LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 13
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E non gli era riuscito di trovare in tutto il paese un'altra serva o un servo che fosse, i quali avessero il coraggio di stare con lui.
Ecco il bel servizio che gli avevano reso quegli impostori! E una casa perduta, come andata in rovina!
Ma ora egli avrebbe dimostrato a tutto il paese che il tribunale, condannando alle spese e al risarcimento dei danni quegli imbecilli, gli aveva reso giustizia.
Là, egli solo! Voleva vederli in faccia questi signori spiriti!
E sghignazzava.
VI
La casa sorgeva nel quartiere piú alto della città, in cima al colle.
La città aveva lassú una porta, il cui nome arabo, divenuto stranissimo nella pronunzia popolare: Bibirría, voleva dire Porta dei Venti.
Fuori di questa porta era un largo spiazzo sterrato; e qui sorgeva solitaria la casa del Granella.
Dirimpetto aveva soltanto un fondaco abbandonato, il cui portone imporrito e sgangherato non riusciva piú a chiudersi bene, e dove solo di tanto in tanto qualche carrettiere s'avventurava a passar la notte a guardia del carro e della mula.
Un solo lampioncino a petrolio stenebrava a mala pena, nelle notti senza luna, quello spiazzo sterrato.
Ma, a due passi, di qua dalla porta, il quartiere era popolatissimo, oppresso anzi di troppe abitazioni.
La solitudine della casa del Granella non era dunque poi tanta, e appariva triste (piú che triste, ora, paurosa) soltanto di notte.
Di giorno, poteva essere invidiata da tutti coloro che abitavano in quelle case ammucchiate.
Invidiata la solitudine, e anche la casa per se stessa, non solo per la libertà della vista e dell'aria, ma anche per il modo com'era fabbricata, per l'agiatezza e i comodi che offriva, a molto minor prezzo di quelle altre, che non ne avevano né punto né poco.
Dopo l'abbandono del Piccirilli, il Granella l'aveva rimessa tutta a nuovo; carte da parato nuove; pavimenti nuovi, di mattoni di Valenza; ridipinti i soffitti; rinverniciati gli usci, le finestre, i balconi e le persiane.
Invano! Eran venuti tanti a visitarla, per curiosità; nessuno aveva voluto prenderla in affitto.
Ammirandola, cosí pulita, cosí piena d'aria e di luce, pensando a tutte le spese fatte, quasi quasi il Granella piangeva dalla rabbia e dal dolore.
Ora egli vi fece trasportare un letto, un cassettone, un lavamano e alcune seggiole, che allogò in una delle tante camere vuote; e, venuta la sera, dopo aver fatto il giro del quartiere per far vedere a tutti che manteneva la parola, andò a dormire solo in quella sua povera casa infamata.
Gli abitanti del quartiere notarono che s'era armato di ben due pistole.
E perché?
Se la casa fosse stata minacciata dai ladri, eh, quelle armi avrebbero potuto servirgli, ed egli avrebbe potuto dire che se le portava per prudenza.
Ma contro gli spiriti, caso mai, a che gli sarebbero servite? Uhm!
Aveva tanto riso, là, in tribunale, che ancora nel faccione sanguigno aveva l'impronta di quelle risa.
In fondo in fondo, però...
ecco, una specie di vellicazione irritante allo stomaco se la sentiva, per tutti quei discorsi che si erano fatti, per tutte quelle chiacchiere dell'avvocato Zummo.
Uh, quanta gente, anche gente per bene, spregiudicata, che in presenza sua aveva dichiarato piú volte di non credere a simili fandonie, ora, prendendo ardire dalla fervida affermazione di fede dell'avvocato Zummo e dall'autorità dei nomi citati e dalle prove documentate, non s'era messa di punto in bianco a riconoscere che...
sí, qualche cosa di vero infine poteva esserci, doveva esserci, in quelle esperienze...
(ecco, esperienze ora, non piú fandonie!).
Ma che piú? Uno degli stessi giudici, dopo la sentenza, uscendo dal tribunale, s'era avvicinato all'avvocato Zummo che aveva ancora un diavolo per capello, e - sissignori - aveva ammesso anche lui che non pochi fatti riferiti in certi giornali, col presidio di insospettabili testimonianze di scienziati famosi, lo avevano scosso, sicuro! E aveva narrato per giunta che una sua sorella, maritata a Roma, fin da ragazza, una o due volte l'anno, di pieno giorno, trovandosi sola, era visitata, com'ella asseriva, da un certo ometto rosso misterioso, che le confidava tante cose e le recava finanche doni curiosi...
Figurarsi Zummo, a una tale dichiarazione, dopo la sentenza contraria! E allora quel giudice imbecille s'era stretto nelle spalle e gli aveva detto:
- Ma, capirà, caro avvocato, allo stato delle cose...
Insomma, tutta la cittadinanza era rimasta profondamente scossa dalle affermazioni e dalle rivelazioni di Zummo.
E Granella ora si sentiva solo: solo e stizzito, come se tutti lo avessero abbandonato, vigliaccamente.
La vista dello sterrato deserto, dopo il quale l'alto colle su cui sorge la città strapiomba in ripidissimo pendio su un'ampia vallata, con quell'unico lampioncino, la cui fiammella vacillava come impaurita dalla tenebra densa che saliva dalla valle, non era fatta certamente per rincorare un uomo dalla fantasia un po' alterata.
Né poté rincorarlo poi di piú il lume d'una sola candela stearica, la quale - chi sa perché - friggeva, ardendo, come se qualcuno vi soffiasse sú, per spegnerla.
(Non s'accorgeva Granella che aveva un ansito da cavallo, e che soffiava lui, con le nari, su la candela.)
Attraversando le molte stanze vuote, silenziose, rintronanti, per entrare in quella nella quale aveva allogato i pochi mobili, tenne fisso lo sguardo su la fiamma tremolante riparata con una mano, per non veder l'ombra del proprio corpo mostruosamente ingrandita, fuggente lungo le pareti e sul pavimento.
Il letto, le seggiole, il cassettone, il lavamano gli parvero come sperduti in quella camera rimessa a nuovo.
Posò la candela sul cassettone, vietandosi di allungar lo sguardo all'uscio, oltre al quale le altre camere vuote eran rimaste buje.
Il cuore gli batteva forte.
Era tutto in un bagno di sudore.
Che fare adesso? Prima di tutto, chiudere quell'uscio e metterci il paletto.
Sí, perché sempre, per abitudine, prima d'andare a letto, egli si chiudeva cosí, in camera.
È vero che, di là, adesso, non c'era nessuno, ma...
l'abitudine, ecco! E perché in tanto aveva ripreso in mano la candela per andare a chiudere quell'uscio nella stessa stanza? Ah...
già, distratto!...
Non sarebbe stato bene, ora, aprire un tantino il balcone? Auff! si soffocava dal caldo, là dentro...
E poi, c'era ancora un tanfo di vernice...
Sí sí, un tantino, il balcone.
E nel mentre che la camera prendeva un po' d'aria, egli avrebbe rifatto il letto con la biancheria che s'era portata.
Cosí fece.
Ma appena steso il primo lenzuolo su le materasse, gli parve di sentire come un picchio all'uscio.
I capelli gli si drizzarono su la fronte, un brivido gli spaccò le reni, come una rasojata a tradimento.
Forse il pomo della lettiera di ferro aveva urtato contro la parete? Attese un po', col cuore in tumulto.
Silenzio! Ma gli parve misteriosamente animato, quel silenzio...
Granella raccolse tutte le forze, aggrottò le ciglia, cavò dalla cintola una delle pistole, riprese in mano la candela, riaprí l'uscio e, coi capelli che gli fremevano sul capo, gridò:
- Chi è là?
Rimbombò cupamente il vocione nelle vuote camere.
E quel rimbombo fece indietreggiare il Granella.
Ma subito egli si riprese; batté un piede; avanzò il braccio con la pistola impugnata.
Attese un tratto, poi si mise a ispezionare dalla soglia quella camera accanto.
C'era solamente una scala, in quella camera, appoggiata alla parete di contro: la scala di cui s'erano serviti gli operai per riattaccar la carta da parato nelle stanze.
Nient'altro.
Ma sí, via, non ci poteva esser dubbio: il pomo della lettiera aveva urtato contro la parete.
E Granella rientrò nella camera, ma con le membra d'un subito rilassate e appesantite cosí, che non poté piú per il momento rimettersi a rifare il letto.
Prese una seggiola e andò a sedere al balcone, al fresco.
- Zrí!
Accidenti al pipistrello! Ma riconobbe subito, eh, che quello era uno strido di pipistrello attirato dal lume della candela che ardeva nella camera.
E rise Granella della paura che, questa volta, non aveva avuto, e alzò gli occhi per discerner nel bujo lo svolazzío del pipistrello.
In quel mentre, gli giunse all'orecchio dalla camera uno scricchiolío.
Ma riconobbe subito ugualmente che quello scricchiolío era della carta appiccicata di fresco alle pareti, e ci si divertí un mondo! Ah, erano uno spasso gli spiriti, a quella maniera...
Se non che, nel voltarsi, cosí sorridente, a guardar dentro la camera, vide...
- non comprese bene, che fosse, in prima: balzò in piedi, esterrefatto; s'afferrò, rinculando, alla ringhiera del balcone.
Una lingua spropositata, bianca, s'allungava silenziosamente lungo il pavimento, dall'uscio dell'altra camera, rimasto aperto!
Maledetto, maledetto, maledetto! un rotolo di carta da parato, un rotolo di carta da parato che gli operaj forse avevano lasciato lí, in capo a quella scala...
Ma chi lo aveva fatto precipitare di là e poi scivolare cosí, svolgendosi, lungo il pavimento di due stanze, imbroccando perfettamente l'uscio aperto?
Granella non poté piú reggere.
Rientrò con la sedia; richiuse di furia il balcone; prese il cappello, la candela, e scappò via, giú per la scala.
Aperto pian piano il portone, guardò nello sterrato.
Nessuno! Tirò a sé il portone e, rasentando il muro della casa, sgattajolò per il viottolo fuori delle mura al bujo.
Che doveva perderci la salute, lui, per amor della casa? Fantasia alterata, sí; non era altro...
dopo tutte quelle chiacchiere...
Gli avrebbe fatto bene passare una notte all'aperto, con quel caldo.
La notte, del resto, era brevissima.
All'alba, sarebbe rincasato.
Di giorno, con tutte le finestre aperte, non avrebbe avuto piú, di certo, quella sciocchissima paura; e, venendo di nuovo la sera, avendo già preso confidenza con la casa, sarebbe stato tranquillo, senza dubbio, che diamine! Aveva fatto male, ecco, ad andarci a dormire, cosí, in prima, per una bravata.
Domani sera...
Credeva il Granella che nessuno si fosse accorto della sua fuga.
Ma in quel fondaco dirimpetto alla casa, un carrettiere era ricoverato quella sera, che lo vide uscire con tanta paura e tanta cautela, e lo vide poi rientrare ai primi albori.
Impressionato del fatto e di quei modi, costui ne parlò nel vicinato con alcuni che, il giorno avanti, erano andati a testimoniare in favore dei Piccirilli.
E questi testimoni allora si recarono in gran segreto dall'avvocato Zummo ad annunziargli la fuga del Granella spaventato.
Zummò accolse la notizia con esultanza.
- Lo avevo previsto! - gridò loro, con gli occhi che gli schizzavano fiamme.
- Vi giuro, signori miei, che lo avevo previsto! E ci contavo.
Farò appellare i Piccirilli, e mi avvarrò di questa testimonianza dello stesso Granella! A noi, adesso! Tutti d'accordo, ohé, signori miei!
Complottò subito, per quella notte stessa, l'agguato.
Cinque o sei, con lui, cinque o sei: non si doveva essere in piú! Tutto stava a cacciarsi in quel fondaco, senza farsi scorgere dal Granella.
