardavano con occhi supplici l'avvocato, il quale, alzando le mani, diceva, prima di rientrare nello studio:
- Un po' di pazienza, signori miei.
Uno per volta.
Il fortunato, a cui toccava, lo seguiva ossequioso e richiudeva l'uscio; per gli altri ricominciava piú smaniosa e opprimente l'attesa.
II
Tre soltanto, che parevano marito, moglie e figliuola, non davano alcun segno d'impazienza.
L'uomo, su i sessant'anni, aveva un aspetto funebre; non s'era voluto levar dal capo una vecchia tuba dalle tese piatte, spelacchiata e inverdita, forse per non scemar solennità all'abito nero, all'ampia, greve, antica finanziera, che esalava un odore acuto di naftalina.
Evidentemente s'era parato cosí perché aveva stimato di non poterne fare a meno, venendo a parlare col signor avvocato.
Ma non sudava.
Pareva non avesse piú sangue nelle vene, tanto era pallido; e che avesse le gote e il mento ammuffiti, per una peluria grigia e rada che voleva esser barba.
Aveva gli occhi strabi, chiari, accostati a un gran naso a scarpa; e sedeva curvo, col capo basso, come schiacciato da un peso insopportabile; le mani scarne, diafane, appoggiate al bastoncino.
Accanto a lui, la moglie aveva invece un atteggiamento fierissimo nella lampante balordaggine.
Grassa, popputa, prosperosa, col faccione affocato e un po' anche baffuto e un pajo d'occhi neri spalancati, volti al soffitto.
Con la figliuola, dall'altro lato, si ricascava nel medesimo squallore contegnoso del padre.
Magrissima, pallida, con gli occhi strabi anche lei, sedeva come una gobbina.
Tanto la figlia quanto il padre pareva non cascassero a terra perché nel mezzo avevano quel donnone atticciato che in qualche modo li teneva sú.
Tutti e tre erano osservati dagli altri clienti con intensa curiosità, mista d'una certa costernazione ostile, quantunque essi già tre volte, poverini, avessero ceduto il passo, lasciando intendere che avevano da parlare a lungo col signor avvocato.
Quale sciagura li aveva colpiti? Chi li perseguitava? L'ombra d'una morte violenta, che gridava loro vendetta? La minaccia della miseria?
La miseria, no, di certo.
La moglie era sovraccarica d'oro: grossi orecchini le pendevano dagli orecchi; una collana doppia le stringeva il collo; un gran fermaglio a lagrimoni le andava sú e giú col petto, che pareva un mantice, e una lunga catena le reggeva il ventaglio e tanti e tanti anelli massicci quasi le toglievano l'uso delle tozze dita sanguigne.
Ormai nessuno piú domandava loro il permesso di passare avanti: era già inteso ch'essi sarebbero entrati dopo di tutti.
Ed essi aspettavano, pazientissimi, assorti, anzi sprofondati nel loro cupo affanno segreto.
Solo, di tanto in tanto, la moglie si faceva un po' di vento, e poi lasciava ricadere il ventaglio, e l'uomo si protendeva per ripetere alla figlia:
- Tinina, ricordati del ditale.
Piú d'un cliente aveva cercato di spingere il molestissimo figlio dell'avvocato verso quei tre; ma il ragazzo, adombrato da quel funebre squallore, s'era tratto indietro, arricciando il naso.
L'orologio a pendolo segnava già quasi le dodici, quando, andati via piú o meno soddisfatti tutti gli altri clienti, lo scrivano, vedendoli ancora lí immobili come statue, domandò loro:
- E che aspettano per entrare?
- Ah, - fece l'uomo, levandosi in piedi con le due donne.
- Possiamo?
- Ma sicuro che possono! - sbuffò lo scrivano.
- Avrebbero potuto già da tanto tempo! Si sbrighino, perché l'avvocato desina a mezzogiorno.
Scusino, il loro nome?
L'uomo si tolse finalmente la tuba e, all'improvviso, scoprendo il capo calvo, scoprí anche il martirio che quella terribile finanziera gli aveva fatto soffrire: infiniti rivoletti di sudore gli sgorgarono dal roseo cranio fumante e gl'inondarono la faccia esangue, spiritata.
S'inchinò, sospirando il suo nome:
- Piccirilli Serafino.
III
L'avvocato Zummo credeva d'aver finito per quel giorno, e rassettava le carte su la scrivania, per andarsene, quando si vide innanzi quei tre nuovi, ignoti clienti.
- Lor signori? - domandò di mala grazia.
- Piccirilli Serafino, - ripeté l'uomo funebre, inchinandosi piú profondamente e guardando la moglie e la figliuola per vedere come facevano la riverenza.
La fecero bene, e istintivamente egli accompagnò col corpo la loro mossa da bertucce ammaestrate.
- Seggano, seggano, - disse l'avvocato Zummo, sbarrando tanto d'occhi allo spettacolo di quella mimica.
- È tardi.
Debbo andare.
I tre sedettero subito innanzi alla scrivania, imbarazzatissimi.
La contrazione del timido sorriso, nella faccia cerea del Piccirilli, era orribile: stringeva il cuore.
Chi sa da quanto tempo non rideva piú quel pover uomo!
- Ecco, signor avvocato...
- Siamo venuti, - cominciò contemporaneamente la figlia.
E la madre, con gli occhi al soffitto, sbuffò:
- Cose dell'altro mondo!
- Insomma, parli uno, - disse Zummo, accigliato.
- Chiaramente e brevemente.
Di che si tratta?
- Ecco, signor avvocato, - riprese il Piccirilli, dando un'ingollatina.
