LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 3
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Lí per terra, quell'immagine già un po' sbiadita apparve piú che mai malinconica, come se comprendesse che non si sarebbe rialzata mai piú.
Ma si chinò a raccoglierla il Pogliani, cavallerescamente.
- Grazie, - gli disse la signorina.
- Ma io adesso mi servirò del suo disegno, sa? Non lo guarderò piú, questo brutto ritratto.
E d'improvviso, levando gli occhi, le sembrò che la stanza fosse piú luminosa.
Come se quello scatto d'ammirazione le avesse a un tratto snebbiato il petto da tanto tempo oppresso, aspirò con ebbrezza, bevve con l'anima quella luce ilare viva, che entrava dall'ampia finestra aperta all'incantevole spettacolo della magnifica villa avvolta nel fascino primaverile.
Fu un attimo.
La signorina Consalvi non poté spiegarsi che cosa veramente fosse avvenuto in lei.
Ebbe l'impressione improvvisa di sentirsi come nuova fra tutte quelle cose nuove attorno.
Nuova e libera; senza piú l'incubo che l'aveva soffocata fino a poc'anzi.
Un alito, qualche cosa era entrata con impeto da quella finestra a sommuovere tumultuosamente in lei tutti i sentimenti, a infondere quasi un brillío di vita in tutti quegli oggetti nuovi, a cui ella aveva voluto appunto negar la vita, lasciandoli intatti lí, come a vegliare con lei la morte d'un sogno.
E, udendo il giovane elegantissimo sculture con dolce voce lodare la bellezza di quella vista e della casa, conversando con la madre che lo invitava a veder le altre stanze, seguí l'uno e l'altra con uno strano turbamento, come se quel giovine, quell'estraneo, stesse davvero per penetrare in quel suo sogno morto, per rianimarlo.
Fu cosí forte questa nuova impressione, che non poté varcar la soglia della camera da letto; e vedendo il giovine e la madre scambiarsi lí un mesto sguardo di intelligenza, non poté piú reggere; scoppiò in singhiozzi.
E pianse, sí, pianse ancora per la stessa cagione per cui tante altre volte aveva pianto; ma avvertí confusamente che, tuttavia, quel pianto era diverso, che il suono di quei suoi singhiozzi non le destava dentro l'eco del dolore antico, le immagini che prima le si presentavano.
E meglio lo avvertí, allorché la madre accorsa prese a confortarla come tant'altre volte la aveva confortata, usando le stesse parole, le stesse esortazioni.
Non poté tollerarle; fece un violento sforzo su se stessa; smise di piangere; e fu grata al giovine che, per distrarla, la pregava di fargli vedere la cartella dei disegni scorta lí su una sedia a libriccino.
Lodi, lodi misurate e sincere, e appunti, osservazioni, domande, che la indussero a spiegare, a discutere; e infine un'esortazione calda a studiare, a seguir con fervore quella sua disposizione all'arte, veramente non comune.
Sarebbe stato un peccato! un vero peccato! Non s'era mai provata a trattare i colori? Mai, mai? Perché? Oh, non ci sarebbe mica voluto molto con quella preparazione, con quella passione...
Costantino Pogliani si profferse d'iniziarla; la signorina Consalvi accettò; e le lezioni cominciarono il giorno appresso, lí, nella casa nuova, che invitava ed attendeva.
Non piú di due mesi dopo, nello studio del Pogliani, ingombro già d'un colossale monumento funerario tutto abbozzato alla brava, Ciro Colli, sdrajato sul canapè col vecchio camice di tela stretto alle gambe, fumava la pipa e teneva uno strano discorso allo scheletro, fissato diritto su la predellina nera, che s'era fatto prestare per modello da un suo amico dottore.
Gli aveva posato un po' a sghembo sul teschio il suo berretto di carta; e lo scheletro pareva un fantaccino su l'attenti, ad ascoltar la lezione che Ciro Colli, scultore-caporale, tra uno sbuffo e l'altro di fumo gl'impartiva:
- E tu perché te ne sei andato a caccia? Vedi come ti sei conciato, caro mio? Brutto...
le gambe secche...
tutto secco...
Diciamo la verità, ti pare che codesto matrimonio si possa combinare? La vita, caro...
guardala là, ma eh! che tocco di figliolona senza risparmio m'è uscita dalle mani! Ti puoi sul serio lusingare che quella lí ti voglia sposare? Ti s'è accostata, timida e dimessa; lagrime giú a fontana...
ma mica per ricevere l'anello nuziale...
levatelo dal capo! Spèndola, caro, spèndola giú la borsa...
Gliel'hai data? E ora che vuoi da me? Inutile dire, se me lo credevo! Povero mondo e chi ci crede! S'è messa a studiar pittura, la Vita, e il suo maestro sai chi è? Costantino Pogliani.
Scherzo che passa la parte, diciamo la verità.
Se fossi in te, caro mio, lo sfiderei.
Hai sentito stamane? Ordine positivo: non vuole, mi pro-i-bi-sce assolutamente che io la faccia nuda.
Eppure lui, per quanto somaro, scultore è, e sa bene che per vestirla bisogna prima farla nuda...