E zitti, per carità! Non una parola con nessuno, durante tutta la giornata.
- Giurate!
- Giuriamo!
Piú viva soddisfazione di quella non poteva dare a Zummo l'esercizio della sua professione d'avvocato! Quella notte stessa, poco dopo le undici, egli sorprese il Granella che usciva scalzo dal portone della sua casa, proprio scalzo, quella notte, in maniche di camicia, con le scarpe e la giacca in una mano, mentre con l'altra si reggeva su la pancia i calzoni che, sopraffatto dal terrore, non era riuscito ad abbottonarsi.
Gli balzò addosso, dall'ombra, come una tigre, gridando:
- Buon passeggio, Granella!
Il pover'uomo, alle risa sgangherate degli altri appostati, si lasciò cader le scarpe di mano, prima una e poi l'altra; e restò, con le spalle al muro, avvilito, basito addirittura.
- Ci credi ora, imbecille, all'anima immortale? - gli ruggí Zummo, scrollandolo per il petto.
- La giustizia cieca ti ha dato ragione.
Ma tu ora hai aperto gli occhi.
Che hai visto? Parla!
Ma il povero Granella, tutto tremante, piangeva, e non poteva parlare.
FUOCO ALLA PAGLIA
Non avendo piú nessuno a cui comandare, Simone Lampo aveva preso da un pezzo l'abitudine di comandare a se stesso.
E si comandava a bacchetta:
- Simone, qua! Simone, là!
S'imponeva apposta, per dispetto del suo stato, le faccende piú ingrate.
Fingeva talvolta di ribellarsi per costringersi a obbedire, rappresentando a un tempo le due parti in commedia.
Diceva, per esempio, rabbioso:
- Non lo voglio fare!
- Simone, ti bastono.
T'ho detto, raccogli quel concime! No?
Pum!...
S'appioppava un solennissimo schiaffo.
E raccoglieva il concime.
Quel giorno, dopo la visita al poderetto, l'unico che gli fosse restato di tutte le terre che un tempo possedeva (appena due ettari di terra, abbandonati lassú, senza custodia d'alcun villano), si comandò di sellar la vecchia asinella, con la quale soleva pur fare, ritornando al paese, i piú speciosi discorsi.
L'asinella, drizzando ora questa ora quella orecchia spelata, pareva gli prestasse ascolto, paziente, non ostante un certo fastidio, che da qualche tempo il padrone le infliggeva e ch'essa non avrebbe saputo precisare: qualcosa che, nell'andare, le sbatteva dietro, sotto la coda.
Era un cestello di vimini senza manico, legato con due lacci al posolino della sella e sospeso sotto la coda alla povera bestia, per raccogliervi e conservare belle calde, fumanti, le pallottole di timo, ch'essa altrimenti avrebbe seminato lungo la strada.
Tutti ridevano, vedendo quella vecchia asinella col cestino dietro, lí pronto al bisogno; e Simone Lampo ci scialava.
Era ben noto alla gente del paese con quale e quanta liberalità fosse un tempo vissuto e in che conto avesse tenuto il denaro.
Ma ora, ecco, era andato a scuola dalle formiche, le quali, b-a-ba, b-a-ba, gli avevano insegnato questo espediente per non perdere neanche quel po' di timo buono a ingrassar la terra.
Sissignori!
- Sú, Nina, sú, lasciati mettere questa bella gala qua! Che siamo piú noi, Nina? Tu niente e io nessuno.
Buoni soltanto da far ridere il paese.
Ma non te ne curare.
Ci restano ancora a casa qualche centinaio d'uccellini.
Cïo-cïo-cïo-cïo...
Non vorrebbero essere mangiati! Ma io me li mangio; e tutto il paese ride.
Viva l'allegria!
Alludeva a un'altra sua bella pensata, che poteva veramente fare il pajo col cestello appeso sotto la coda dell'asina.
Mesi addietro aveva finto di credere che avrebbe potuto novamente arricchire con la cultura degli uccelli.
E aveva fatto delle cinque stanze della sua casa in paese tutt'una gabbia (per cui era detta la gabbia del matto), riducendosi a vivere in due stanzette del piano superiore con la scarsa suppellettile scampata al naufragio delle sue sostanze e con gli usci, gli scuri e le invetriate delle finestre e dei finestroni, che aveva chiuso, per dar aria agli uccelli, con ingraticolati.
Dalla mattina alla sera, dalle cinque stanze da basso venivan sú, con gran delizia di tutto il vicinato, ringhii e strilli e cínfoli e squittíi, chioccolío di merli, spincionar di fringuelli: un cinguettío, un passerajo fitto, continuo, assordante.
Da parecchi giorni però, sfiduciato del buon esito di quel negozio, Simone Lampo mangiava uccellini a tutto pasto, e aveva distrutto lí, nel poderetto, l'apparato di reti e di canne, con cui aveva preso, a centinaja e centinaja, quegli uccellini.
Sellata l'asina, cavalcò e si mise in via per il paese.
Nina non avrebbe affrettato il passo, neanche se il padrone la avesse tempestata di nerbate.
Pareva glielo facesse apposta, per fargli assaporar meglio con la lentezza del suo andare i tristi pensieri che, a suo dire, gli nascevano anche per colpa di lei, di quel tentennío del capo, cioè, ch'essa gli cagionava con la sua andatura.
Sissignori.
A forza di far cosí e cosí con la testa, guardando attorno dall'alto della sua groppa la desolazione dei campi che s'incupiva a mano a mano sempre piú con lo spegnersi degli ultimi barlumi crepuscolari, non poteva fare a meno di mettersi a commiserar la sua rovina.
Lo avevano rovinato le zolfare.
Quante montagne sventrate per il miraggio del tesoro nascosto! Aveva creduto di scoprire dentro ogni montagna una nuova California.
Californie da per tutto! Buche profonde fino a duecento, a trecento metri, buche per la ventilazione, impianti di macchine a vapore, acquedotti per la eduzione delle acque e tante e tante altre spese per uno straterello di zolfo, che non metteva conto, alla fine, di coltivare.
E la triste esperienza fatta piú volte, il giuramento di non cimentarsi mai piú in altre imprese, non eran valsi a distoglierlo da nuovi tentativi, finché non s'era ridotto, com'era adesso, quasi al lastrico.
E la moglie lo aveva abbandonato, per andare a convivere con il suo fratello ricco, poiché l'unica figlia era andata a farsi monaca per disperata.
Era solo, adesso, senza neanche una servaccia in casa; solo e divorato da un continuo orgasmo, che gli faceva commettere tutte quelle follie.
Lo sapeva, sí: era cosciente delle sue follie; le commetteva apposta, per far dispetto alla gente che, prima, da ricco, lo aveva tanto ossequiato, e ora gli voltava le spalle e rideva di lui.
Tutti, tutti ridevano di lui e lo sfuggivano; nessuno che volesse dargli ajuto, che gli dicesse: - Compare, che fate? venite qua: voi sapete lavorare, avete lavorato sempre, onestamente; non fate piú pazzie; mettetevi con me a una buona impresa! - Nessuno.
E la smania, l'interno rodío, in quell'abbandono, in quella solitudine agra e nuda, crescevano e lo esasperavano sempre piú.
L'incertezza di quella sua condizione era la sua maggiore tortura.
Sí, perché non era piú né ricco, né povero.
Ai ricchi non poteva piú accostarsi, e i poveri non lo volevano riconoscere per compagno, per via di quella casa in paese e di quel poderetto lassú.
Ma che gli fruttava la casa? Niente.
Tasse, gli fruttava.
E quanto al poderetto, ecco qua: c'era, per tutta ricchezza, un po' di grano che, mietuto fra pochi giorni, gli avrebbe dato, sí e no, tanto da pagare il censo alla mensa vescovile.
Che gli restava dunque, per mangiare? Quei poveri uccellini, là...
E che pena, anche questa! Finché s'era trattato di prenderli, per tentare un negozio da far ridere la gente, transeat; ma ora, scender giú nel gabbione, acchiapparli, ucciderli e mangiarseli...
- Sú Nina, sú! Dormi, stasera? Sú!
Maledetta la casa e maledetto il podere, che non lo lasciavano essere neanche povero bene, povero e pazzo, lí, in mezzo a una strada, povero senza pensieri, come tanti ne conosceva e per cui, nell'esasperazione in cui si trovava, sentiva un'invidia angosciosa.
Tutt'a un tratto Nina s'impuntò con le orecchie tese.
- Chi è là? - gridò Simone Lampo.
Sul parapetto d'un ponticello lungo lo stradone gli parve di scorgere, nel bujo, qualcuno sdrajato.
- Chi è là?
Colui che stava lí sdrajato alzò appena il capo ed emise come un grugnito.
- Oh tu, Nàzzaro? Che fai lí?
- Aspetto le stelle.
- Te le mangi?
- No: le conto.
- E poi?
Infastidito da quelle domande, Nàzzaro si rizzò a sedere sul parapetto e gridò iroso, tra il fitto barbone abbatuffolato:
- Don Simo', andate, non mi seccate! Sapete bene che a quest'ora non negozio piú; e con voi non voglio discorrere!
Cosí dicendo, si sdrajò di nuovo, a pancia all'aria, sul parapetto, in attesa delle stelle.
Quando aveva guadagnato quattro soldi, o strigliando due bestie o accudendo a qualche altra faccenda, purché spiccia, Nàzzaro diventava padrone del mondo.
Due soldi di pane e due soldi di frutta.
Non aveva bisogno d'altro.
E se qualcuno gli proponeva di guadagnarsi, oltre a quei quattro soldi, per qualche altra faccenda, una o magari dieci lire, rifiutava, rispondendo sdegnosamente a quel suo modo:
- Non negozio piú!
E si metteva a vagar per le campagne o lungo la spiaggia del mare o sú per i monti.
S'incontrava da per tutto, e dove meno si sarebbe aspettato, scalzo, silenzioso, con le mani dietro la schiena e gli occhi chiari, invagati e ridenti.
- Ve ne volete andare, insomma, sí o no? - gridò levandosi di nuovo a sedere sul parapetto, piú iroso, vedendo che quello s'era fermato con l'asina a contemplarlo.
- Non mi vuoi neanche tu? - disse allora Simone Lampo, scotendo il capo.
- Eppure, va' là, che potremmo far bene il paio, noi due.
- Col demonio, voi, il paio! - borbottò Nàzzaro, tornando a sdrajarsi.
- Siete in peccato mortale, ve l'ho detto!
- Per quegli uccellini?
- L'anima, l'anima, il cuore...
non ve lo sentite rodere, il cuore? Sono tutte quelle creature di Dio, che vi siete mangiate! Andate...
Peccato mortale!
- Arrí, - disse Simone Lampo all'asinella.
Fatti pochi passi, s'arrestò di nuovo, si voltò indietro e chiamò:
- Nàzzaro!
Il vagabondo non gli rispose.
- Nàzzaro - ripeté Simone Lampo.
- Vuoi venire con me a liberare gli uccelli?
Nàzzaro si rizzò di scatto.
- Dite davvero?
- Sí.
- Volete salvarvi l'anima? Non basta.
Dovreste dar fuoco anche alla paglia!
- Che paglia?
- A tutta la paglia! - disse Nàzzaro, accostandosi, rapido e leggero come un'ombra.
Posò una mano sul collo dell'asina, l'altra su una gamba di Simone Lampo e, guardandolo negli occhi, tornò a domandargli:
- Vi volete salvar l'anima davvero?
Simone Lampo sorrise e gli rispose:
- Sí.
- Proprio davvero? Giuratelo! Badate, io so quello che ci vorrebbe per voi.