- Abbiamo ricevuto una citazione.
- Assassinio, signor avvocato! - proruppe di nuovo la moglie.
- Mammà, - fece timidamente la figlia, per esortarla a tacere o a parlar piú pacata.
Il Piccirilli guardò la moglie, e, con quella autorità che la meschinissima corporatura gli poteva conferire, aggiunse:
- Mararo', ti prego: parlo io! Una citazione, signor avvocato.
Noi abbiamo dovuto lasciar la casa in cui abitavamo, perché...
- Ho capito.
Sfratto? - domandò Zummo per tagliar corto.
- Nossignore, - rispose umilmente il Piccirilli.
- Al contrario.
Abbiamo pagato sempre la pigione, puntualmente, anticipata.
Ce ne siamo andati da noi, contro la volontà del proprietario, anzi.
E il proprietario ora ci chiama a rispettare il contratto di locazione e, per di piú, responsabili di danni e interessi, perché, dice, la casa noi gliel'abbiamo infamata.
- Come come? - fece Zummo, rabbujandosi e guardando, questa volta, la moglie.
- Ve ne siete andati da voi; gli avete infamato la casa, e il proprietario...
Non capisco.
Parliamoci chiaro, signori miei! L'avvocato è come il confessore.
Commercio illecito?
- Nossignore! - s'affrettò a rispondere il Piccirilli, ponendosi le mani sul petto.
- Che commercio? Niente! Noi non siamo commercianti.
Solo mia moglie dà qualche cosina...
cosí..
in prestito, ma a un interesse...
- Onesto, ho capito!
- Creda, sissignore, consentito finanche dalla Santa Chiesa...
Ma questo non c'entra.
Il Granella, proprietario della casa, dice che noi gliel'abbiamo infamata, perché in tre mesi, in quella casa maledetta, ne abbiamo vedute di tutti i colori, signor avvocato! Mi vengono...
mi vengono i brividi solo a pensarci!
- Oh Signore, scampatene e liberatene tutte le creature della terra! - esclamò con un formidabile sospiro la moglie, levandosi in piedi, levando le braccia e poi facendosi con la mano piena d'anelli il segno della croce.
La figlia, col capo basso e con le labbra strette, aggiunse:
- Una persecuzione...
(Siedi, mammà.)
- Perseguitati, sissignore - rincalzò il padre.
- (Siedi, Mararo'!) Perseguitati, è la parola.
Noi siamo stati per tre mesi perseguitati a morte, in quella casa.
- Perseguitati da chi? - gridò Zummo, perdendo alla fine la pazienza.
- Signor avvocato, - rispose piano il Piccirilli, protendendosi verso la scrivania e ponendosi una mano presso la bocca, mentre con l'altra imponeva silenzio alle due donne, - (Ssss...) Signor avvocato, dagli spiriti!
- Da chi? - fece Zummo, credendo d'aver sentito male.
- Dagli spiriti, sissignore! - raffermò forte, coraggiosamente, la moglie, agitando in aria le mani.
Zummo scattò in piedi, su le furie:
- Ma andate là! Non mi fate ridere! Perseguitati dagli spiriti? Io devo andare a mangiare, signori miei!
Quelli, allora, alzandosi anche loro, lo circondarono per trattenerlo, e presero a parlare tutti e tre insieme, supplici:
- Sissignore, sissignore! Vossignoria non ci crede? Ma ci ascolti...
Spiriti, spiriti infernali! Li abbiamo veduti noi, coi nostri occhi.
Veduti e sentiti...
Siamo stati martoriati, tre mesi!
E Zummo, scrollandosi rabbiosamente:
- Ma andate, vi dico! Sono pazzie! Siete venuti da me? Al manicomio, al manicomio, signori miei!
- Ma se ci hanno citato...
- gemette a mani giunte il Piccirilli.
- Hanno fatto benone! - gli gridò Zummo sul muso.
- Che dice, signor avvocato? - s'intromise la moglie, scostando tutti.
- È questa l'assistenza che Vossignoria presta alla povera gente perseguitata? Oh Signore! Vossignoria parla cosí perché non ha veduto come noi! Ci sono, creda pure, ci sono, gli spiriti! ci sono! E nessuno meglio di noi lo può sapere!
- Voi li avete veduti? - le domandò Zummo con un sorriso di scherno.
- Sissignore, con gli occhi miei, - affermò subito, non interrogato, il Piccirilli.
- Anch'io, coi miei, - aggiunse la figlia, con lo stesso gesto.
- Ma forse coi vostri! - non poté tenersi dallo sbuffare l'avvocato Zummo con gl'indici tesi verso i loro occhi strabi.
- E i miei, allora? - saltò a gridare la moglie, dandosi una manata furiosa sul petto e spalancando gli occhiacci.
- Io ce li ho giusti, per grazia di Dio, e belli grossi, signor avvocato! E li ho veduti anch'io, sa, come ora vedo Lei!
- Ah sí? - fece Zummo.
- Come tanti avvocati?
- E va bene! - sospirò la donna.
- Vossignoria non ci crede; ma abbiamo tanti testimoni, sa? tutto il vicinato che potrebbe venire a deporre...
Zummo aggrottò le ciglia:
- Testimoni che hanno veduto?
- Veduto e udito, sissignore!
- Ma veduto...
che cosa per esempio? - domandò Zummo, stizzito.
- Per esempio, seggiole muoversi, senza che nessuno le toccasse...
- Seggiole?
- Sissignore.
- Quella seggiola là, per esempio?