Ma te lo spiego io il fatto com'è: non vuole che si veda su quel nudo là meraviglioso il volto della sua signorina...
è salito lassú, hai visto? su tutte le furie, e con due colpi di stecca, taf! taf! me l'ha tutto guastato...
sai dirmi perché, fantaccino mio? Gli ho gridato: "Lascia! Te la vesto subito! Te la vesto!".
Ma che vestire! Nuda la vogliono ora...
la Vita nuda, nuda e cruda com'è, caro mio! sono tornati al mio primo disegno, al simbolo: via il ritratto! Tu che ghermisci, bello mio, e lei che non ne vuol sapere...
Ma perché te ne sei andato a caccia? me lo dici?
LA TOCCATINA
I
Col cappellaccio bianco buttato sulla nuca, le cui tese parevano una spera attorno al faccione rosso come una palla di formaggio d'Olanda, Cristoforo Golisch s'arrestò in mezzo alla via con le gambe aperte un po' curve per il peso del corpo gigantesco; alzò le braccia; gridò:
- Beniamino!
Alto quasi quanto lui, ma secco e tentennante come una canna, gli veniva incontro pian piano, con gli occhi stranamente attoniti nella squallida faccia, un uomo sui cinquant'anni, appoggiato a un bastone dalla grossa ghiera di gomma.
Strascicava a stento la gamba sinistra.
- Beniamino! - ripeté il Golisch; e questa volta la voce espresse, oltre la sorpresa, il dolore di ritrovare in quello stato, dopo tanti anni, l'amico.
Beniamino Lenzi batté piú volte le palpebre: gli occhi gli rimasero attoniti; vi passò solamente come un velo di pianto, senza però che i lineamenti del volto si scomponessero minimamente.
Sotto i baffi già grigi le labbra, un po' storte, si spiccicarono e lavorarono un pezzo con la lingua annodata a pronunziare qualche parola:
- O...
oa...
oa sto meo...
cammío..
- Ah bravo...
- fece il Golisch, agghiacciato dall'impressione di non aver piú dinanzi un uomo, Beniamino Lenzi, qual egli lo aveva conosciuto; ma quasi un ragazzo ormai, un povero ragazzo che si dovesse pietosamente ingannare.
E gli si mise accanto e si sforzò di camminare col passo di lui.
(Ah, quel piede che non si spiccicava piú da terra e strisciava, quasi non potesse sottrarsi a una forza che lo tirava di sotto!)
Cercando di dissimulare alla meglio la pena, la costernazione strana che a mano a mano lo vinceva nel vedersi accanto quell'uomo toccato dalla morte, quasi morto per metà e cangiato, cominciò a domandargli dove fosse stato tutto quel tempo, da che s'era allontanato da Roma; che avesse fatto; quando fosse ritornato.
Beniamino Lenzi gli rispose con parole smozzicate quasi inintelligibili, che lasciarono il Golisch nel dubbio che le sue domande non fossero state comprese.
Solo le pàlpebre, abbassandosi frequentemente su gli occhi, esprimevano lo stento e la pena, e pareva che volessero far perdere allo sguardo quel teso, duro, strano attonimento.
Ma non ci riuscivano.
La morte, passando e toccando, aveva fissato cosí la maschera di quell'uomo.
Egli doveva aspettare con quel volto, con quegli occhi, con quell'aria di spaurita sospensione, ch'ella ripassasse e lo ritoccasse un tantino piú forte per renderlo immobile del tutto e per sempre.
- Che spasso! - fischiò tra i denti Cristoforo Golisch.
E lanciò di qua e di là occhiatacce alla gente che si voltava e si fermava a mirar col volto atteggiato di compassione quel pover'uomo accidentato.
Una sorda rabbia prese a bollirgli dentro.
Come camminava svelta la gente per via! svelta di collo, svelta di braccia, svelta di gambe...
E lui stesso! Era padrone, lui, di tutti i suoi movimenti; e si sentiva cosí forte...
Strinse un pugno.
Perdio! Sentí come sarebbe stato poderoso a calarlo bene scolpito su la schiena di qualcuno.
Ma perché? Non sapeva...
Lo irritava la gente, lo irritavano in special modo i giovani che si voltavano a guardare il Lenzi.
Cavò dalla tasca un grosso fazzoletto di cotone turchino e si asciugò il sudore che gli grondava dal faccione affocato.
- Beniamino, dove vai adesso?
Il Lenzi si era fermato, aveva appoggiata la mano illesa a un lampione e pareva lo carezzasse, guardandolo amorosamente.
Biascicò:
- Da dottoe...
Esecíio de piee.
E si provò ad alzare il piede colpito.
- Esercizio? - disse il Golisch.
- Ti eserciti il piede?
- Piee, ripeté il Lenzi.
- Bravo! - esclamò di nuovo il Golisch.
Gli venne la tentazione d'afferrargli quel piede, stringerglielo, prendere per le braccia l'amico e dargli un tremendo scrollone, per scomporlo da quell'orribile immobilità.
Non sapeva, non poteva vederselo davanti, ridotto in quello stato.