Studio la notte, e so quello che ci vorrebbe, non per voi soltanto, ma anche per tutti i ladri, per tutti gl'impostori che abitano laggiú, nel nostro paese; quello che Dio dovrebbe fare per la loro salvazione e che fa, presto o tardi, sempre: non dubitate! Dunque volete davvero liberare gli uccelli?
- Ma sí, te l'ho detto.
- E fuoco alla paglia?
- E fuoco alla paglia!
- Va bene.
Vi prendo in parola.
Andate avanti e aspettatemi.
Devo ancora contare fino a cento.
Simone Lampo riprese la via, sorridendo e dicendo a Nàzzaro:
- Bada, t'aspetto.
S'intravedevano ormai laggiú, lungo la spiaggia, i lumi fiochi del paesello.
Da quella via su l'altipiano marnoso che dominava il paese, si spalancava nella notte la vacuità misteriosa del mare, che faceva apparir piú misero quel gruppetto di lumi laggiú.
Simone Lampo trasse un profondo sospiro e aggrottò le ciglia.
Salutava ogni volta cosí, da lontano, l'apparizione di quei lumi.
C'eran due pazzi patentati per gli uomini che stavano laggiú, oppressi, ammucchiati: lui e Nàzzaro.
Bene: ora si sarebbero messi insieme, per accrescere l'allegria del paese! Libertà agli uccellini e fuoco alla paglia! Gli piaceva questa esclamazione di Nàzzaro; e se la ripeté con crescente soddisfazione parecchie volte prima di giungere al paese.
- Fuoco alla paglia!
Gli uccellini, a quell'ora, dormivano tutti, nelle cinque stanze del piano di sotto.
Quella sarebbe stata per loro l'ultima notte da passar lí.
Domani, via! Liberi.
Una gran volata! E si sarebbero sparpagliati per l'aria; sarebbero ritornati ai campi, liberi e felici.
Sí, era una vera crudeltà, la sua.
Nàzzaro aveva ragione.
Peccato mortale! Meglio mangiar pane asciutto, e lí.
Legò l'asina nella stalluccia e, con la lucernetta a olio in mano, andò sú ad aspettar Nàzzaro, che doveva contare, come gli aveva detto, fino a cento stelle.
- Matto! Chi sa perché? Ma era forse una divozione...
Aspetta e aspetta, Simone Lampo cominciò ad aver sonno.
Altro che cento stelle! Dovevano esser passate piú di tre ore.
Mezzo firmamento avrebbe potuto contare...
Via! via! Forse glie l'aveva detto per burla, che sarebbe venuto.
Inutile aspettarlo ancora.
E si disponeva a buttarsi sul letto, cosí vestito, quando sentí bussare forte all'uscio di strada.
Ed ecco Nàzzaro, ansante e tutto ilare e irrequieto.
- Sei venuto di corsa?
- Sí.
Fatto!
- Che hai fatto?
- Tutto.
Ne parleremo domani, don Simo'! Sono stanco morto.
Si buttò a sedere su una seggiola e cominciò a stropicciarsi le gambe con tutt'e due le mani, mentre gli occhi d'animale forastico gli brillavano d'un riso strano, abbozzato appena sulle labbra di tra il folto barbone.
- Gli uccelli? - domandò.
- Giú.
Dormono.
- Va bene.
Non avete sonno voi?
- Sí.
T'ho aspettato tanto...
- Prima non ho potuto.
Coricatevi.
Ho sonno anch'io, e dormo qua, su questa seggiola.
Sto bene, non v'incomodate! Ricordatevi che siete ancora in peccato mortale! Domani compiremo l'espiazione.
Simone Lampo lo mirava dal letto, appoggiato su un gomito; beato.
Quanto gli piaceva quel matto vagabondo! Gli era passato il sonno, e voleva seguitare la conversazione.
- Perché conti le stelle, Nàzzaro, di'?
- Perché mi piace contarle.
Dormite!
- Aspetta.
Dimmi: sei contento tu?
- Di che? - domandò Nàzzaro, levando la testa, che aveva già affondata tra le braccia appoggiate al tavolino.
- Di tutto, - disse Simone Lampo.
- Di vivere cosí...
- Contento? Tutti in pena siamo, don Simo'! Ma non ve n'incaricate.
Passerà! Dormiamo.
E riaffondò la testa tra le braccia.
Simone Lampo sporse il capo per spegnere la candela; ma, sul punto, trattenne il fiato.
Lo costernava un po' l'idea di restare al bujo con quel matto là.
- Di', Nàzzaro: vorresti rimanere sempre con me?
- Sempre non si dice.
Finché volete.
Perché no?
- E mi vorrai bene?
- Perché no? Ma, né voi padrone, né io servo.
Insieme.
Vi sto appresso da un pezzo, sapete? So che parlate con l'asina e con voi stesso; e ho detto tra me: La sorba si matura...
Ma non mi volevo accostare a voi, perché avevate gli uccelli prigionieri in casa.
Ora che m'avete detto di voler salvare l'anima, starò con voi, finché mi vorrete.
Intanto, v'ho preso in parola, e il primo passo è fatto.
Buona notte.
- E il rosario, non te lo dici? Parli tanto di Dio!
- Me lo son detto.
È in cielo il mio rosario.
Un'avemaria per ogni stella.
- Ah, le conti per questo?
- Per questo.
Buona notte.
Simone Lampo, raffidato da queste parole, spense la candela.
E poco dopo, tutti e due dormivano.
All'alba, i primi cinguettii degli uccelli imprigionati svegliarono subito il vagabondo, che dalla seggiola s'era buttato a dormire in terra.
Simone Lampo, che a quei cinguettii era già avvezzo, ronfava ancora.
Nàzzaro andò a svegliarlo.
- Don Simo', gli uccelli ci chiamano.
- Ah, già! - fece Simone Lampo, destandosi di soprassalto e sgranando tanto d'occhi alla vista di Nàzzaro.
Non si ricordava piú di nulla.
Condusse il compagno nell'altra stanzetta e, sollevata la caditoja su l'assito, scesero entrambi la scala di legno della cateratta e pervennero nel piano di sotto, intanfato dello sterco di tutte quelle bestioline e di rinchiuso.
Gli uccelli, spaventati, presero tutti insieme a strillare, levandosi con gran tumulto d'ali verso il tetto.
- Quanti! quanti! - esclamò Nàzzaro, pietosamente, con le lagrime agli occhi.
- Povere creature di Dio!
- E ce n'erano di piú! - esclamò Simone Lampo, tentennando il capo.
- Meritereste la forca, don Simo'! - gli gridò quello mostrandogli le pugna.
- Non so se basterà l'espiazione che v'ho fatto fare! Sú, andiamo! Bisognerà mandarli tutti in una stanza, prima.
- Non ce n'è bisogno.
Guarda! - disse Simone Lampo, afferrando un fascio di cordicelle che, per un congegno complicatissimo, tenevano aderenti ai vani delle finestre e dei finestroni gli ingraticolati.
Vi si appese, e giú! Gl'ingraticolati, alla strappata, precipitarono tutt'insieme con fracasso indiavolato.
- Cacciamo via, ora! cacciamo via! Libertà! Libertà! Sciò! sciò! sciò!
Gli uccelli, da piú mesi lí imprigionati, in quel subitaneo scompiglio, sgomenti, sospesi sul fremito delle ali, non seppero in prima spiccare il volo: bisognò che alcuni, piú animosi, s'avventassero via, come frecce, con uno strido di giubilo e di paura insieme; seguiron gli altri, cacciati, a stormi, a stormi, in gran confusione, e si sparpagliarono dapprima, come per rimettersi un po' dallo stordimento, su gli scrimoli dei tetti, su le torrette dei camini, su i davanzali delle finestre, su le ringhiere dei balconi del vicinato, suscitando giú, nella strada, un gran clamore di meraviglia, a cui Nàzzaro, piangente dalla commozione, e Simone Lampo rispondevano seguitando a gridare per le stanze ormai vuote:
- Sciò! sciò! Libertà! Libertà!
S'affacciarono quindi anch'essi a godere dello spettacolo della via invasa da tutti quegli uccellini liberati alla nuova luce dell'alba.
Ma già qualche finestra si schiudeva; qualche ragazzo, qualche donna tentavano, ridendo, di ghermire questo o quell'uccellino; e allora Nàzzaro, furibondo, protese le braccia e cominciò a sbraitare come un ossesso:
- Lasciate! Non v'arrischiate! Ah, mascalzone! ah, ladra di Dio! Lasciateli andare!
Simone Lampo cercò di calmarlo:
- Va' là! Sta' tranquillo, che non si lasceranno piú prendere ormai...
Ritornarono al piano di sopra, sollevati e contenti.
Simone Lampo s'accostò a un fornelletto per accendere il fuoco e fare il caffè; ma Nàzzaro lo trasse di furia per un braccio.
- Che caffè, don Simo'! Il fuoco è già acceso.
L'ho acceso io stanotte.
Sú, corriamo a vedere l'altra volata di là!
- L'altra volata? - gli domandò Simone Lampo, stordito.
- Che volata?
- Una di qua, e una di là! - disse Nàzzaro.
- L'espiazione, per tutti gli uccelli che vi siete mangiati.
Fuoco alla paglia, non ve l'ho detto? Andiamo a sellare l'asina, e vedrete.
Simone Lampo vide passarsi come una vampa davanti agli occhi.
Temette d'intendere.
Afferrò Nàzzaro per le braccia e, scotendolo, gli gridò:
- Che hai fatto?
- Ho bruciato il grano del vostro podere, - gli rispose tranquillamente Nàzzaro.
Simone Lampo allibí dapprima; poi, trasfigurato dall'ira, si lanciò contro il matto.
- Tu? Il grano? Assassino! Dici davvero? M'hai bruciato il grano?
Nàzzaro lo respinse con una bracciata furiosa.
- Don Simo', a che gioco giochiamo? Di quanti parlari siete? Fuoco alla paglia, mi avete detto.
E io ho dato fuoco alla paglia, per l'anima vostra!
- Ma io ti mando ora in galera! - ruggí Simone Lampo.
Nàzzaro ruppe in una gran risata, e gli disse chiaro e tondo:
- Pazzo siete! L'anima, eh? Cosí ve la volete salvare l'anima? Niente, don Simo'! Non ne facciamo niente.
- Ma tu m'hai rovinato, assassino! - gridò con altro tono di voce Simone Lampo, quasi piangente, ora.
- Potevo figurarmi che tu intendessi dir questo? bruciarmi il grano? E come faccio ora? Come pago il censo alla mensa vescovile? il censo che grava sul podere?
Nàzzaro lo guardò con aria di compatimento sdegnoso:
- Bambino! Vendete la casa, che non vi serve a nulla, e liberate del censo il podere.
È presto fatto.
- Sí, - sghignò Simone Lampo.
- E intanto che mangio io là, senza uccelli e senza grano?
- A questo ci penso io, - gli rispose con placida serietà Nàzzaro.
- Non devo star con voi? Abbiamo l'asina; abbiamo la terra; zapperemo e mangeremo.
Coraggio, don Simo'!
Simone Lampo rimase stupito a mirare la fiducia serena di quel matto, ch'era rimasto innanzi a lui con una mano alzata a un gesto di noncuranza sdegnosa e un bel riso d'arguta spensieratezza negli occhi chiari e tra il folto barbone abbatuffolato.
LA FEDELTÀ DEL CANE
Mentre donna Giannetta, ancora in sottana, e con le spalle e le braccia scoperte e un po' anche il seno (piú d'un po', veramente) si racconciava i bei capelli corvini seduta innanzi alla specchiera, il marchese don Giulio del Carpine finiva di fumarsi una sigaretta, sdrajato sulla poltrona a piè del letto disfatto, ma con tale cipiglio, che in quella sigaretta pareva vedesse e volesse distruggere chi sa che cosa, dal modo come la guardava nel togliersela dalle labbra, dalla rabbia con cui ne aspirava il fumo e poi lo sbuffava.