- Sissignore, quella seggiola là, mettersi a far le capriole per la stanza, come fanno i ragazzacci per istrada; e poi, per esempio...
che debbo dire? un portaspilli, per esempio, di velluto, in forma di melarancia, fatto da mia figlia Tinina, volare dal cassettone su la faccia del povero mio marito, come lanciato...
come lanciato da una mano invisibile; l'armadio a specchio scricchiolare e tremar tutto, come avesse le convulsioni, e dentro...
dentro l'armadio, signor avvocato...
mi s'aggricciano le carni solo a pensarci...
risate!
- Risate! - aggiunse la figlia.
- Risate! - il padre.
E la moglie, senza perder tempo, seguitò:
- Tutte queste cose, signor avvocato mio, le hanno vedute e udite le nostre vicine, che sono pronte, come le ho detto, a testimoniare.
Noi abbiamo veduto e udito ben altro!
- Tinina, il ditale, - suggerí, a questo punto, il padre.
- Ah, sissignore, - prese a dire la figlia, riscotendosi con un sospiro.
- Avevo un ditalino d'argento, ricordo della nonna, sant'anima! Lo guardavo, come la pupilla degli occhi.
Un giorno, lo cerco nella tasca e non lo trovo! lo cerco per tutta la casa e non lo trovo.
Tre giorni a cercarlo, che a momenti ci perdevo anche la testa.
Niente! Quando una notte, mentre stavo a letto, sotto la zanzariera...
- Perché ci sono anche le zanzare, in quella casa, signor avvocato! - interruppe la madre.
- E che zanzare! - appoggiò il padre, socchiudendo gli occhi e tentennando il capo.
- Sento, - riprese la figlia, - sento qualcosa che salta sul cielo della zanzariera...
A questo punto il padre la fece tacere con un gesto della mano.
Doveva attaccar lui.
Era un pezzo concertato, quello.
- Sa, signor avvocato? tal quale come si fanno saltare le palle di gomma, che si dà loro un colpetto e rivengono alla mano.
- Poi, - seguitò la figlia, - come lanciato piú forte, il mio ditalino dal cielo della zanzariera va a schizzare al soffitto e casca per terra, ammaccato.
- Ammaccato, - ripeté la madre.
E il padre:
- Ammaccato!
- Scendo dal letto, tutta tremante, per raccoglierlo e, appena mi chino, al solito, dal tetto...
- Risate, risate, risate...
- terminò la madre.
L'avvocato Zummo restò a pensare, col capo basso e le mani dietro la schiena, poi si riscosse, guardò negli occhi i tre clienti, si grattò il capo con un dito e disse con un risolino nervoso:
- Spiriti burloni, dunque! Seguitate, seguitate...
mi diverto.
- Burloni? Ma che burloni, signor avvocato! - ripigliò la donna.
- Spiriti infernali, deve dire Vossignoria! Tirarci le coperte del letto; sederci su lo stomaco, la notte; percuoterci alle spalle; afferrarci per le braccia; e poi scuotere tutti i mobili, sonare i campanelli, come se, Dio liberi e scampi, ci fosse il terremoto; avvelenarci i bocconi, buttando la cenere nelle pentole e nelle casseruole...
Li chiama burloni Lei? Non ci hanno potuto né il prete né l'acqua benedetta! Allora ne abbiamo parlato al Granella, scongiurandolo di scioglierci dal contratto, perché non volevamo morire là, dallo spavento, dal terrore...
Sa che ci ha risposto quell'assassino? Storie! ci ha risposto.
Gli spiriti.? Mangiate, dice, buone bistecche, dice, e curatevi i nervi.
Lo abbiamo invitato a vedere con gli occhi suoi, a sentire con le sue orecchie.
Niente.
Non ha voluto saperne; anzi ci ha minacciati: "Guardatevi bene" dice "dal farne chiasso, o vi fulmino!".
Proprio cosí.
- E ci ha fulminato! - concluse il marito, scotendo il capo amaramente.
- Ora, signor avvocato, noi ci mettiamo nelle sue mani.
Vossignoria può fidarsi di noi: siamo gente dabbene: sapremo fare il nostro dovere.
L'avvocato Zummo finse, al solito, di non udire queste ultime parole: si stirò per un pezzo ora un baffo ora l'altro, poi guardò l'orologio.
Era presso il tocco.
La famiglia, di là, lo aspettava da un'ora per il desinare.
- Signori miei, - disse, - capirete benissimo che io non posso credere ai vostri spiriti.
Allucinazioni...
storielle da femminucce.
Guardo il caso, adesso, dal lato giuridico.
Voi dite d'aver veduto...
non diciamo spiriti, per carità! dite d'avere anche testimoni, e va bene; dite che l'abitazione in quella casa vi era resa intollerabile da questa specie di persecuzione...
diciamo, strana...
ecco! Il caso è nuovo e speciosissimo; e mi tenta, ve lo confesso.
Ma bisognerà trovare nel codice un qualche appoggio, mi spiego? un fondamento giuridico alla causa.
Lasciatemi vedere, studiare, prima di prendermene l'accollo.
Ora è tardi.
Ritornate domani e vi saprò dare una risposta.
Va bene cosí?
IV
Subito il pensiero di quella strana causa si mise a girar nella mente dell'avvocato Zummo come una ruota di molino.
A tavola, non poté mangiare; dopo tavola, non poté riposare come soleva d'estate, ogni giorno, buttato sul letto.
- Gli spiriti! - ripeteva tra sé di tratto in tratto; e le labbra gli s'aprivano a un sorriso canzonatorio, mentre davanti a gli occhi gli si ripresentavano le comiche figure dei tre nuovi clienti, che giuravano e spergiuravano d'averli veduti.