Eccolo qua, il compagno delle antiche scapataggini, nei begli anni della gioventú e poi nelle ore d'ozio, ogni sera, scapoli com'eran rimasti entrambi.
Un bel giorno, una nuova via s'era aperta innanzi all'amico, il quale s'era incamminato per essa, svelto anche lui, allora, - oh tanto! - svelto e animoso.
Sissignore! Lotte, fatiche, speranze; e poi, tutt'a un tratto: eccolo qua, com'era ritornato...
Ah, che buffonata! che buffonata!
Avrebbe voluto parlargli di tante cose, e non sapeva.
Le domande gli s'affollavano alle labbra e gli morivano assiderate.
- Ti ricordi, - avrebbe voluto dirgli, - delle nostre famose scommesse alla Fiaschetteria Toscana? E di Nadina, ti ricordi? L'ho ancora con me, sai! Tu me l'hai appioppata, birbaccione, quando partisti da Roma.
Cara figliuola, quanto bene ti voleva...
Ti pensa ancora, sai? mi parla ancora di te, qualche volta.
Andrò a trovarla questa sera stessa e le dirò che t'ho riveduto, poveretto...
È proprio inutile ch'io ti domandi: tu non ricordi piú nulla; tu forse non mi riconosci piú, o mi riconosci appena.
Mentre il Golisch pensava cosí, con gli occhi gonfi di lacrime, Beniamino Lenzi seguitava a guardare amorosamente il lampione e pian piano con le dita gli levava la polvere.
Quel lampione segnava per lui una delle tre tappe della passeggiata giornaliera.
Strascinandosi per via, non vedeva nessuno, non pensava a niente; mentre la vita gli turbinava intorno, agitata da tante passioni, premuta da tante cure, egli tendeva con tutte le forze che gli erano rimaste a quel lampione, prima; poi, piú giú, alla vetrina d'un bazar, che segnava la seconda tappa; e qui si tratteneva piú a lungo a contemplare con gioja infantile una scimmietta di porcellana sospesa a un'altalena dai cordoncini di seta rossa.
La terza sosta era alla ringhiera del giardinetto in fondo alla via, donde poi si recava alla casa del medico.
Nel cortile di quella casa, tra i vasi di fiori e i cassoni d'aranci, di lauro e di bambú, eran disposti parecchi attrezzi di ginnastica, tra i quali alcune pertiche elastiche, fermate orizzontalmente in cima a certi pali tozzi e solidi; pertiche da tornitore, dalla cui estremità pendeva una corda, la quale, dato un giro attorno a un rocchetto, scendeva ad annodarsi a una leva di legno, fermata per un capo al suolo da una forcella.
Beniamino Lenzi poneva il piede colpito su questa leva e spingeva; la pertica in alto molleggiava e brandiva, e il rocchetto, sostenuto orizzontalmente da due toppi, girava per via della corda.
Ogni giorno, mezz'ora di questo esercizio.
E in capo a pochi mesi, sarebbe guarito.
Oh, non c'era alcun dubbio! Guarito del tutto...
Dopo aver assistito per un pezzetto a questo grazioso spettacolo, Cristoforo Golisch uscí dal cortile a gran passi, sbuffando come un cavallo, dimenando le braccia, furibondo.
Pareva che la morte avesse fatto a lui e non al povero Lenzi lo scherzo di quella toccatina lí, al cervello.
N'era rivoltato.
Con gli occhi torvi, i denti serrati, parlava tra sé e gesticolava per via, come un matto.
- Ah, sí? - diceva - Ti tocco e ti lascio? No, ah, no perdio! Io non mi riduco in quello stato! Ti faccio tornare per forza, io! Mi passeggi accanto e ti diverti a vedere come mi hai conciato? a vedermi strascicare un piede? a sentirmi biascicare? Mi rubi mezzo alfabeto, mi fai dire oa e cao, e ridi? No, caa! Vieni qua! Mi tio una pistoettata, com'è veo Dio! Questo spasso io non te lo do! Mi sparo, m'ammazzo com'è vero Dio! Questo spasso non te lo do.
Tutta la sera e poi il giorno appresso e per parecchi giorni di fila non pensò ad altro, non parlò d'altro, a casa, per via, al caffè, alla fiaschetteria, quasi se ne fosse fatta una fissazione.
Domandava a tutti:
- Avete veduto Beniamino Lenzi?
E se qualcuno gli rispondeva di no:
- Colpito! Morto per metà! Rimbambito...
Come non s'ammazza? Se io fossi medico, lo ammazzerei! Per carità di prossimo...
Gli fanno fare il tornio nel cortile...
e lui crede che guarirà! Beniamino Lenzi, capite? Beniamino Lenzi che s'è battuto tre volte in duello, dopo aver fatto con me la campagna del '66, ragazzotto...
Perdio, e quando mai l'abbiamo calcolata noi, questa pellaccia? La vita ha prezzo per quello che ti dà...
Dico bene? Non ci penserei neanche due volte...
Gli amici, alla fiaschetteria, alla fine non ne poterono piú.
- M'ammazzo...
m'ammazzo...
E ammazzati una buona volta e falla finita!
Cristoforo Golisch si scosse, protese le mani:
- No; io dico, se mai...