D'improvviso si rizzò sulla vita e disse scrollando il capo:
- Ma no, via, non è possibile!
Donna Giannetta si voltò sorridente a guardarlo, con le belle braccia levate e le mani tra i capelli, come donna che non tema di mostrar troppo del proprio corpo.
- Ancora ci pensi?
- Perché non c'è logica! - scattò egli, alzandosi, stizzito.
- Tra me e...
coso, e Lulú, via, non tocca a dirlo a me...
Donna Giannetta chinò il capo da una parte e stette cosí a osservar don Giulio di sotto il braccio come per farne una perizia disinteressata prima di emettere un giudizio.
Poi, comicamente, quasiché la coscienza proprio non le permettesse di concedere senza qualche riserva, sospirò:
- Eh, secondo...
- Ma che secondo, fa' il piacere!
- Secondo, secondo, caro mio, - ripeté allora senz'altro donna Giannetta.
Del Carpine scrollò le spalle e si mosse per la camera.
Quand'aveva la barba era veramente un bell'uomo; alto di statura, ferrigno.
Ma ora, tutto raso per obbedire alla moda, con quel mento troppo piccolo e quel naso troppo grosso, dire che fosse bello, via, non si poteva piú dire, soprattutto perché pareva che lui lo pretendesse, anche cosí con la barba rasa, anzi appunto perché se l'era rasa.
- La gelosia, del resto, - sentenziò, - non dipende tanto dalla poca stima che l'uomo ha della donna, o viceversa, quanto dalla poca stima che abbiamo di noi stessi.
E allora...
Ma guardandosi per caso le unghie, perdette il filo del discorso, e fissò donna Giannetta, come se avesse parlato lei e non lui.
Donna Giannetta, che se ne stava ancora alla specchiera, con le spalle voltate, lo vide nello specchio, e con una mossetta degli occhi gli domandò:
- E allora...
che cosa?
- Ma sí, è proprio questo! Nasce da questo! - riprese lui, con rabbia.
- Da questa poca stima di noi, che ci fa credere, o meglio, temere di non bastare a riempire il cuore o la mente, a soddisfare i gusti o i capricci di chi amiamo; ecco!
- Oh, - fece allora lei, con un respiro di sollievo.
- E tu non l'hai, di te?
- Che cosa?
- Cotesta poca stima che dici.
- Non l'ho, non l'ho, non l'ho, se mi paragono con...
coso, con Lulú; ecco!
- Povero Lulú mio! - esclamò allora donna Giannetta, rompendo in una sua abituale risatina, ch'era come una cascatella gorgogliante.
- Ma tua moglie? - domandò poi.
- Bisognerebbe ora vedere che stima ha di te tua moglie.
- Oh senti! - s'affrettò a risponderle don Giulio, infiammato.
- Non posso in nessun modo crederla capace di preferirmi...
- Coso!
- Non c'è logica! non c'è logica! Mia moglie sarà...
sarà come tu vuoi; ma intelligente è.
Di noi, ch'io sappia, non sospetta.
Perché lo farebbe? E con Lulú, poi?
Donna Giannetta, finito d'acconciarsi i capelli, si levò dalla specchiera.
- Tu insomma, - disse, - difendi la logica.
La tua, però.
Prendimi il copribusto, di là.
Ecco, sí, codesto, grazie.
Non la logica di tua moglie, caro mio.
Come ragionerà Livia? Perché Lulú è affettuoso, Lulú è prudente, Lulú è servizievole...
E mica tanto sciocco poi, sai? Guarda: io, per esempio, non ho il minimo dubbio che lui...
- Ma va'! - negò recisamente don Giulio, dando una spallata.
- Del resto, che sai tu? chi te l'ha detto?
- Ih, - fece donna Giannetta, appressandoglisi, prendendolo per le braccia e guardandolo negli occhi.
- Ti alteri? Ti turbi sul serio? Ma scusa, è semplicemente ridicolo...
mentre noi, qua...
- Non per questo! - scattò del Carpine, infocato in volto.
- Non ci so credere, ecco! Mi pare impossibile, mi pare assurdo che Livia...
- Ah sí? Aspetta, - lo interruppe donna Giannetta.
Gli tese prima il copribusto di nansouk, perch'egli l'ajutasse a infilarselo, poi andò a prendere dalla mensola una borsetta, ne trasse un cartoncino filettato d'oro, strappato dal taccuino, e glielo porse.
Vi era scritto frettolosamente a matita un indirizzo: Via Sardegna, 96.
- Se vuoi, per pura curiosità...
Don Giulio del Carpine restò a guardarla, stordito, col pezzettino di carta in mano.
- Come...
come l'hai scoperto?
- Eh, - fece donna Giannetta, stringendosi nelle spalle e socchiudendo maliziosamente gli occhi.
- Lulú è prudente, ma io...
Per la nostra sicurezza...
Caro mio, tu badi troppo a te...
Non ti sei accorto, per esempio, com'io da qualche tempo venga qua e ne vada via piú tranquilla?
- Ah...
- sospirò egli astratto, turbato.
- E Livia, dunque...? Via Sardegna: sarebbe una traversa di Via Veneto?
- Sí: numero 96, una delle ultime case, in fondo.
C'è sotto uno studio di scultura, preso anche a pigione da Lulú.
Ah! ah! ah! Te lo figuri Lulú...
scultore?
Rise forte, a lungo.
Rise altre volte, a scatti, mentre finiva di vestirsi, per le comiche immagini che le suscitava il pensiero di Lulú, suo marito, scultore in una scuola di nudo, con Livia del Carpine per modella.
E guardava obliquamente don Giulio, che s'era seduto di nuovo su la poltrona, col cartoncino arrotolato fra le dita.
Quando fu pronta, col cappellino in capo e la veletta abbassata, si guardò allo specchio, di faccia, di fianco, poi disse:
- Non bisogna presumer troppo di sé, caro! Io ci ho piacere per il povero Lulú, e anche per me...
Anche tu, del resto, dovresti esserne contento.
Scoppiò di nuovo a ridere, vedendo la faccia che lui le faceva; e corse a sederglisi su le ginocchia e a carezzarlo:
- Vendicati su me, via, Giugiú! Come sei terribile...
Ma chi la fa l'aspetta, caro: proverbio! Poiché Lulú è contento, noi adesso...
- Io voglio prima accertarmene, capisci? - diss'egli duramente, con un moto di rabbia mal represso, quasi respingendola.
Donna Giannetta si levò subito in piedi, risentita, e disse fredda fredda:
- Fa' pure.
Addio, eh?
Ma s'affrettò a levarsi anche lui, pentito.
L'espansione d'affetto a cui stava per abbandonarsi gli fu però interrotta dalla stizza persistente.
Tuttavia disse:
- Scusami, Gianna...
Mi...
mi hai frastornato, ecco.
Sí, hai ragione.
Dobbiamo vendicarci bene.
Piú mia, piú mia, piú mia....
E la prese, cosí dicendo, per la vita e la strinse forte a sé.
- No...
Dio...
mi guasti tutta di nuovo! - gridò lei, ma contenta, cercando d'opporsi con le braccia.
Poi lo baciò pian piano, teneramente da dietro la veletta, e scappò via.
Giugiú del Carpine, aggrottato e con gli occhi fissi nel vuoto, rimase a raschiarsi le guance rase con le unghie della mano spalmata sulla bocca.
Si riscosse come punto da un improvviso ribrezzo per quella donna che aveva voluto morderlo velenosamente, cosí, per piacere.
Contenta ne era; ma non per la loro sicurezza.
No! contenta di non esser sola; e anche (ma sí, lo aveva detto chiaramente) per aver punito la presunzione di lui.
Senza capire, imbecille, che se lei, avendo Lulú per marito, poteva in certo qual modo avere una scusa al tradimento, Livia no, perdio, Livia no!
S'era fisso ormai questo chiodo, e non si poteva dar pace.
Dell'onestà di sua moglie, come di quella di tutte le donne in genere, non aveva avuto mai un gran concetto.
Ma uno grandissimo ne aveva di sé, della sua forza, della sua prestanza maschile; e riteneva perciò, fermamente, che sua moglie...
Forse però poteva essersi messa con Lulú Sacchi per vendetta.
Vendetta?
Ma Dio mio, che vendetta per lei? Avrebbe fatto, se mai, quella di Lulú Sacchi, non già la sua, mettendosi con un uomo che valeva molto meno di suo marito.
Già! Ma non s'era egli messo scioccamente con una donna che valeva senza dubbio molto meno di sua moglie?
Ecco allora perché Lulú Sacchi mostrava di curarsi cosí poco del tradimento di donna Giannetta.
Sfido! Erano suoi tutti i vantaggi di quello scambio.
Anche quello d'aver acquistato, dalla relazione di lui con donna Giannetta, il diritto d'esser lasciato in pace.
Il danno e le beffe, dunque.
Ah, no, perdio! no, e poi no!
Uscí, pieno d'astio e furioso.
Tutto quel giorno si dibatté tra i piú opposti propositi, perché piú ci pensava, piú la cosa gli pareva inverosimile.
In sei anni di matrimonio aveva sperimentato sua moglie, se non al tutto insensibile, certo non molto proclive all'amore.
Possibile che si fosse ingannato cosí?
Stette tutto quel giorno fuori; rincasò a tarda notte per non incontrarsi con sua moglie.
Temeva di tradirsi, quantunque dicesse ancora a se stesso che, prima di credere, voleva vedere.
Il giorno dopo si svegliò fermo finalmente in questo proposito di andare a vedere.
Ma, appena sulle mosse, cominciò a provare un'acre irritazione; avvilimento e nausea.
Perché, dato il caso che il tradimento fosse vero, che poteva far lui? Nulla.
Fingere soltanto di non sapere.
E non c'era il rischio d'imbattersi nell'uno o nell'altra, per quella via? Forse sarebbe stato piú prudente andar prima, di mattina, a veder soltanto quella casa, far le prime indagini e deliberare quindi sul posto ciò che gli sarebbe convenuto di fare.
Si vestí in fretta; andò.
Vide cosí la casa al numero 96, la quale aveva realmente al pianterreno lo studio di scultura, per cui donna Giannetta aveva tanto riso.
La verità di questa indicazione gli rimescolò tutto il sangue, come se essa importasse di conseguenza la prova del tradimento.
Dal portone d'una casa dirimpetto, un po' piú giú si fermò a guardare le finestre di quella casa e a domandarsi quali fossero quelle del quartierino appigionato da Lulú.
Pensò infine che quel portone, non guardato da nessuno, poteva essere per lui un buon posto da vedere senz'esser visto, quando, a tempo debito, sarebbe venuto a spiare.
Conoscendo le abitudini della moglie, le ore in cui soleva uscir di casa, argomentò che il convegno con l'amante poteva aver luogo o alla mattina, fra le dieci e le undici, o nel pomeriggio, poco dopo le quattro.
Ma piú facilmente di mattina.
Ebbene, poiché era lí, perché non rimanerci? Poteva darsi benissimo che gli riuscisse di togliersi il dubbio quella mattina stessa.
Guardò l'orologio; mancava poco piú di un'ora alle dieci.
Impossibile star lí fermo, in quel portone, tanto tempo.
Poiché lí vicino c'era l'entrata a Villa Borghese da Porta Pinciana: ecco, si sarebbe recato a passeggiare a Villa Borghese per un'oretta.
Era una bella mattinata di novembre, un po' rigida.
Entrato nella Villa, don Giulio vide nella prossima pista due ufficiali d'artiglieria insieme con due signorine, che parevano inglesi, sorelle, bionde e svelte nelle amazzoni grige, con due lunghi nastri scarlatti annodati attorno al colletto maschile.
Sotto gli occhi di don Giulio essi presero tutt'e quattro a un tempo la corsa, come per una sfida.