Tante volte aveva sentito parlar di spiriti; e, per certi racconti delle serve, ne aveva avuto anche lui una gran paura, da ragazzo.
Ricordava ancora le angosce che gli avevano strizzato il coricino atterrito nelle terribili insonnie di quelle notti lontane.
- L'anima! - sospirò a un certo punto, stirando le braccia verso il cielo della zanzariera, e lasciandole poi ricader pesantemente sul letto.
- L'anima immortale...
Eh già! Per ammetter gli spiriti bisogna presupporre l'immortalità dell'anima; c'è poco da dire.
L'immortalità dell'anima...
Ci credo, o non ci credo? Dico e ho detto sempre di no.
Dovrei ora, almeno, ammettere il dubbio, contro ogni mia precedente asserzione.
E che figura ci faccio? Vediamo un po'.
Noi spesso fingiamo con noi stessi, come con gli altri.
Io lo so bene.
Sono molto nervoso e, qualche volta, sissignore, trovandomi solo, io ho avuto paura.
Paura di che? Non lo so.
Ho avuto paura! Noi...
ecco, noi temiamo di indagare il nostro intimo essere, perché una tale indagine potrebbe scoprirci diversi da quelli che ci piace di crederci o di esser creduti.
Io non ho mai pensato sul serio a queste cose.
La vita ci distrae.
Faccende, bisogni, abitudini, tutte le minute brighe cotidiane non ci lasciano tempo di riflettere a queste cose, che pure dovrebbero interessarci sopra tutte le altre.
Muore un amico? Ci arrestiamo là, davanti alla sua morte, come tante bestie restíe, e preferiamo di volgere indietro il pensiero, alla sua vita, rievocando qualche ricordo, per vietarci d'andare oltre con la mente, oltre il punto cioè che ha segnato per noi la fine del nostro amico.
Buona notte! Accendiamo un sigaro per cacciar via col fumo il turbamento e la malinconia.
La scienza s'arresta anch'essa, là, ai limiti della vita, come se la morte non ci fosse e non ci dovesse dare alcun pensiero.
Dice: "Voi siete ancora qua; attendete a vivere, vojaltri: l'avvocato pensi a far l'avvocato; l'ingegnere a far l'ingegnere...".
E va bene! Io faccio l'avvocato.
Ma ecco qua: l'anima immortale, i signori spiriti che fanno? vengono a bussare alla porta del mio studio: "Ehi, signor avvocato, ci siamo anche noi, sa? Vogliamo ficcare anche noi il naso nel suo codice civile! Voi, gente positiva, non volete curarvi di noi? Non volete piú darvi pensiero della morte? E noi, allegramente, dal regno della morte, veniamo a bussare alle porte dei vivi, a sghignazzar dentro gli armadii, a far rotolare sotto gli occhi vostri le seggiole, come se fossero tanti monellacci, ad atterrir la povera gente e a mettere in imbarazzo, oggi, un avvocato che passa per dotto; domani, un tribunale chiamato a dar su noi una novissima sentenza...".
L'avvocato Zummo lasciò il letto in preda a una viva eccitazione e rientrò nello studio per compulsare il codice civile.
Due soli articoli potevano offrire un certo fondamento alla lite: l'articolo 1575 e il 1577.
Il primo diceva:
Il locatore è tenuto per la natura del contratto e senza bisogno di speciale stipulazione:
1° a consegnare al Conduttore la cosa locata;
2° a mantenerla in istato di servire all'uso per cui viene locata;
3° a garantirne al conduttore il pacifico godimento per tutto il tempo della locazione.
L' altro articolo diceva:
Il conduttore debb'essere garantito per tutti quei vizii o difetti della cosa locata che ne impediscano l'uso, quantunque non fossero noti al locatore al tempo della locazione.
Se da questi vizii o difetti proviene qualche danno al conduttore, il locatore è tenuto a farnelo indenne, salvo che provi d'averli ignorati.
Se non che, eccependo questi due articoli, non c'era via di mezzo, bisognava provare l'esistenza reale degli spiriti.
C'erano i fatti e c'erano le testimonianze.
Ma fino a qual punto erano queste attendibili? e che spiegazione poteva dare la scienza di quei fatti?
L'avvocato Zummo interrogò di nuovo, minutamente, i Piccirilli; raccolse le testimonianze indicategli e, accettata la causa, si mise a studiarla appassionatamente.
Lesse dapprima una storia sommaria dello Spiritismo, dalle origini delle mitologie fino ai dí nostri, e il libro del Jaccolliot su i prodigi del fachirismo, poi tutto quanto avevano pubblicato i piú illustri e sicuri sperimentatori, dal Crookes al Wagner, all'Aksakof; dal Gibier allo Zoellner al Janet, al de Rochas, al Richet, al Morselli; e con suo sommo stupore venne a conoscere che ormai i fenomeni cosí detti spiritici, per esplicita dichiarazione degli scienziati piú scettici e piú positivi, erano innegabili.
- Ah, perdio! - esclamò Zummo, già tutto acceso e vibrante.
- Qua la cosa cambia d'aspetto!
Finché quei fenomeni gli erano stati riferiti da gentuccia come i Piccirilli e i loro vicini, egli, uomo serio, uomo colto, nutrito di scienza positiva, li aveva derisi e senz'altro respinti.
Poteva accettarli? Seppure glieli avessero fatti vedere e toccar con mano, avrebbe piuttosto confessato d'essere un allucinato anche lui.
Ma ora, ora che li sapeva confortati dall'autorità di scienziati come il Lombroso, come il Richet, ah perdio, la cosa cambiava d"aspetto!