II
Circa un mese dopo, mentre desinava con la sorella vedova e il nipote, Cristoforo Golisch improvvisamente stravolse gli occhi, storse la bocca, quasi per uno sbadiglio mancato; e il capo gli cadde sul petto e la faccia sul piatto.
Una toccatina, lieve lieve, anche lui.
Perdette lí per lí la parola e mezzo lato del corpo: il destro.
Cristoforo Golisch era nato in Italia, da genitori tedeschi; non era mai stato in Germania, e parlava romanesco, come un romano di Roma.
Da un pezzo gli amici gli avevano italianizzato anche il cognome, chiamandolo Golicci, e gl'intimi anche Golaccia, in considerazione del ventre e del formidabile appetito.
Solo con la sorella egli soleva di tanto in tanto scambiare qualche parola in tedesco, perché gli altri non intendessero.
Ebbene, riacquistato a stento, in capo a poche ore, l'uso della parola, Cristoforo Golisch offrí al medico un curioso fenomeno da studiare; non sapeva piú parlare in italiano: parlava tedesco.
Aprendo gli occhi insanguati, pieni di paura, contraendo quasi in un mezzo sorriso la sola guancia sinistra e aprendo alquanto la bocca da questo lato, dopo essersi piú volte provato a snodar la lingua inceppata, alzò la mano illesa verso il capo e balbettò, rivolto al medico:
- Ih...
ihr...
wie ein Faustschlag...
Il medico non comprese, e bisognò che la sorella, mezzo istupidita dall'improvvisa sciagura, gli facesse da interprete.
Era divenuto tedesco a un tratto, Cristoforo Golisch: cioè, un altro; perché tedesco veramente, lui, non era mai stato.
Soffiata via, come niente, dal suo cervello ogni memoria della lingua italiana, anzi tutta quanta l'italianità sua.
Il medico si provò a dare una spiegazione scientifica del fenomeno: dichiarò il male: emiplegia; prescrisse la cura.
Ma la sorella, spaventata, lo chiamò in disparte e gli riferí i propositi violenti manifestati dal fratello pochi giorni innanzi, avendo veduto un amico colpito da quello stesso male.
- Ah, signor dottore, da un mese non parlava piú d'altro; quasi se la fosse sentita pendere sul capo la condanna! S'ammazzerà...
Tiene la rivoltella lí, nel cassetto del comodino...
Ho tanta paura...
Il medico sorrise pietosamente.
- Non ne abbia, non ne abbia, signora mia! Gli daremo a intendere che è stato un semplice disturbo digestivo, e vedrà che...
- Ma che, dottore!
- Le assicuro che lo crederà.
Del resto, il colpo, per fortuna, non è stato molto grave.
Ho fiducia che tra pochi giorni riacquisterà l'uso degli arti offesi, se non bene del tutto, almeno da potersene servire pian piano...
e, col tempo, chi sa! Certo è stato per lui un terribile avviso.
Bisognerà cangiar vita e tenersi a un regime scrupolosissimo per allontanare quanto piú sarà possibile un nuovo assalto del male.
La sorella abbassò le pàlpebre per chiudere e nascondere negli occhi le lagrime.
Non fidandosi però dell'assicurazione del medico, appena questi andò via, concertò col figliuolo e con la serva il modo di portar via dal cassetto del comodino la rivoltella: lei e la serva si sarebbero accostate alla sponda del letto con la scusa di rialzare un tantino le materasse, e nel frattempo - ma, attento per carità! - il ragazzo avrebbe aperto il cassetto senza far rumore e...
- attento! - via, l'arma.
Cosí fecero.
E di questa sua precauzione la sorella si lodò molto, non parendole naturale, di lí a poco, la facilità con cui il fratello accolse la spiegazione del male, suggerita dal medico: disturbo digestivo.
- Ja...
ja...
es ist doch...
Da quattro giorni se lo sentiva ingombro lo stomaco.
- Unver...
Unverdaulichkeit...
ja...
ja...
Ma possibile, - pensava la sorella, - ch'egli non avverta la paralisi di mezzo lato del corpo? possibile c'egli, già prevenuto dal caso recente del Lenzi, creda che una semplice indigestione possa aver fatto un tale effetto?
Fin dalla prima veglia cominciò a suggerirgli amorosamente, come a un bambino, le parole della lingua dimenticata; gli domandò perché non parlasse piú italiano.
Egli la guardò imbalordito.
Non s'era accorto peranche di parlare in tedesco: tutt'a un tratto gli era venuto di parlar cosí, né credeva che potesse parlare altrimenti.
Si provò tuttavia a ripetere le parole italiane, facendo eco alla sorella.
Ma le pronunziava ora con voce cangiata e con accento straniero, proprio come un tedesco che si sforzasse di parlare italiano.
Chiamava Giovannino, il nipote, Ciofaío.
E il nipote - scimunito! - ne rideva, come se lo zio lo chiamasse cosí per ischerzo.
Tre giorni dopo, quando alla Fiaschetteria Toscana si seppe del malore improvviso del Golisch, gli amici accorsi a visitarlo poterono avere un saggio pietoso di quella sua nuova lingua.