E don Giulio si distrasse: scese il ciglio del viale, s'appressò alla pista per seguir quella corsa e notò subito, con l'occhio esperto, che il cavallo, un sauro, montato dalla signorina che stava a destra, buttava male i quarti anteriori.
I quattro scomparvero nel giro della pista.
E don Giulio rimase lí a guardare, ma dentro di sé: sua moglie, donna Livia, su un grosso bajo focoso.
Nessuna donna stava cosí bene in sella, come sua moglie.
Era veramente un piacere vederla.
Cavallerizza nata! E con tanta passione pei cavalli, cosí nemica dei languori femminili, s'era andata a mettere con quel Lulú Sacchi frollo, melenso?...
Era da vedere, via!
Girò, astratto, assorto, pe' viali, dove lo portavano i piedi.
A un certo punto consultò l'orologio e s'affrettò a tornare indietro.
S'eran fatte circa le dieci, perbacco! e diventava quasi un'impresa, ora, traversare Via Sardegna per arrivare a quel portone là in fondo.
Certo sua moglie non sarebbe venuta dalla parte di Via Veneto, ma da laggiú, per una traversa di Via Boncompagni.
C'era però il rischio che di qua venisse Lulú e lo scorgesse.
Simulando una gran disinvoltura, senza voltarsi indietro, ma allungando lo sguardo fin in fondo alla via, del Carpine andava con un gran batticuore che, dandogli una romba negli orecchi, quasi gli toglieva il senso dell'udito.
Man mano che inoltrava, l'ansia gli cresceva.
Ma ecco il portone: ancora pochi passi...
E don Giulio stava per trarre un gran respiro di sollievo, sgattajolando dentro il portone, quando...
- Tu, qua?
Trasecolò.
Lulú Sacchi era lí anche lui, nello stesso portone.
Curvo, carezzava un cagnolino lungo lungo, basso basso, di pelo nero; e quel cagnolino gli faceva un mondo di feste, tutto fremente, e si storcignava, si allungava, grattando con le zampette su le gambe di lui, o saltava per arrivare a lambirgli il volto.
Ma non era Liri, quello? Sí, Liri, il cagnolino di sua moglie.
Lulú era pallido, alterato dalla commozione; aveva gli occhi pieni di lagrime, evidentemente per le feste che gli faceva il cagnolino, quella bestiola buona, quella bestiola cara, che lo conosceva bene e gli era fedele, ah esso sí, esso sí! non come quella sua padronaccia, donna indegna, donna vile, sí, sí, o buon Liri, anche vile, vile; perché una donna che si porta nel quartierino pagato dal proprio amante un altro amante, il quale dev'essere per forza un miserabile, un farabutto, un mascalzone, questa donna, o buon Liri, è vile, vile, vile.
Cosí diceva fra sé Lulú Sacchi, carezzando il cagnolino e piangendo dall'onta e dal dolore, prima che Giulio del Carpine entrasse nel portone, dove anche lui era venuto ad appostarsi.
Per un equivoco preso dalla vecchia serva che si recava dopo i convegni a rassettare il quartierino, Lulú aveva scoperto quell'infamia di donna Livia; e, venendo ad appostarsi, aveva trovato per istrada Liri, smarrito evidentemente dalla padrona nella fretta di salir sú al convegno.
La presenza del cagnolino, lí, in quella strada, aveva dato la prova a Lulú Sacchi che il tradimento era vero, era vero! Anche lui non aveva voluto crederci; ma con piú ragione, lui, perché veramente una tale indegnità passava la parte.
E adesso si spiegava perché ella non aveva voluto ch'egli tenesse la chiave del quartierino e se la fosse tenuta lei, invece, costringendolo ogni volta ad aspettare lí, nello studio di scultura, ch'ella venisse.
Oh com'era stato imbecille, stupido, cieco!
Tutto intanto poteva aspettarsi il povero Lulú, tranne che don Giulio del Carpine venisse a sorprenderlo nel suo agguato.
I due uomini si guardarono, allibiti.
Lulú Sacchi non pensò che aveva gli occhi rossi di pianto, ma istintivamente, poiché le lagrime gli si erano raggelate sul volto in fiamme, se le portò via con due dita e, alla prima domanda lanciata nello stupore da don Giulio: Tu qua! rispose balbettando e aprendo le labbra a uno squallido sorriso:
-Eh?...
già...
sí...
a-aspettavo...
Del Carpine guardò, accigliato, il cane.
- E Liri?
Lulú Sacchi chinò gli occhi a guardarlo, come se non lo avesse prima veduto, e disse:
- Già...
Non so...
si trova qui...
Di fronte a quella smarrita scimunitaggine, don Giulio ebbe come un fremito di stizza; scese sul marciapiede della via e guardò in sú, al numero del portone.
- Insomma è qua? Dov'è?
- Che dici? - domandò Lulú Sacchi ancora col sorriso squallido su le labbra, ma come se non avesse piú una goccia di sangue nelle vene.
Del Carpine lo guardò con gli occhi invetrati.
- Chi aspettavi tu qua?
- Un...
un mio amico, - balbettò Lulú.
- È...
è andato sú...
- Con Livia? - domandò del Carpine.
- No! Che dici? - fece Lulú Sacchi, smorendo vieppiú.
- Ma se Liri è qua...
- Già, è qua; ma ti giuro che io l'ho proprio trovato per istrada, - disse col calore della verità Lulú Sacchi infoscandosi a un tratto.
- Qua? per istrada? - ripeté del Carpine, chinandosi verso il cane.
- Sai tu dunque la strada, eh, Liri? Come mai? Come mai?
La povera bestiola, sentendo la voce del padrone insolitamente carezzevole, fu presa da una subita gioja; gli si slanciò su le gambe, dimenandosi tutta; cominciò a smaniare con le zampette; s'allungò, guajolando; poi s'arrotolò per terra e, quasi fosse improvvisamente impazzita, si mise a girare, a girar di furia per l'androne; poi a spiccar salti addosso al padrone, addosso a Lulú, abbajando forte, ora, come se, in quel suo delirio d'affetto, in quell'accensione della istintiva fedeltà, volesse uniti quei due uomini, fra i quali non sapeva come spartire la sua gioja e la sua devozione.
Era veramente uno spettacolo commoventissimo la fedeltà di questo cane d'una donna infedele, verso quei due uomini ingannati.
L'uno e l'altro, ora, per sottrarsi al penosissimo imbarazzo in cui si trovavano cosí di fronte, si compiacevano molto della festa frenetica ch'esso faceva loro; e presero ad aizzarlo con la voce, col frullo delle dita: - "Qua, Liri!" - "Povero Liri!" - ridendo tutti e due convulsamente.
A un tratto però Liri s'arrestò, come per un fiuto improvviso: andò su la soglia del portone, vi si acculò un po', sospeso, inquieto, guardando nella via, con le due orecchie tese e la testina piegata da una parte, quindi spiccò la corsa precipitosamente.
Don Giulio sporse il capo a guardare, e vide allora sua moglie che svoltava dalla via, seguita dal cagnolino.
Ma sentí afferrarsi per un braccio da Lulú Sacchi, il quale - pallido, stravolto, fremente - gli disse:
- Aspetta! Lasciami vedere con chi...
- Come! - fece don Giulio, restando.
Ma Lulú Sacchi non ragionava piú; lo strappò indietro, ripetendo:
- Lasciami vedere, ti dico! Sta' zitto...
Vide Liri, che s'era fermato all'angolo della via, perplesso, come tenuto tra due, guardando verso il portone, in attesa.
Poco dopo, dalla porta segnata col numero 96 uscí un giovanottone su i vent'anni, tronfio, infocato in volto, con un paio di baffoni in sú, inverosimili.
- Il Toti! - esclamò allora Lulú Sacchi, con un ghigno orribile, che gli contraeva tutto il volto; e, senza lasciare il braccio di don Giulio, aggiunse: - Il Toti, capisci? Un ragazzaccio! Uno studentello! Capisci, che fa tua moglie? Ma gliel'accomodo io, adesso! Lasciami fare...
Hai visto? E ora basta, Giulio! Basta per tutti, sai?
E scappò via, su le furie.
Don Giulio del Carpine rimase come intronato.
Eh che? Due, dunque: Lulú messo da parte, oltrepassato? Lí, un altro, nello stesso quartierino? Un giovinastro...
Sua moglie! E come mai Lulú?...
Dunque, stava ad aspettare anche lui?...
E quel cagnolino smarrito lí, in mezzo alla via, confuso...
eh sfido!...
tra tanti...
E aveva fatto le feste anche a lui...
carino...
carino...
carino...
- Ah! - fece don Giulio, scrollandosi tutto dalla nausea, dal ribrezzo, ma pur con un segreto compiacimento che, per Lulú almeno, era come aveva detto lui: che veramente, cioè, sua moglie non aveva potuto prenderlo sul serio, e lo aveva ingannato, ecco qua; e non solo, ma anche schernito! anche schernito!
Cavò il fazzoletto e si stropicciò le mani che la bestiola devota gli aveva lambite; se le stropicciò forte forte forte, fin quasi a levarsi la pelle.
Ma, a un tratto, se lo vide accanto, chiotto chiotto, con le orecchie basse, la coda tra le gambe, quel povero Liri, che s'era provato a seguir prima la padrona, poi il Toti, poi Lulú e che ora infine aveva preso a seguir lui.
Don Giulio fu assalito da una rabbia furibonda: gli parve oscenamente scandalosa la fedeltà di quella brutta bestiola, e le allungò anche lui un violentissimo calcio.
- Va' via!
TUTTO PER BENE
I
La signorina Silvia Ascensi, venuta a Roma per ottenere il trasferimento dalla Scuola normale di Perugia in altra sede - qualunque e dovunque fosse, magari in Sicilia, magari in Sardegna - si rivolse per ajuto al giovane deputato del collegio, onorevole Marco Verona, che era stato discepolo devotissimo del suo povero babbo, il professor Ascensi dell'Università di Perugia, illustre fisico, morto da un anno appena, per uno sciagurato accidente di gabinetto.
Era sicura che il Verona, conoscendo bene i motivi per cui ella voleva andar via dalla città natale, avrebbe fatto valere in suo favore la grande autorità che in poco tempo era riuscito ad acquistarsi in Parlamento.
Il Verona, difatti, la accolse non solo cortesemente, ma con vera benevolenza.
Ebbe finanche la degnazione di ricordarle le visite che, da studente, egli aveva fatto al compianto professore, perché ad alcune di queste visite, se non s'ingannava, ella era stata presente, giovinetta allora, ma non tanto piccolina, se già - ma sicuro! - se già faceva da segretaria al babbo...
La signorina Ascensi, a tal ricordo, s'invermigliò tutta.
Piccolina? Altro che! Aveva nientemeno che quattordici anni lei, allora...
E lui, l'onorevole Verona, quanti poteva averne.
Venti, ventuno al piú.
Oh, ella avrebbe potuto ripetergli ancora, parola per parola, tutto ciò ch'egli era venuto a chiedere al babbo in quelle visite.
Il Verona si mostrò dolentissimo di non aver seguitato gli studii, pei quali il professor Ascensi aveva saputo ispirargli in quel tempo tanto fervore; poi esortò la signorina a farsi animo, poiché ella, al ricordo della sciagura recente, non aveva saputo trattener le lagrime.
Infine, per raccomandarla con maggiore efficacia, volle accompagnarla - (ma proprio scomodarsi fino a tal punto?) - sí sí, lui in persona volle accompagnarla al Ministero della Pubblica Istruzione.
D'estate, però, erano tutti in vacanza, quell'anno, alla Minerva.
Per il ministro e il sotto-segretario di Stato l'onorevole Verona lo sapeva; ma non credeva di non trovare in ufficio il capo-divisione, neppure il capo-sezione...