Zummo, per il momento, non pensò piú alla lite dei Piccirilli, e si sprofondò tutto, a mano a mano sempre piú convinto e con fervore crescente, ne' nuovi studii.
Da un pezzo non trovava piú nell'esercizio dell'avvocatura, che pur gli aveva dato qualche soddisfazione e ben lauti guadagni, non trovava piú nella vita ristretta di quella cittaduzza di provincia nessun pascolo intellettuale, nessuno sfogo a tante scomposte energie che si sentiva fremere dentro, e di cui egli esagerava a se stesso l'intensità, esaltandole come documenti del proprio valore, via! quasi sprecato lí, tra le meschinità di quel piccolo centro.
Smaniava da un pezzo, scontento di sé, di tutto e di tutti; cercava un puntello, un sostegno morale e intellettuale, una qualche fede, sí, un pascolo per l'anima, uno sfogo per tutte quelle energie.
Ed ecco, ora, leggendo quei libri...
Perdio! Il problema della morte, il terribile essere o non essere d'Amleto, la terribile questione era dunque risolta? Poteva l'anima d'un trapassato tornare per un istante a "materializzarsi" e venire a stringergli la mano? Sí, a stringere la mano a lui, Zummo, incredulo, cieco fino a jeri, per dirgli: "Zummo, sta' tranquillo; non ti curare piú delle miserie di codesta tua meschinissima vita terrena! C'è ben altro, vedi? ben altra vita tu vivrai un giorno! Coraggio! Avanti!".
Ma Serafino Piccirilli veniva anche lui, ora con la moglie ora con la figliuola, quasi ogni giorno, a sollecitarlo, a raccomandarglisi.
- Studio! studio! - rispondeva loro Zummo, su le furie.
- Non mi distraete, perdio! state tranquilli; sto pensando a voi.
Non pensava piú a nessuno, invece.
Rinviava le cause, rimandava anche tutti gli altri clienti.
Per debito di gratitudine, tuttavia, verso quei poveri Piccirilli, i quali, senza saperlo, gli avevano aperto innanzi allo spirito la via della luce, si risolse alla fine a esaminare attentamente il loro caso.
Una grave questione gli si parò davanti e lo sconcertò non poco, su le prime.
In tutti gli esperimenti, la manifestazione dei fenomeni avveniva costantemente per la virtú misteriosa d'un medium.
Certo, uno dei tre Piccirilli doveva esser medium senza saperlo.
Ma in questo caso il vizio non sarebbe stato piú della casa del Granella, bensí degli inquilini; e tutto il processo crollava.
Però, ecco, se uno dei Piccirilli era medium senza saperlo, la manifestazione dei fenomeni non sarebbe avvenuta anche nella nuova casa presa da essi in affitto? Invece, no! E anche nelle case precedentemente abitate i Piccirilli assicuravano d'essere stati sempre tranquilli.
Perché dunque nella sola casa del Granella si erano verificate quelle paurose manifestazioni? Evidentemente, doveva esserci qualcosa di vero nella credenza popolare delle case abitate dagli spiriti.
E poi c'era la prova di fatto.
Negando nel modo piú assoluto la dote della medianità alla famiglia Piccirilli, egli avrebbe dimostrato falsa la spiegazione biologica, che alcuni scienziati schizzinosi avevan tentato di dare dei fenomeni spiritici.
Che biologia d'Egitto! Bisognava senz'altro ammettere l'ipotesi metafisica.
O che era forse medium, lui, Zummo? Eppure parlava col tavolino.
Non aveva mai composto un verso in vita sua; eppure il tavolino gli parlava in versi, coi piedi.
Che biologia d'Egitto!
Del resto, giacché a lui piú che la causa dei Piccirilli premeva ormai d'accertare la verità, avrebbe fatto qualche esperimento in casa dei suoi clienti.
Ne parlò ai Piccirilli; ma questi si ribellarono, impauriti.
Egli allora s'inquietò e diede loro a intendere che quell'esperimento era necessario, per la lite, anzi imprescindibile! Fin dalle prime sedute, la signorina Piccirilli, Tinina, si rivelò un medium portentoso.
Zummo, convulso, coi capelli irti su la fronte, atterrito e beato, poté assistere a tutte, o quasi, le manifestazioni piú stupefacenti registrate e descritte nei libri da lui letti con tanta passione.
La causa crollava, è vero; ma egli, fuori di sé, gridava ai suoi clienti a ogni fine di seduta:
- Ma che ve n'importa, signori miei? Pagate, pagate...
Miserie! Sciocchezze! Qua, perdio, abbiamo la rivelazione dell'anima immortale!
Ma potevano quei poveri Piccirilli condividere questo generoso entusiasmo del loro avvocato? Lo presero per matto.
Da buoni credenti, essi non avevano mai avuto il minimo dubbio su l'immortalità delle loro afflitte e meschine animelle.
Quegli esperimenti, a cui si prestavano da vittime, per obbedienza, sembravano loro pratiche infernali.
E invano Zummo cercava di rincorarli.
Fuggendo dalla casa del Granella, essi credevano d'essersi liberati dalla tremenda persecuzione; e ora, nella nuova casa, per opera del signor avvocato, eccoli di nuovo in commercio coi demonii, in preda ai terrori di prima! Con voce piagnucolosa scongiuravano l'avvocato di non farne trapelar nulla, di quelle sedute, di non tradirli, per carità!
- Ma va bene, va bene! - diceva loro Zummo, sdegnato.
- Per chi mi prendete? per un ragazzino? State tranquilli, signori miei! Io esperimento qua, per conto mio.