Ma egli non aveva punto coscienza della curiosissima impressione che faceva, parlando a quel modo.
Pareva un naufrago che si arrabattasse disperatamente per tenersi a galla, dopo essere stato tuffato e sommerso per un attimo eterno nella vita oscura, a lui ignota, della sua gente.
E da quel tuffo, ecco, era balzato fuori un altro; ridivenuto bambino, a quarant'otto anni, e straniero.
E contentissimo era.
Sí, perché proprio in quel giorno aveva cominciato a poter muovere appena il braccio e la mano.
La gamba no, ancora.
Ma sentiva che forse il giorno dopo, con uno sforzo, sarebbe riuscito a muovere anche quella.
Ci si provava anche adesso, ci si provava...
e, no eh? non scorgevano alcun movimento gli amici?
- Tomai...
tomai...
- Ma sí, domani, sicuro!
A uno a uno gli amici, prima d'andar via - quantunque lo spettacolo offerto dal Golisch non desse piú luogo ad alcun timore - stimarono prudente raccomandare alla sorella la sorveglianza.
- Da un momento all'altro, non si sa mai...
Può darsi che la coscienza gli si ridesti, e...
Ciascuno pensava, ora, come già aveva pensato il Golisch, da sano: che l'unica, cioè, era di finirsi con una pistolettata per non restar cosí malvivo e sotto la minaccia terribile, inovviabile, d'un nuovo colpo da un momento all'altro.
Ma loro sí, adesso, lo pensavano: non piú il Golisch però.
L'allegrezza del Golisch, invece, quando - una ventina di giorni dopo - sorretto dalla sorella e dal nipote, poté muovere i primi passi per la camera!
Gli occhi, è vero, no, senza uno specchio non se li poteva vedere: attoniti, smarriti, come quelli di Beniamino Lenzi; ma della gamba sí, perbacco, avrebbe potuto accorgersi bene che la strascicava a stento...
Eppure, che allegrezza!
Si sentiva rinato.
Aveva di nuovo tutte le meraviglie d'un bambino, e anche le lagrime facili, come le hanno i bambini, per ogni nonnulla.
Da tutti gli oggetti della camera sentiva venirsi un conforto dolcissimo, familiare, non mai provato prima; e il pensiero ch'egli ora poteva andare co' suoi piedi fino a quegli oggetti, a carezzarli con le mani, lo inteneriva di gioja fino a piangerne.
Guardava dall'uscio gli oggetti delle altre stanze e si struggeva dal desiderio di recarsi a carezzare anche quelli.
Sí, via...
pian piano, pian piano, sorretto di qua e di là...
Poi volle fare a meno del braccio del nipote, e girò appoggiato alla sorella soltanto e col bastone nell'altra mano; poi, non piú sorretto da alcuno, col bastone soltanto; e finalmente volle dare una gran prova di forza:
- Oh...
oh...
guaddae, guaddae...
sea battoe...
E davvero, tenendo il bastone levato, mosse due o tre passi.
Ma dovettero accorrere con una seggiola per farlo subito sedere.
Gli era quasi scolata addosso tutta la carne, e pareva l'ombra di se stesso; pur non di meno, neanche il minimo dubbio in lui che il suo non fosse stato un disturbo digestivo; e, sedendo ora di nuovo a tavola con la sorella e il nipote, condannato a bere latte invece di vino, ripeteva per la millesima volta che s'era preso una bella paura:
- Una bea paua...
Se non che, la prima volta che poté uscir di casa, accompagnato dalla sorella, in gran segreto manifestò a questa il desiderio d'esser condotto alla casa del medico che curava Beniamino Lenzi.
Nel cortile di quella casa voleva esercitarsi il piede al tornio anche lui.
La sorella lo guardò, sbigottita.
Dunque egli sapeva?
- Di', vuoi andarci oggi stesso?
- Sí...
sí...
Nel cortile trovarono Beniamino Lenzi, già al tornio, puntuale.
- Beiamío! - chiamò il Golisch.
Beniamino Lenzi non mostrò affatto stupore nel riveder lí l'amico, conciato come lui: spiccicò le labbra sotto i baffi, contraendo la guancia destra; biascicò:
- Tu pue?
E seguitò a spingere la leva.
Due pertiche ora molleggiavano e brandivano, facendo girare i rocchetti con la corda.
Il giorno dopo Cristoforo Golisch, non volendo esser da meno del Lenzi che si recava al tornio da solo, rifiutò recisamente la scorta della sorella.
Questa, dapprima, ordinò al figliuolo di seguire lo zio a una certa distanza, senza farsi scorgere; poi, rassicurata, lo lasciò davvero andar solo.
E ogni giorno, adesso, alla stess'ora, i due colpiti si ritrovano per via e proseguono insieme facendo le stesse tappe: al lampione, prima; poi, piú giú, alla vetrina del bazar, a contemplare la scimmietta di porcellana sospesa all'altalena; in fine, alla ringhiera del giardinetto.
Oggi, intanto, a Cristoforo Golisch è saltata in mente un'idea curiosa; ed ecco, la confida al Lenzi.