Dovette contentarsi di parlare col cavalier Martino Lori, segretario di prima classe, che reggeva in quel momento lui solo l'intera divisione.
Il Lori, scrupolosissimo impiegato, era molto ben visto dai superiori e dai subalterni per la squisita cordialità dei modi, per l'indole mite, che gli traspariva dallo sguardo, dal sorriso, dai gesti, e per la correttezza anche esteriore della persona linda, curata con diligenza amorosa.
Egli accolse l'onorevole Verona con molti ossequii e rosso in volto per la gioja, non solo perché prevedeva che questo deputato, senza dubbio, un giorno o l'altro sarebbe stato suo capo supremo, ma perché veramente da anni era ammiratore fervido dei discorsi di lui alla Camera.
Volgendosi poi a guardare la signorina e sapendo ch'era figlia del compianto e illustre professore dell'Ateneo perugino, il cavalier Lori provò un'altra gioja, non meno viva.
Egli aveva poco piú di trent'anni, e la signorina Silvia Ascensi aveva un curioso modo di parlare: pareva che con gli occhi - d'uno strano color verde, quasi fosforescenti - spingesse le parole a entrar bene nell'anima di chi l'ascoltava; e s'accendeva tutta.
Rivelava, parlando, un ingegno lucido e preciso, un'anima imperiosa; ma quella lucidità man mano era turbata e quella imperiosità vinta e sopraffatta da una grazia irresistibile che le affiorava in volto, vampando.
Ella notava con dispetto che, a poco a poco, le sue parole, il suo ragionamento, non avevano piú efficacia, poiché chi stava ad ascoltarla era tratto piuttosto ad ammirare quella grazia e a bearsene.
Allora, nel volto infocato, un po' per la stizza, un po' per l'ebbrezza, che istintivamente e suo malgrado le cagionava il trionfo della sua femminilità, ella si confondeva; il sorriso di chi la ammirava, si rifletteva, senza che lei lo volesse, anche su le sue labbra; scoteva con una rabbietta il capo, si stringeva nelle spalle e troncava il discorso, dichiarando di non saper parlare, di non sapersi esprimere.
- Ma no! Perché? Mi pare anzi che si esprima benissimo! - s'affrettò a dirle il cavalier Martino Lori.
E promise all'onorevole Verona che avrebbe fatto di tutto per contentar la signorina e procurarsi il piacere di rendere un servizio a lui.
Due giorni dopo, Silvia Ascensi ritornò sola al Ministero.
S'era accorta subito che per il cavalier Lori non aveva proprio bisogno di alcun'altra raccomandazione.
E con la piú ingenua semplicità del mondo andò a dirgli che non poteva piú assolutamente lasciare Roma: aveva tanto girato in quei tre giorni, senza mai stancarsi, e tanto ammirato le ville solitarie vegliate dai cipressi, la soavità silenziosa degli orti dell'Aventino e del Celio, la solennità tragica delle rovine e di certe vie antiche, come l'Appia, e la chiara freschezza del Tevere...
S'era innamorata di Roma, insomma, e voleva esservi trasferita, senz'altro.
Impossibile? Perché impossibile? Sarebbe stato difficile, via! Impossibile, no.
Dif-fi-ci-lis-si-mo, là! Ma volendo, via...
Anche comandata in qualche classe aggiunta...
Sí, sí.
Doveva farle questo piacere! Sarebbe venuta tante, tante, tante volte a seccarlo, altrimenti.
Non lo avrebbe lasciato piú in pace! Un comando era facile, no? Dunque...
Dunque, la conclusione fu un'altra.
Dopo sei o sette di quelle visite, un dopopranzo, il cavalier Martino Lori si assentò dall'ufficio, s'abbigliò come per le grandi occasioni e andò a Montecitorio a domandare dell'onorevole Verona.
Si guardava i guanti, si guardava le scarpine, si tirava fuori i polsini con le punte delle dita, molto irrequieto, aspettando l'usciere che doveva introdurlo.
Appena introdotto, per nascondere l'imbarazzo, prese a dir calorosamente all'onorevole Verona che la sua protetta chiedeva proprio l'impossibile, ecco!
- La mia protetta? - lo interruppe l'onorevole Verona.
- Quale protetta?
Il Lori, riconoscendo addoloratissimo d'aver usato, senz'ombra di malizia però, una parola che poteva prestarsi veramente a una...
sí, a una malevola interpretazione, s'affrettò a dire che intendeva parlare della signorina Ascensi.
- Ah, la signorina Ascensi? Ma allora sí, protetta! - gli rispose l'onorevole Verona, sorridendo e accrescendo l'imbarazzo del povero cavalier Martino Lori.
- Non ricordavo piú d'avergliela raccomandata e non ho indovinato in prima di chi intendesse parlarmi.
Io venero la memoria dell'illustre professore, padre della signorina e mio maestro, e vorrei che anche lei, cavaliere, ne proteggesse la figliuola - proteggesse, proprio - e me la contentasse a ogni modo, perché lo merita.
Ma se era venuto appunto per questo, il cavalier Martino Lori! Trasferirla a Roma, però, non poteva in nessun modo.
Se era lecito, ecco, desiderava di conoscere la vera ragione per cui...
per cui la signorina voleva andar via da Perugia.
Mah! Non bella, pur troppo, questa ragione.
Il professor Ascensi era stato tradito e abbandonato dalla moglie, tristissima donna, molto danarosa, la quale s'era messa a convivere con un altr'uomo degno di lei, da cui aveva avuto due o tre figli.
L'Ascensi s'era tenuta con sé, naturalmente, l'unica figliuola, restituendo a colei tutto il suo avere.
Grand'uomo, ma sprovvisto del tutto di senso pratico, il professor Ascensi aveva avuto un'esistenza tribolatissima, tra angustie e amarezze d'ogni genere.
Comperava libri e libri e libri, strumenti per il suo gabinetto, e poi non sapeva spiegarsi come mai il suo stipendio non bastasse a sopperire ai bisogni d'una famiglia ormai cosí ristretta.
Per non affliggere il babbo con privazioni, la signorina Ascensi s'era veduta costretta a darsi anche lei all'insegnamento.
Oh, la vita di quella ragazza, fino alla morte del padre, era stata un continuo esercizio di pazienza e di virtú.
Ma ella era orgogliosa, e giustamente, della fama del padre, che a fronte alta poteva contrapporre alla vergogna materna.
Ora però, morto sciaguratamente il padre e rimasta senza presidio, quasi povera e sola, non sapeva piú adattarsi a vivere a Perugia, dove stava anche la madre ricca e svergognata.
Ecco tutto.
Martino Lori, commosso a questo racconto (commosso veramente anche prima d'ascoltarlo dalla bocca autorevole d'un deputato di grande avvenire), nel licenziarsi gli lasciò intravedere il proposito di ricompensare del suo meglio quella fanciulla, tanto del sacrifizio e delle amarezze, quanto della meravigliosa devozione filiale.
E cosí la signorina Silvia Ascensi, venuta a Roma per ottenere un trasferimento, vi trovò - invece - marito.
II
Il matrimonio, però, almeno nei primi tre anni, fu disgraziatissimo.
Tempestoso.
Nel fuoco dei primi giorni Martino Lori buttò, per cosí dire, tutto se stesso; la moglie vi lasciò cadere, invece, pochino pochino di sé.
Attutita la fiamma che fonde anime e corpi, la donna ch'egli credeva divenuta ormai tutta sua, come egli era divenuto tutto di lei, gli balzò innanzi molto diversa da quella che s'era immaginata.
S'accorse, insomma, il Lori che ella non lo amava, che s'era lasciata sposare come in un sogno strano, da cui ora si destava aspra, cupa, irrequieta.
Che aveva sognato?
Di ben altro il Lori s'accorse col tempo: che ella, cioè, non solo non lo amava, ma non poteva neanche amarlo, perché le loro nature erano proprio opposte.
Non era possibile tra loro nemmeno il compatimento reciproco.
Che se egli, amandola, era disposto a rispettare il carattere vivacissimo, lo spirito indipendente di lei, ella, che non lo amava, non sapeva aver neppure sofferenza dell'indole e delle opinioni di lui.
- Che opinioni! - gli gridava, scrollandosi sdegnosamente.
- Tu non puoi avere opinioni, caro mio! Sei senza nervi...
Che c'entravano i nervi con le opinioni? Il povero Lori restava a bocca aperta.
Ella lo stimava duro e freddo perché taceva, è vero? Ma egli taceva per cansar liti! taceva perché s'era chiuso nel cordoglio, rassegnato già al crollo del suo bel sogno, d'avere cioè una compagna affettuosa e premurosa, una casetta linda, sorrisa dalla pace e dall'amore.
Rimaneva stupito Martino Lori del concetto che sua moglie s'andava man mano formando di lui, delle interpretazioni che dava dei suoi atti, delle sue parole.
Certi giorni quasi quasi dubitava fra sé ch'egli non fosse quale si riteneva, quale si era sempre ritenuto, e che avesse, senz'accorgersene, tutti quei difetti, tutti quei vizii che ella gli rinfacciava.
Aveva avuto sempre vie piane innanzi a sé; non si era mai addentrato negli oscuri e profondi meandri della vita, e forse perciò non sapeva diffidare né di se stesso né d'alcuno.
La moglie, all'incontro, aveva assistito fin dall'infanzia a scene orribili e imparato, purtroppo, che tutto può esser tristo, che nulla vi è di sacro al mondo, se finanche la madre, la madre, Dio mio...
- Ah, sí: povera Silvia, meritava scusa, compatimento, anche se vedeva il male dove non era e si dimostrava perciò ingiusta verso di lui.
Ma piú egli, con la mite bontà, cercava d'accostarsi a lei, per ispirarle una maggior fiducia nella vita, per persuaderla a piú equi giudizii, e piú ella s'inaspriva e si rivoltava.
Ma se non amore, buon Dio, almeno un po' di gratitudine per lui che, alla fin fine, le aveva ridato una casa, una famiglia, togliendola a una vita randagia e insidiosa! No; neppure gratitudine.
Era superba, sicura di sé, di potere e di saper bastare a se stessa col proprio lavoro.
E sei o sette volte, in quei primi tre anni, lo minacciò di riprendere l'insegnamento e di separarsi da lui.
Un giorno, alla fine, pose anche ad effetto la minaccia.
Ritornando quel giorno dall'ufficio, il Lori non trovò in casa la moglie.
La mattina, aveva avuto con lei un nuovo e piú aspro litigio per un lieve rimprovero che aveva osato di muoverle.
Ma già da un mese circa si addensava la tempesta ch'era scoppiata quella mattina.
Ella era stata stranissima tutto quel mese; di fosche maniere; e aveva finanche mostrato un'acerba ripugnanza per lui.
Senza ragione, al solito!
Ora, nella lettera lasciata in casa, ella gli annunziava il proposito irremovibile di romperla per sempre e che avrebbe fatto di tutto per riottenere il posto di maestra; e in fine, perché egli non desse in vane smanie e non facesse chiassose ricerche, gl'indicava l'albergo ove provvisoriamente aveva preso alloggio: ma che non andasse a trovarla, perché sarebbe stato inutile.
Il Lori rimase a lungo a riflettere con quella lettera in mano, perplesso.
Aveva troppo sofferto, e ingiustamente.
Il liberarsi però di quella donna sarebbe stato, sí, forse, un sollievo; ma anche un indicibile dolore.
Egli la amava.
E dunque, un sollievo momentaneo, e poi una gran pena e un gran vuoto per tutta la vita.
Sapeva, sentiva bene che non avrebbe potuto piú amare alcun'altra donna, mai.