L'uomo di legge, poi, saprà fare il suo dovere in tribunale, che diamine! Sosterremo il vizio occulto della casa, non dubitate!
V
Lo sostenne, di fatti, il vizio occulto della casa, ma senz'alcun calore di convinzione, certo com'era ormai della medianità della signorina Piccirilli.
Invece sbalordí i giudici, i colleghi, il pubblico che stipava l'aula del tribunale, con una inaspettata, estrosa, fervida professione di fede.
Parlò di Allan Kardech come d'un novello messia; definí lo spiritismo la religione nuova dell'umanità; disse che la scienza co' suoi saldi ma freddi ordigni, col suo formalismo troppo rigoroso aveva sopraffatto la natura; che l'albero della vita, allevato artificialmente dalla scienza, aveva perduto il verde, s'era isterilito o dava frutti che imbozzacchivano e sapevano di cenere e tosco, perché nessun calore di fede piú li maturava.
Ma ora, ecco, il mistero cominciava a schiudere le sue porte tenebrose: le avrebbe spalancate domani! Intanto, da questo primo spiraglio all'umanità sgomenta, in angosciosa ansia, venivano ombre ancora incerte e paurose a rivelare il mondo di là: strane luci, strani segni...
E qui l'avvocato Zummo, con drammaticissima eloquenza, entrò a parlare delle piú meravigliose manifestazioni spiritiche, attestate, controllate, accettate dai piú grandi luminari della scienza: fisici, chimici, psicologi, fisiologi, antropologi, psichiatri; soggiogando e spesso atterrendo addirittura il pubblico che ascoltava a bocca aperta e con gli occhi spalancati.
Ma i giudici, purtroppo, si vollero tenere terra terra, forse per reagire ai voli troppo sublimi dell'avvocato difensore.
Con irritante presunzione, sentenziarono che le teorie, tuttora incerte, dedotte dai fenomeni cosí detti spiritici, non erano ancora ammesse e accettate dalla scienza moderna, eminentemente positiva; che, del resto, venendo a considerar piú da vicino il processo, se per l'articolo 1575 il locatore è tenuto a garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa locata, nel caso in esame, come avrebbe potuto il locatore stesso garantir la casa dagli spiriti, che sono ombre vaganti e incorporee? come scacciare le ombre? E, d'altra parte, riguardo all'articolo 1577, potevano gli spiriti costituire uno di quei vizii occulti che impediscono l'uso dell'abitazione? Erano forse ingombranti? E quali rimedii avrebbe potuto usare il locatore contro di essi? Senz'altro, dunque, dovevano essere respinte le eccezioni dei convenuti.
Il pubblico, commosso ancora e profondamente impressionato dalle rivelazioni dell'avvocato Zummo, disapprovò unanimemente questa sentenza, che nella sua meschinità, pur presuntuosa, sonava come un'irrisione.
Zummo inveí contro il tribunale con tale scoppio d'indignazione che per poco non fu tratto in arresto.
Furibondo, sottrasse alla commiserazione generale i Piccirilli, proclamandoli in mezzo alla folla plaudente martiri della nuova religione.
Il Granella intanto, proprietario della casa, gongolava di gioja maligna.
Era un omaccione di circa cinquant'anni, adiposo e sanguigno.
Con le mani in tasca, gridava forte a chiunque volesse sentirlo, che quella sera stessa sarebbe andato a dormire nella casa degli spiriti - solo! Solo, solo, sí, perché la vecchia serva che stava da tant'anni con lui, grazie all'infamia dei Piccirilli, lo aveva piantato, dichiarandosi pronta a servirlo dovunque, foss'anche in una grotta, tranne che in quella povera casa infamata da quei signori là.
E non gli era riuscito di trovare in tutto il paese un'altra serva o un servo che fosse, i quali avessero il coraggio di stare con lui.
Ecco il bel servizio che gli avevano reso quegli impostori! E una casa perduta, come andata in rovina!
Ma ora egli avrebbe dimostrato a tutto il paese che il tribunale, condannando alle spese e al risarcimento dei danni quegli imbecilli, gli aveva reso giustizia.
Là, egli solo! Voleva vederli in faccia questi signori spiriti!
E sghignazzava.
VI
La casa sorgeva nel quartiere piú alto della città, in cima al colle.
La città aveva lassú una porta, il cui nome arabo, divenuto stranissimo nella pronunzia popolare: Bibirría, voleva dire Porta dei Venti.
Fuori di questa porta era un largo spiazzo sterrato; e qui sorgeva solitaria la casa del Granella.
Dirimpetto aveva soltanto un fondaco abbandonato, il cui portone imporrito e sgangherato non riusciva piú a chiudersi bene, e dove solo di tanto in tanto qualche carrettiere s'avventurava a passar la notte a guardia del carro e della mula.
Un solo lampioncino a petrolio stenebrava a mala pena, nelle notti senza luna, quello spiazzo sterrato.
Ma, a due passi, di qua dalla porta, il quartiere era popolatissimo, oppresso anzi di troppe abitazioni.
La solitudine della casa del Granella non era dunque poi tanta, e appariva triste (piú che triste, ora, paurosa) soltanto di notte.
Di giorno, poteva essere invidiata da tutti coloro che abitavano in quelle case ammucchiate.
Invidiata la solitudine, e anche la casa per se stessa, non solo per la libertà della vista e dell'aria, ma anche per il modo com'era fabbricata, per l'agiatezza e i comodi che offriva, a molto minor prezzo di quelle altre, che non ne avevano né punto né poco.