Tutti e due, appoggiati al fido lampione, si guardano negli occhi e si provano a sorridere, contraendo l'uno la guancia destra, l'altro la sinistra.
Confabulano un pezzo, con quelle loro lingue torpide; poi il Golisch fa segno col bastone a un vetturino d'accostarsi.
Ajutati da questo, prima l'uno e poi l'altro, montano in vettura, e via, alla casa di Nadina in Piazza di Spagna.
Nel vedersi innanzi quei due fantasmi ansimanti, che non si reggono in piedi dopo l'enorme sforzo della salita, la povera Nadina resta sgomenta, a bocca aperta.
Non sa se debba piangere o ridere.
S'affretta a sostenerli, li trascina nel salotto, li pone a sedere accanto e si mette a sgridarli aspramente della pazzia commessa, come due ragazzini discoli, sfuggiti alla sorveglianza dell'ajo.
Beniamino Lenzi fa il greppo, e giú a piangere.
Il Golisch, invece, con molta serietà, accigliato, le vuole spiegare che si è inteso di farle una bella sorpresa.
- Una bea soppea...
(Bellino! Come parla adesso, il tedescaccio!)
- Ma sí, ma sí, grazie...
- dice subito Nadina.
- Bravi! Siete stati bravi davvero tutt'e due...
e m'avete fatto un gran piacere...
Io dicevo per voi...
venire fin qua, salire tutta questa scala...
Sú, sú Beniamino! Non piangere, caro...
Che cos'è? Coraggio, coraggio!
E prende a carezzarlo su le guance, con le belle mani lattee e paffutelle, inanellate.
- Che cos'è: che cos'è? Guardami!...
Tu non volevi venire, è vero? Ti ha condotto lui, questo discolaccio! Ma non farò nemmeno una carezza a lui...
Tu sei il mio buon Beniamino, il mio gran giovanottone sei...
Caro! caro!...
Suvvia, asciughiamo codeste lagrimucce...
Cosí...
cosí...
Guarda qua questa bella turchese: chi me l'ha regalata? chi l'ha regalata a Nadina sua? Ma questo mio bel vecchiaccio me l'ha regalata...
Toh, caro!
E gli posa un bacio su la fronte.
Poi si alza di scatto e rapidamente con le dita si porta via le lagrime dagli occhi.
- Che posso offrirvi?
Cristoforo Golisch, rimasto mortificato e ingrugnato, non vuole accettar nulla; Beniamino Lenzi accetta un biscottino e lo mangia accostando la bocca alla mano di Nadina che lo tiene tra le dita e finge di non volerglielo dare, scattando con brevi risatine:
- No...
no...
no...
Bellini tutt'e due, adesso, come ridono, come ridono a quello scherzo...
ACQUA AMARA
Poca gente, quella mattina, nel parco attorno alle Terme.
La stagione balneare era ormai per finire.
In due sediletti vicini, in un crocicchio sotto gli alti platani, stavano un giovanotto pallido, anzi giallo, magro da far pietà dentro l'abito nuovo, chiaro, le cui pieghe, per esser troppo ampio, ancora fresche della stiratura, cascavano tutte a zig-zag, e un omaccione su la cinquantina, con un abituccio di teletta tutto raggrinzito dove la pinguedine enorme non lo stirava fino a farlo scoppiare, e un vecchio panama sformato sul testone raso.
Reggevano entrambi per il manico i bicchieri ancor pieni della tepida e greve acqua alcalina presa or ora alla fonte.
L'uomo grasso, quasi intronato ancora dagli strepitosi ronfi che aveva dovuto tirar col naso durante la notte, socchiudeva di tanto in tanto nel faccione da padre abate satollo e pago gli occhi imbambolati dal sonno.
Il giovanotto magro, all'aria frizzante della mattina, sentiva freddo e aveva perfino qualche brivido.
Né l'uno né l'altro sapevano risolversi a bere e pareva che ciascuno aspettasse dall'altro l'esempio.
Alla fine, dopo il primo sorso, si guardarono coi volti contratti dalla medesima espressione di nausea.
- Il fegato, eh? - domandò piano, a un tratto, l'uomo grasso al giovinotto, riscotendosi.
- Colichette epatiche, eh? Lei ha moglie, mi figuro...
- No, perché? - domandò a sua volta il giovinotto con un penoso raggrinzamento di tutta la faccia, che voleva esser sorriso.
- Mi pareva, cosí all'aria...
- sospirò l'altro.
- Ma se non ha moglie, stia pur tranquillo: lei guarirà!
Il giovinotto tornò a sorridere come prima.
- Lei soffre forse di fegato? - domandò poi, argutamente.
- No, no, niente piú moglie, io! - s'affrettò a rispondere con serietà l'uomo grasso.
- Soffrivo di fegato; ma grazie a Dio, mi sono liberato della moglie; son guarito.
Vengo qua, da tredici anni ormai, per atto di gratitudine.
Scusi, quand'è arrivato lei?
- Ieri sera, alle sei, - disse il giovinotto.
- Ah, per questo! - esclamò l'altro, socchiudendo gli occhi e tentennando il testone.
- Se fosse arrivato di mattina, già mi conoscerebbe.
- Io...
la conoscerei?