E lo scandalo, inoltre, che non si meritava: egli, cosí corretto in tutto, separato ora dalla moglie, esposto alla malignità della gente, che avrebbe potuto sospettare chi sa quali torti in lui, quando Dio era testimonio di quanta longanimità, di quanta condiscendenza avesse dato prova in quei tre anni.
Che fare?
Deliberò di non muoversi per quella sera.
La notte avrebbe portato a lui consiglio, a lei forse il pentimento.
Il giorno dopo non andò all'ufficio e attese tutta la mattinata in casa.
Nel pomeriggio si disponeva ad uscire, senza aver bene tuttavia fermato l'animo ad alcuna deliberazione, quando gli pervenne dalla Camera dei deputati un invito dell'on.
Marco Verona.
Si era in crisi ministeriale: e, da alcuni giorni, alla Minerva si faceva con insistenza il nome del Verona come probabile Sottosegretario di Stato: qualcuno lo preconizzava anche Ministro.
Al Lori, fra le tante idee, era venuta anche quella di recarsi dal Verona per consiglio.
Se n'era astenuto, immaginando a quali brighe egli dovesse trovarsi in mezzo, di quei giorni.
Silvia, evidentemente, non aveva avuto questo ritegno e, sapendo ch'egli sarebbe stato a capo della Pubblica Istruzione, era forse andata da lui per farsi riammettere nell'insegnamento.
Martino Lori si rabbujò, pensando che forse il Verona, avvalendosi adesso dell'autorità di suo prossimo superiore, volesse ordinargli di non interporsi negli uffici contro il desiderio della moglie.
Ma invece Marco Verona lo accolse alla Camera con molta benignità.
Si mostrò seccatissimo d'essere stato preso, come lui diceva, al laccio.
Ministro, no, no, per fortuna! Sottosegretario.
Non avrebbe voluto assumersi neanche questa minore responsabilità, date le condizioni di quel momento politico.
La disciplina del partito lo aveva forzato.
Orbene, egli avrebbe voluto almeno nel gabinetto l'ausilio d'un uomo onesto a tutta prova ed espertissimo, e aveva perciò pensato subito a lui, al cavalier Lori.
Accettava?
Pallido per l'emozione e con le orecchie infocate, il Lori non seppe come ringraziarlo dell'onore che gli faceva, della fiducia che gli dimostrava; ma tuttavia, profondendo questi ringraziamenti, aveva negli occhi una domanda ansiosa, lasciava intender chiaramente con lo sguardo ch'egli, in verità, si aspettava un altro discorso.
Non voleva proprio nient'altro da lui l'on.
Verona, anzi Sua Eccellenza?
Questi sorrise, alzandosi, e gli posò lievemente una mano su la spalla.
Eh sí, qualcos'altro voleva; pazienza, voleva, e perdono per la signora Silvia.
Via, ragazzate!
- È venuta a trovarmi e mi ha esposto i suoi "fieri" propositi, - disse, sempre sorridendo.
- Le ho parlato a lungo e...
ma sí! ma sí! non c'è proprio bisogno che lei si discolpi, cavaliere.
So bene che il torto è della signora, e gliel'ho detto, sa? francamente.
Anzi, l'ho fatta piangere...
Sí, perché le ho parlato del padre, di quanto il padre sofferse per il tristo disordine della famiglia...
e d'altro ancora le ho parlato.
Vada via tranquillo, cavaliere.
Ritroverà a casa la signora.
- Eccellenza, io non so come ringraziarla...
- si provò a dire, commosso, il Lori inchinandosi.
Ma il Verona lo interruppe subito:
- Non mi ringrazi; e sopra tutto, non mi chiami Eccellenza.
E, licenziandolo, lo assicurò che la signora Silvia, donna di carattere, avrebbe mantenuto senza dubbio le promesse che gli aveva fatte; e che, non solo le scene spiacevoli non si sarebbero piú rinnovate, ma che ella gli avrebbe dimostrato in tutti i modi il pentimento delle ingiuste amarezze che gli aveva finora cagionate.
III
Fu veramente cosí.
La sera della riconciliazione segnò per Martino Lori una data indimenticabile: indimenticabile per tante ragioni ch'egli comprese, o meglio, intuí subito, dal modo com'ella fin dal primo vederlo gli s'abbandonò tra le braccia.
Quanto, quanto pianse! Ma quanta e quale gioja egli bevve in quelle lagrime di pentimento e di amore!
Le vere sue nozze le celebrò allora; da quel giorno ebbe la compagna sognata; e un altro suo segreto ardentissimo sogno si compí certo in quel primo ricongiungimento.
Quando Martino Lori non poté piú avere alcun dubbio su lo stato della moglie e quand'ella poi gli mise al mondo una bambina, nel vedere di quale gratitudine, di qual devozione per lui e di quali sacrifizii per la figliuola la maternità avesse reso capace quella donna, tant'altre cose comprese e si spiegò.
Ella voleva esser madre.
Forse non comprendeva e non sapeva spiegarselo neppur lei, questo segreto bisogno della sua natura; e perciò era prima cosí strana e la vita le sembrava cosí insulsa e vuota.
Voleva esser madre.
La felicità del sogno finalmente raggiunto, fu turbata soltanto dall'improvvisa caduta del Ministero di cui faceva parte l'onorevole Verona e un po' anche - nell'ombra - Martino Lori, suo segretario particolare.
Forse piú indignato dello stesso on.
Verona si mostrò il Lori per l'aggressione violenta delle opposizioni coalizzate per rovesciare, quasi senza ragione, il Ministero.
L'on.
Verona, per conto suo, dichiarò d'averne fino alla gola della vita politica, e che voleva ritirarsene per riprendere con miglior frutto e maggiore soddisfazione gli studii interrotti.
Alle nuove elezioni, infatti, riuscí a vincere le pressioni insistenti degli elettori, e non si presentò.
S'era infervorato d'una grande opera scientifica lasciata a mezzo dal professor Bernardo Ascensi.
Se la figliuola, signora Lori, gli faceva l'onore d'affidargliela, egli si sarebbe provato a seguitare gli esperimenti del maestro e a portare a compimento quell'opera.
Silvia ne fu felicissima.
In quell'anno di devota, fervida collaborazione, s'erano stretti fortemente i legami d'amicizia fra il marito e il Verona.
Il Lori, però, per quanto il Verona non avesse mai fatto pesar su lui il proprio grado e la propria dignità e lo trattasse ora con la massima confidenza, con la massima cordialità, fino a dargli e a farsi dare del tu, si mostrava timido e un po' impacciato, vedeva sempre nell'amico il superiore.
Il Verona se n'aveva per male e spesso lo motteggiava.
Rideva, sí, di quei motteggi il Lori, ma con una segreta afflizione, perché notava nell'animo dell'amico una certa amarezza che diveniva di giorno in giorno piú acre.
Ne attribuiva la causa al ritiro sdegnoso dalla vita politica, dalle lotte parlamentari; e ne parlava alla moglie e le consigliava di avvalersi di quell'ascendente, ch'ella pareva avesse su lui, per indurlo, per spingerlo a rituffarsi nella vita.
- Sí! vorrà dare ascolto a me! - gli rispondeva Silvia.
- Quando ha detto no, è no, lo sai.
Del resto, a me non pare.
Lavora con tanto impegno, con tanta passione...
Martino Lori si stringeva nelle spalle.
- Sarà cosí!
Gli pareva però che il Verona ritrovasse la serenità di prima solamente quando scherzava con la loro piccola Ginetta, che cresceva a vista d'occhio, florida e vispa.
Marco Verona aveva veramente per quella bimba certe tenerezze, che commovevano il Lori fino alle lagrime.
Gli diceva che stesse bene attento perché qualche giorno gliel'avrebbe portata via.
Sul serio, veh! non scherzava.
E Ginetta non se lo sarebbe lasciato dire due volte: avrebbe abbandonato il babbo, la mamma, è vero? anche la mamma, per andar via con lui...
Ginetta diceva di sí: cattivona! pei regali, eh? pei regali ch'egli le faceva a ogni minima occasione.
E che regali! Ne soffrivano finanche, ogni volta, il Lori e la moglie.
Questa, anzi, non sapeva tenersi dal dimostrare al Verona che se ne sentiva offesa.
Avvilimento di superbia? No.
Erano proprio troppi e di troppo costo, quei regali, e lei non voleva! Il Verona, però, beandosi della festa che Ginetta faceva a quei giocattoli, scrollava le spalle, urtato dal loro rammarico e dalle loro proteste, e finanche si rivoltava con poco garbo a imporre che si stessero zitti e lasciassero godere la bambina.
Silvia cominciò a poco a poco a dirsi stufa di questi modi del Verona, e al marito che, per scusarlo, tornava a battere su quel chiodo, ch'era stato cioè un grave danno per l'amico il ritiro dalla vita politica, rispondeva che questa non era una buona ragione pèrché egli venisse a sfogare in casa loro il malumore.
Il Lori avrebbe voluto far notare alla moglie che, in fin dei conti, quel malumore il Verona lo sfogava facendo felice la loro bambina; ma si stava zitto per non turbare l'accordo che, fin dal primo giorno della riconciliazione, s'era stabilito fra essi,
Ciò che egli, nei primi anni, aveva trovato d'ostile in lei era divenuto pregio, ora, e virtú a gli occhi suoi.
Dallo spirito, dalla fermezza, dall'energia di lei, non piú vòlti adesso contro di lui, egli si sentiva riempire tutto e sostenere.
E gli pareva cosí piena, ora, la vita e cosí solidamente fondata, con quella donna accanto, sua, tutta sua, tutta per la casa e per la figliuola.
Stimava, sí, preziosa in cuor suo l'amicizia del Verona e avrebbe voluto perciò che nell'animo della moglie non si raffermasse l'impressione ch'egli fosse divenuto importuno e fastidioso per quella soverchia affezione per Ginetta; d'altra parte però, se questa affezione troppo invadente doveva turbargli la pace della casa, la buona armonia con la moglie...
Ma come farlo intendere al Verona, che non voleva accorgersi neppure della freddezza con cui Silvia, ora, lo accoglieva?
Col crescer degli anni, Ginetta cominciò a dimostrare una passione vivissima per la musica.
Ed ecco il Verona, due, tre volte la settimana, pronto con la vettura per condurre la ragazza a questo e a quel concerto; e spesso, durante la stagione lirica, veniva a congiurar con lei, a metterla sú, perché inducesse con le sue graziette la mamma e il babbo ad accompagnarla a teatro, nel palco già fissato per lei.
Il Lori, angustiato, imbarazzato, sorrideva; non sapeva dir di no, per non scontentare l'amico e la figliuola; ma, santo Dio, il Verona avrebbe dovuto comprendere ch'egli non poteva, cosí spesso: la spesa non era soltanto per il palco e per la vettura: Silvia doveva pure vestirsi bene; non poteva far cattiva figura.
Sí, egli era ormai capo-divisione, aveva già un discreto stipendio; ma non aveva certo denari da buttar via.
Era tanta la passione per quella ragazza, che il Verona non avvertiva a queste cose e non s'avvedeva neppure del sacrifizio che doveva far Silvia, certe sere, rimanendo sola a casa, con la scusa che non si sentiva bene.
E cosí fosse sempre rimasta a casa! Una di quelle sere, ella ritornò dal teatro in preda a continui brividi di freddo.
La mattina dopo tossiva, con una febbre violenta.
E in capo a cinque giorni moriva.
IV
Per la violenza fulminea di quella morte, Martino Lori restò dapprima quasi piú sbigottito che addolorato.
Venuta la sera, il Verona, come urtato da quell'attonimento angoscioso, da quel cordoglio cupo, che minacciava di vanir nell'ebetismo, lo spinse fuori della camera mortuaria, lo forzò a recarsi dalla figlia, assicurandolo che sarebbe rimasto lui, là, a vegliare tutta la notte.