Dopo l'abbandono del Piccirilli, il Granella l'aveva rimessa tutta a nuovo; carte da parato nuove; pavimenti nuovi, di mattoni di Valenza; ridipinti i soffitti; rinverniciati gli usci, le finestre, i balconi e le persiane.
Invano! Eran venuti tanti a visitarla, per curiosità; nessuno aveva voluto prenderla in affitto.
Ammirandola, cosí pulita, cosí piena d'aria e di luce, pensando a tutte le spese fatte, quasi quasi il Granella piangeva dalla rabbia e dal dolore.
Ora egli vi fece trasportare un letto, un cassettone, un lavamano e alcune seggiole, che allogò in una delle tante camere vuote; e, venuta la sera, dopo aver fatto il giro del quartiere per far vedere a tutti che manteneva la parola, andò a dormire solo in quella sua povera casa infamata.
Gli abitanti del quartiere notarono che s'era armato di ben due pistole.
E perché?
Se la casa fosse stata minacciata dai ladri, eh, quelle armi avrebbero potuto servirgli, ed egli avrebbe potuto dire che se le portava per prudenza.
Ma contro gli spiriti, caso mai, a che gli sarebbero servite? Uhm!
Aveva tanto riso, là, in tribunale, che ancora nel faccione sanguigno aveva l'impronta di quelle risa.
In fondo in fondo, però...
ecco, una specie di vellicazione irritante allo stomaco se la sentiva, per tutti quei discorsi che si erano fatti, per tutte quelle chiacchiere dell'avvocato Zummo.
Uh, quanta gente, anche gente per bene, spregiudicata, che in presenza sua aveva dichiarato piú volte di non credere a simili fandonie, ora, prendendo ardire dalla fervida affermazione di fede dell'avvocato Zummo e dall'autorità dei nomi citati e dalle prove documentate, non s'era messa di punto in bianco a riconoscere che...
sí, qualche cosa di vero infine poteva esserci, doveva esserci, in quelle esperienze...
(ecco, esperienze ora, non piú fandonie!).
Ma che piú? Uno degli stessi giudici, dopo la sentenza, uscendo dal tribunale, s'era avvicinato all'avvocato Zummo che aveva ancora un diavolo per capello, e - sissignori - aveva ammesso anche lui che non pochi fatti riferiti in certi giornali, col presidio di insospettabili testimonianze di scienziati famosi, lo avevano scosso, sicuro! E aveva narrato per giunta che una sua sorella, maritata a Roma, fin da ragazza, una o due volte l'anno, di pieno giorno, trovandosi sola, era visitata, com'ella asseriva, da un certo ometto rosso misterioso, che le confidava tante cose e le recava finanche doni curiosi...
Figurarsi Zummo, a una tale dichiarazione, dopo la sentenza contraria! E allora quel giudice imbecille s'era stretto nelle spalle e gli aveva detto:
- Ma, capirà, caro avvocato, allo stato delle cose...
Insomma, tutta la cittadinanza era rimasta profondamente scossa dalle affermazioni e dalle rivelazioni di Zummo.
E Granella ora si sentiva solo: solo e stizzito, come se tutti lo avessero abbandonato, vigliaccamente.
La vista dello sterrato deserto, dopo il quale l'alto colle su cui sorge la città strapiomba in ripidissimo pendio su un'ampia vallata, con quell'unico lampioncino, la cui fiammella vacillava come impaurita dalla tenebra densa che saliva dalla valle, non era fatta certamente per rincorare un uomo dalla fantasia un po' alterata.
Né poté rincorarlo poi di piú il lume d'una sola candela stearica, la quale - chi sa perché - friggeva, ardendo, come se qualcuno vi soffiasse sú, per spegnerla.
(Non s'accorgeva Granella che aveva un ansito da cavallo, e che soffiava lui, con le nari, su la candela.)
Attraversando le molte stanze vuote, silenziose, rintronanti, per entrare in quella nella quale aveva allogato i pochi mobili, tenne fisso lo sguardo su la fiamma tremolante riparata con una mano, per non veder l'ombra del proprio corpo mostruosamente ingrandita, fuggente lungo le pareti e sul pavimento.
Il letto, le seggiole, il cassettone, il lavamano gli parvero come sperduti in quella camera rimessa a nuovo.
Posò la candela sul cassettone, vietandosi di allungar lo sguardo all'uscio, oltre al quale le altre camere vuote eran rimaste buje.
Il cuore gli batteva forte.
Era tutto in un bagno di sudore.
Che fare adesso? Prima di tutto, chiudere quell'uscio e metterci il paletto.
Sí, perché sempre, per abitudine, prima d'andare a letto, egli si chiudeva cosí, in camera.
È vero che, di là, adesso, non c'era nessuno, ma...
l'abitudine, ecco! E perché in tanto aveva ripreso in mano la candela per andare a chiudere quell'uscio nella stessa stanza? Ah...
già, distratto!...
Non sarebbe stato bene, ora, aprire un tantino il balcone? Auff! si soffocava dal caldo, là dentro...
E poi, c'era ancora un tanfo di vernice...
Sí sí, un tantino, il balcone.
E nel mentre che la camera prendeva un po' d'aria, egli avrebbe rifatto il letto con la biancheria che s'era portata.
Cosí fece.
Ma appena steso il primo lenzuolo su le materasse, gli parve di sentire come un picchio all'uscio.
I capelli gli si drizzarono su la fronte, un brivido gli spaccò le reni, come una rasojata a tradimento.
Forse il pomo della lettiera di ferro aveva urtato contro la parete? Attese un po', col cuore in tumulto.
Silenzio! Ma gli parve misteriosamente animato, quel silenzio...