- Ma sí, come mi conoscono tutti, qua.
Sono famoso! Guardi, alla Piazza dell'Arena, in tutti gli Alberghi, in tutte le Pensioni, al Circolo, al Caffè da Pedoca, in farmacia, da tredici anni a questa parte, stagione per stagione, non si parla che di me.
Io lo so e ne godo e ci vengo apposta.
Dov'è sceso lei? Da Rori? Bravo.
Stia pur sicuro che oggi, a tavola da Rori, le narreranno la mia storia.
Ci prendo avanti, se permette, e gliela narro io, filo filo.
Cosí dicendo, si tirò sú faticosamente dal suo sedile e andò a quello del giovinotto, che gli fece posto, con la faccetta gialla tutta strizzata per la contentezza.
- Prima di tutto, per intenderci, qua mi chiamano Il marito della dottoressa.
Cambiè mi chiamo.
Di nome, Bernardo.
Bernardone, perché sono grosso.
Beva.
Bevo anch'io.
Bevvero.
Fecero una nuova smorfia di disgusto, che vollero cangiar subito in un sorriso, guardandosi teneramente.
E Cambiè riprese:
- Lei è giovanissimo e patituccio sul serio.
Queste confidenze sviscerate che le farò, le potranno servire piú di quest'acquaccia qua, che è amara, ma, in compenso, non giova a nulla, creda pure.
Ce la danno a bere, in tutti i sensi, e noi la beviamo perché è cattiva.
Se fosse buona...
Ma no, basta: perché lei fa la cura e le conviene aver fiducia.
Deve sapere che sentivo dire matrimonio e, con rispetto parlando, mi si rompeva lo stomaco, proprio mi...
mi veniva di...
sissignore.
Vedevo un corteo nuziale? sapevo che un amico andava a nozze? Lo stesso effetto.
Ma che vuole da noi, sciagurati mortali? Spunta una macchiolina nel sole? un subisso di cataclismi.
Un re si alza con la lingua sporca? guerre e sterminii senza fine.
Un vulcano ci ha il singhiozzo? terremoti, catastrofi, un'ecatombe...
A Napoli, al tempo mio, ci scoppiò il colera: quel gran colera di circa vent'anni fa, di cui lei, se non si ricorda, avrà certo sentito parlare.
Mio padre, povero impiegato, con la bella fortuna che lo perseguitava, naturalmente si trovò a Napoli, l'anno del colera.
Io, che avevo già trent'anni e vi avevo trovato un buon collocamento, avevo preso a pigione un quartierino da scapolo, non molto lontano da casa mia.
Stavo in famiglia, e lí tenevo una ragazza che m'era piovuta come dal cielo.
Carlotta.
Si chiamava cosí.
Ed era figlia d'un...
non c'è niente di male, sa! professioni, - figlia d'uno strozzino.
Prete spogliato.
Era scappata di casa per certi litigi con la madraccia e un fratellino farabutto, che non starò a raccontarle.
Pareva bonina, lei; ed era forse, allora; ma capirà: amante, poco ci sofisticavo.
Scusi, è religioso lei? Cosí cosí.
Forse piú non che sí.
Come me.
Mia madre, invece, caro signore, religiosissima.
Povera donna, soffriva molto di quella mia relazione per lei peccaminosa.
Sapeva che quella ragazza, prima che mia, non era stata d'altri.
Scoppiato il colera, atterrita dalla grande moría e convinta fermamente che dovessimo tutti morire, io sopra tutti, ch'ero, secondo lei, in peccato mortale, per placare l'ira divina, pretese da me il sacrifizio che sposassi, almeno in chiesa solamente, quella ragazza.
Creda pure che non l'avrei mai fatto, se Carlotta non fosse stata colpita dal male.
Dovevo salvarle l'anima, almeno: l'avevo promesso a mia madre.
Corsi a chiamare un prete e la sposai.
Ma che fu? mano santa? miracolo? Pareva morta, guarí!
Mia madre, per spirito di carità, anzi di sacrifizio, non ostante la tremarella, aveva voluto assistere alla cerimonia, e poi rimanere lí presso al letto della colpita.
Sembrava che il colera fosse venuto a Napoli per me, per castigar me dal peccato mortale, e che dovesse passare con la guarigione di Carlotta, tanto impegno, tanto zelo mise mia madre a curarla.
Appena l'ebbe salvata, vedendo che lí, in quel quartierino, mancavano per la convalescente tutti i comodi, volle anche portarsela a casa, non ostante la mia opposizione.
Capirà bene che, entrata, Carlotta non ne uscí se non mia sposa legittima di lí a poco, appena cessata la moría.
E ribeviamo, caro signore!
Per fortuna, a Carlotta durante l'epidemia erano morti padre, madre e fratelli.
Fortuna e disgrazia, perché, unica superstite della famiglia, ereditò trentotto o quarantamila lire, frutto della nobile professione paterna.
Moglie e con la dote, che vide, signor mio? cambiò da un giorno all'altro, da cosí a cosí.
Ora senta.
Sarà che io mi trovo in corpo un certo spiritaccio...
come dire? fi...
filosofesco, che magari a lei potrà sembrare strambo; ma mi lasci dire.
Crede lei che ci siano due soli generi, il maschile e il femminile?
Nossignore.
La moglie è un genere a parte; come il marito, un genere a parte.
E, quanto ai generi, la donna, col matrimonio, ci guadagna sempre.
Avanza! Entra cioè a partecipar di tanto del genere mascolino, di quanto l'uomo, necessariamente, ne scapita molto, creda a me.
Se mi venisse la malinconia di comporre una grammatichetta ragionata come dico io, vorrei mettere per regola che si debba dire: il moglie; e, per conseguenza, la marito.
Lei ride? Ma per la moglie, caro signore, il marito non è piú un uomo.
Tanto vero, che non si cura piú di piacergli.
"Con te non c'è piú sugo, -pensa la moglie.
- Tu già mi conosci."
Ma pure, se il marito è cosí dabbenaccio da rinzelarsi, vedendola per esempio a letto come una diavola, coi capelli incartocciati, col viso impiastricciato, e via dicendo:
- Ma io lo faccio per te! - è capace di rispondergli lei.
- Per me?
- Sicuro.
Per non farti sfigurare.
Ti piacerebbe che la gente, vedendoci per via, dicesse: "Oh guarda un po' che moglie è andata a scegliersi quel pover'uomo"?
E il marito, che - gliel'assicuro - non è piú uomo, si sta zitto; quand'invece dovrebbe gridare:
- Ma me lo dico io da me, cara, che moglie sono andato a scegliermi, nel vederti cosí, adesso, accanto a me! Ah, tu mi ti mostri brutta per casa e a letto, perché gli altri poi, per via, possano esclamare: "Oh guarda che bella moglie ha quel pover'uomo"? E mi debbono invidiare per giunta? Ma grazie, grazie cara, di quest'invidia per me, che si traduce, naturalmente, in un desiderio di te.
Tu vuoi esser desiderata perché io sia invidiato? Quanto sei buona! Ma piú buono sono io che t'ho sposata.
E il dialogo potrebbe seguitare.
Perché c'è il caso, sa? che la moglie abbia anche l'impudenza incosciente di domandare al marito se, acconciata adesso e parata per uscire a passeggio, gli pare che stia bene.
Il marito dovrebbe risponderle:
- Ma sai, cara? i gusti son tanti.
A me, come a me, già te l'ho detto, codesti capelli pettinati cosí non mi garbano.
A chi vuoi piacere? Bisognerebbe che tu me lo dicessi, per saperti rispondere.
A nessuno? proprio a nessuno? Ma allora, benedetta te, nessuno per nessuno, cerca di piacere a tuo marito, che almeno è uno!
Caro signore, a una tale risposta la moglie guarderebbe il marito quasi per compassione, poi farebbe una spallucciata, come a dire:
- Ma tu che c'entri?
E avrebbe ragione.
Le donne non possono farne a meno: per istinto, vogliono piacere.
Han bisogno d'esser desiderate, le donne.
Ora, capirà, un marito non può piú desiderar la moglie che ha giorno e notte con sé.
Non può desiderarla, intendo com'ella vorrebbe essere desiderata.
Già, come la moglie nel marito non vede piú l'uomo, cosí l'uomo nella moglie, a lungo andare, non vede piú la donna.
L'uomo, piú filosofo per natura, ci passa sopra; la donna, invece, se ne offende; e perciò il marito le diventa presto increscioso e spesso insopportabile.
Essa deve fare il comodo suo, il marito no.
Ma qualunque cosa egli facesse, creda pure, non andrebbe mai bene per lei, perché l'amore, quel tale amore di cui ella ha bisogno, il marito, solamente perché marito, non può piú darglielo.
Piú che amore è una cert'aura di ammirazione di cui ella vuol sentirsi avviluppata.
Ora vada lei ad ammirarla per la casa coi diavoletti in capo, senza busto, in ciabatte, e oggi, poniamo, col mal di pancia e domani col mal di denti.
Quella cert'aura può spirar fuori, dagli occhi degli uomini che non sanno, e dei quali essa, senza parere, con arte sopraffina, ha voluto e saputo attirare e fermare gli sguardi per inebriarsene deliziosamente.
Se è una moglie onesta, questo le basta.
Le parlo adesso delle mogli oneste, io, intendiamoci, anzi delle intemerate addirittura.
Delle altre non c'è piú sugo a parlarne.
Mi consenta un'altra piccola riflessione.
Noi uomini abbiamo preso il vezzo di dire che la donna è un essere incomprensibile.
Signor mio, la donna, invece, è tal quale come noi, ma non può né mostrarlo, né dirlo, perché sa, prima di tutto, che la società non glielo consente, recando a colpa a lei quel che invece reputa naturale per l'uomo; e poi perché sa che non farebbe piacere agli uomini, se lo mostrasse e lo dicesse.
Ecco spiegato l'enigma.
Chi ha avuto come me la disgrazia d'intoppare in una moglie senza peli sulla lingua, lo sa bene.
E diamo ancora una bevutina.
Coraggio!
Non era cosí dapprima Carlotta.
Diventò cosí subito dopo il matrimonio, appena cioè si sent
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