Granella raccolse tutte le forze, aggrottò le ciglia, cavò dalla cintola una delle pistole, riprese in mano la candela, riaprí l'uscio e, coi capelli che gli fremevano sul capo, gridò:
- Chi è là?
Rimbombò cupamente il vocione nelle vuote camere.
E quel rimbombo fece indietreggiare il Granella.
Ma subito egli si riprese; batté un piede; avanzò il braccio con la pistola impugnata.
Attese un tratto, poi si mise a ispezionare dalla soglia quella camera accanto.
C'era solamente una scala, in quella camera, appoggiata alla parete di contro: la scala di cui s'erano serviti gli operai per riattaccar la carta da parato nelle stanze.
Nient'altro.
Ma sí, via, non ci poteva esser dubbio: il pomo della lettiera aveva urtato contro la parete.
E Granella rientrò nella camera, ma con le membra d'un subito rilassate e appesantite cosí, che non poté piú per il momento rimettersi a rifare il letto.
Prese una seggiola e andò a sedere al balcone, al fresco.
- Zrí!
Accidenti al pipistrello! Ma riconobbe subito, eh, che quello era uno strido di pipistrello attirato dal lume della candela che ardeva nella camera.
E rise Granella della paura che, questa volta, non aveva avuto, e alzò gli occhi per discerner nel bujo lo svolazzío del pipistrello.
In quel mentre, gli giunse all'orecchio dalla camera uno scricchiolío.
Ma riconobbe subito ugualmente che quello scricchiolío era della carta appiccicata di fresco alle pareti, e ci si divertí un mondo! Ah, erano uno spasso gli spiriti, a quella maniera...
Se non che, nel voltarsi, cosí sorridente, a guardar dentro la camera, vide...
- non comprese bene, che fosse, in prima: balzò in piedi, esterrefatto; s'afferrò, rinculando, alla ringhiera del balcone.
Una lingua spropositata, bianca, s'allungava silenziosamente lungo il pavimento, dall'uscio dell'altra camera, rimasto aperto!
Maledetto, maledetto, maledetto! un rotolo di carta da parato, un rotolo di carta da parato che gli operaj forse avevano lasciato lí, in capo a quella scala...
Ma chi lo aveva fatto precipitare di là e poi scivolare cosí, svolgendosi, lungo il pavimento di due stanze, imbroccando perfettamente l'uscio aperto?
Granella non poté piú reggere.
Rientrò con la sedia; richiuse di furia il balcone; prese il cappello, la candela, e scappò via, giú per la scala.
Aperto pian piano il portone, guardò nello sterrato.
Nessuno! Tirò a sé il portone e, rasentando il muro della casa, sgattajolò per il viottolo fuori delle mura al bujo.
Che doveva perderci la salute, lui, per amor della casa? Fantasia alterata, sí; non era altro...
dopo tutte quelle chiacchiere...
Gli avrebbe fatto bene passare una notte all'aperto, con quel caldo.
La notte, del resto, era brevissima.
All'alba, sarebbe rincasato.
Di giorno, con tutte le finestre aperte, non avrebbe avuto piú, di certo, quella sciocchissima paura; e, venendo di nuovo la sera, avendo già preso confidenza con la casa, sarebbe stato tranquillo, senza dubbio, che diamine! Aveva fatto male, ecco, ad andarci a dormire, cosí, in prima, per una bravata.
Domani sera...
Credeva il Granella che nessuno si fosse accorto della sua fuga.
Ma in quel fondaco dirimpetto alla casa, un carrettiere era ricoverato quella sera, che lo vide uscire con tanta paura e tanta cautela, e lo vide poi rientrare ai primi albori.
Impressionato del fatto e di quei modi, costui ne parlò nel vicinato con alcuni che, il giorno avanti, erano andati a testimoniare in favore dei Piccirilli.
E questi testimoni allora si recarono in gran segreto dall'avvocato Zummo ad annunziargli la fuga del Granella spaventato.
Zummò accolse la notizia con esultanza.
- Lo avevo previsto! - gridò loro, con gli occhi che gli schizzavano fiamme.
- Vi giuro, signori miei, che lo avevo previsto! E ci contavo.
Farò appellare i Piccirilli, e mi avvarrò di questa testimonianza dello stesso Granella! A noi, adesso! Tutti d'accordo, ohé, signori miei!
Complottò subito, per quella notte stessa, l'agguato.
Cinque o sei, con lui, cinque o sei: non si doveva essere in piú! Tutto stava a cacciarsi in quel fondaco, senza farsi scorgere dal Granella.
E zitti, per carità! Non una parola con nessuno, durante tutta la giornata.
- Giurate!
- Giuriamo!
Piú viva soddisfazione di quella non poteva dare a Zummo l'esercizio della sua professione d'avvocato! Quella notte stessa, poco dopo le undici, egli sorprese il Granella che usciva scalzo dal portone della sua casa, proprio scalzo, quella notte, in maniche di camicia, con le scarpe e la giacca in una mano, mentre con l'altra si reggeva su la pancia i calzoni che, sopraffatto dal terrore, non era riuscito ad abbottonarsi.
Gli balzò addosso, dall'ombra, come una tigre, gridando:
- Buon passeggio, Granella!
Il pover'uomo, alle risa sgangherate degli altri appostati, si lasciò cader le scarpe di mano, prima una e poi l'altra; e restò, con le spalle al muro, avvilito, basito addirittura.
- Ci credi ora, imbecille, all'anima immortale? - gli ruggí Zummo, scrollandolo per il petto.
- La giustizia cieca ti ha
...
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