Il Lori si lasciò mandar via; ma poi, a notte alta, silenzioso come un'ombra, ricomparve nella camera mortuaria e vi trovò il Verona con la faccia affondata nella sponda del letto, su cui giaceva rigido e allividito il cadavere.
Dapprima gli parve che, vinto dal sonno, il Verona avesse reclinato lí la testa, inavvertitamente; poi, osservando meglio, s'accorse che il corpo di lui era scosso a tratti, come da singhiozzi soffocati.
Allora il pianto, il pianto che finora non aveva potuto rompergli dal cuore, assalí anche lui furiosamente, vedendo piangere cosí l'amico.
Ma questi, di scatto gli si levò contro, fremente, trasfigurato; e - come egli, convulso, gli tendeva le mani per abbracciarlo - lo respinse, proprio lo respinse con fosca durezza, con rabbia.
Doveva sentirsi in gran parte responsabile di quella sciagura, perché proprio lui, cinque sere prima, aveva forzato Silvia ad andare a teatro, ed ora non gli reggeva l'animo a veder soffrire in quel modo l'amico.
Cosí pensò il Lori, per spiegarsi quella violenza; pensò che il dolore può diversamente su gli animi: certi, li atterra; certi altri li arrabbia.
E né le visite senza fine degli impiegati subalterni, che lo amavano come un padre, né le esortazioni del Verona, che gl'indicava la figliuola smarrita nella pena e costernata per lui, valsero a scuoterlo da quella specie d'annientamento in cui era caduto, quasi che il mistero cupo e crudo di quella morte improvvisa lo avesse circondato, diradandogli tutt'intorno la vita.
Gli pareva, ora, di veder tutto diversamente, e che i rumori gli arrivassero come di lontano, e le voci, le voci stesse a lui piú note, quella dell'amico, quella della propria figliuola, avessero un suono ch'egli non aveva mai prima avvertito.
Cominciò cosí man mano a sorgere in lui da quell'attonimento come una curiosità nuova, ma spassionata, per il mondo che lo circondava, che prima non gli era mai apparso né aveva conosciuto cosí.
Era mai possibile che Marco Verona fosse stato sempre quale egli lo vedeva ora? Finanche la persona, l'aria del volto gli sembravano diverse.
E la sua stessa figliuola? Ma come! Era davvero già cresciuta di tanto? o dalla sciagura, tutt'a un tratto, era balzata su un'altra Ginetta, cosí alta, esile, un po' fredda, segnatamente con lui? Sí, somigliava nelle fattezze alla madre, ma non aveva quella grazia che, in gioventú, accendeva, illuminava la bellezza della sua Silvia; e perciò tante volte Ginetta non pareva neanche bella.
Aveva la stessa imperiosità della madre, ma senza quegl'impeti franchi, senza scatti.
Ora il Verona veniva con piú scioltezza, quasi ogni giorno a casa del Lori: spesso rimaneva a desinare o a cenare.
Aveva finalmente compiuto la poderosa opera scientifica concepita e iniziata da Bernardo Ascensi, e già attendeva a mandarla a stampa in una magnifica edizione.
Molti giornali ne recavano le prime notizie, e di alcune fra le piú importanti conclusioni avevano anche preso a discutere animatamente le maggiori riviste non solo italiane ma anche straniere, lasciando cosí prevedere la fama altissima, a cui tra breve quell'opera sarebbe salita.
Il merito del Verona per il proseguimento di essa e per le nuove ardite deduzioni tratte dalla prima idea fu, dopo la pubblicazione, riconosciuto universalmente non inferiore a quello dello stesso Ascensi.
Ne ebbe gloria questi, ma assai piú il Verona.
Da ogni parte gli fioccarono plausi e onorificenze.
Tra le altre, la nomina a senatore.
Non aveva voluto averla subito dopo la sua uscita dal mondo parlamentare; la accolse ora di buon grado, perché non gli veniva per il tramite della politica.
Martino Lori in quei giorni, pensando alla gioja, all'esultanza che avrebbe provato la sua Silvia nel veder cosí glorificato il nome del padre, s'indugiò piú a lungo nelle visite che ogni sera, uscendo dal Ministero, soleva fare alla tomba della moglie.
Aveva preso quest'abitudine; e andava anche d'inverno, con le cattive giornate, a curar le piante attorno alla gentilizia, a rinnovare i lumini nella lampada; e parlava pian piano con la morta.
La vista quotidiana del camposanto e le riflessioni ch'essa gli suggeriva, gl'improntavano sempre piú di squallore il volto.
Tanto la figlia quanto il Verona avevano cercato di distoglierlo da questa abitudine; egli dapprima aveva negato come un bambino colto in fallo; poi, costretto a confessare, aveva alzato le spalle, sorridendo pallidamente.
- Non mi fa nulla...
Anzi è per me un conforto, - aveva detto.
- Lasciatemi andare.
Tanto, se fosse ritornato a casa subito, dopo l'ufficio, chi vi avrebbe trovato? Giornalmente il Verona veniva a prendersi Ginetta.
Non se ne lagnava lui, no; anzi era gratissimo all'amico degli svaghi che procurava alla figliuola.
Quella certa asprezza che aveva avvertito in talune occasioni nei modi di lui e qualche altro lieve difetto di carattere non avevano potuto fargli scemare l'ammirazione, né tanto meno ora la gratitudine, la devozione per quest'uomo, a cui né l'altezza dell'ingegno e della fama e degli uffici a cui era salito, né la fortuna toglievano d'accordare una cosí intima, piú che fraterna amicizia a un pover'uomo come lui che, tranne il buon cuore, non si riconosceva altra virtú, altro pregio per meritarsela.
Egli vedeva adesso con soddisfazione che non s'era ingannato quando diceva alla moglie che l'affetto del Verona sarebbe stato una fortuna per la loro Ginetta.
N'ebbe la prova maggiore allorché questa compí diciott'anni.
Oh come avrebbe voluto che la sua Silvia fosse stata presente quella sera, dopo la festa per il compleanno!
Il Verona, venuto apposta senza alcun regalo in mano per Ginetta, appena questa se ne andò a dormire, se lo trasse in disparte e, serio e commosso, gli annunziò che un suo giovane amico, il marchese Flavio Gualdi, chiedeva a lui per suo mezzo la mano della figliuola.
Martino Lori, lí per lí, rimase stupito.
Il marchese Gualdi? Un nobile...
ricchissimo...
la mano di Ginetta? Andando col Verona nei concerti, nelle conferenze, a passeggio, Ginetta, sí, era potuta entrare in un mondo, a cui né per nascita né per condizione sociale avrebbe potuto accostarsi, vi aveva destato qualche simpatia; ma lui...
- Tu lo sai, - disse all'amico, quasi smarrito e afflitto nella gioja, - sai qual è il mio stato...
Non vorrei che il marchese Gualdi...
Il Verona lo interruppe:
- Gualdi sa...
sa quel che deve sapere.
- Capisco.
Ma, essendo tanta la disparità, non vorrei che egli...
per quanto predisposto, non riuscisse neppure a figurarsi tante cose...
Il Verona tornò a interromperlo, stizzito:
- Mi pareva ozioso dirtelo, ma giacché tu, scusa, mi tieni ora un discorso cosí sciocco, per tranquillarti ti dirò che, via, essendo io da tant'anni tuo amico...
- Eh, lo so!
- Ginetta è cresciuta piú con me che con te, si può dire...
- Sí...
sí...
- O che mi piangi, adesso? Non vorrò mica essere l'intermediario di questo matrimonio per nulla.
Sú, sú, finiscila! Io me ne vado.
Ne parlerai tu, domattina, a Ginetta.
Vedrai che non ti riuscirà difficile.
- Se l'aspetta? - domandò, sorridendo tra le lagrime, il Lori.
- E non hai visto che non s'è punto meravigliata nel vedermi arrivare questa sera a mani vuote?
Cosí dicendo, Marco Verona rise gajamente, come da tant'anni il Lori non lo aveva piú sentito ridere.
V
Un'impressione curiosa, di gelo, dapprincipio.
Ma non ci avrebbe fatto caso Martino Lori, perché, come tant'altre cose in vita sua s'era spiegate, persuaso dall'ingenua bontà, anche questa si sarebbe spiegata qual effetto naturale della preveduta disparità di condizione, e un po' anche del carattere, dell'educazione, della figura stessa del genero.
Non era piú giovanissimo il marchese Gualdi: era ancor biondo, d'un biondo acceso, ma già calvo: lucido e roseo come una figurina di finissima porcellana smaltata; e parlava piano con accento piú francese che piemontese, piano, piano, affettando nella voce una tal quale benignità condiscendente, che contrastava però in modo strano con lo sguardo rigido degli occhi azzurri, vitrei.
Da questi occhi il Lori s'era sentito se non propriamente respinto, quasi allontanato, e gli era parso finanche di scorgervi come una commiserazione lievemente derisoria per lui, per i suoi modi forse troppo semplici prima, ora troppo circospetti, forse.
Ma anche il tratto del tutto diverso che il Gualdi usava tanto col Verona quanto con Ginetta, egli si sarebbe spiegato; quantunque, via, paresse che la moglie a colui fosse venuta da parte dell'amico e non da lui ch'era il padre...
Veramente era stato cosí, ma il Verona...
Ecco: il Verona non sapeva spiegarsi piú, Martino Lori.
Ora che egli era rimasto solo in casa e non aveva piú neanche l'ufficio, essendosi messo a riposo per far piacere al genero, non avrebbe dovuto Marco Verona prodigargli con maggior premura il conforto dell'amicizia fraterna, di cui per tanti anni aveva voluto onoraro?
Egli, il Verona, andava ogni giorno a trovar Ginetta nel villino del Gualdi; e da lui, dall'amico, dopo il giorno delle nozze, non era piú venuto, neanche una volta per isbaglio.
S'era forse stancato di vederlo cosí chiuso ancora nel cordoglio antico, ed essendo ormai vecchio anche lui, preferiva andare dove si godeva, dove Ginetta, per opera di lui, pareva felice?
Sí, anche questo poteva darsi.
Ma perché poi, quand'egli andava a veder la figlia, e lo trovava lí, a tavola con lei e il genero, come se fosse di casa, era accolto da lui quasi con dispetto, gelidamente? Poteva darsi che quest'impressione di gelo gli fosse data dal luogo, da quella vasta sala da pranzo, lucida di specchi, splendidamente arredata? Ma che! no! no! Non si era soltanto allontanato il Verona; il tratto, il tratto di lui era proprio cangiato; gli stringeva appena la mano, appena lo guardava, e seguitava a conversar col Gualdi, come se non fosse entrato nessuno.
Per poco lí non lo lasciavano in piedi, innanzi alla tavola.
Solo Ginetta gli rivolgeva qualche parola, di tanto in tanto, ma cosí, fuor fuori, perché non si potesse dire che proprio nessuno si curava di lui.
Col cuore strizzato da un'angoscia inesplicabile, confuso e avvilito, Martino Lori se n'andava.
Non doveva proprio avere alcun rispetto per lui, alcun riguardo, il genero? Tutte le feste e gl'inviti per il Verona, perché ricco e illustre? Ma se doveva esser cosí, se volevano tutti e tre seguitare ad accoglierlo ogni sera a quel modo, come un importuno, come un intruso, egli non sarebbe andato piú; no, no, perdio, non sarebbe andato piú! Voleva stare a vedere che cosa avrebbero fatto quei signori, tutt'e tre, allora.
Ebbene, passarono due giorni; ne passarono quattro e cinque; passò un'intera settimana, e né il Verona, né il genero e neanche Ginetta, nessuno, neppure un servo, venne a chieder di lui, se per caso fosse malato...
Con gli occhi senza sguardo, vagando per la camera, il Lori si grattava di continuo la fronte con le dita irrequiete, quasi per destar la mente dal torpore angoscioso in cui era caduta.
Non sapendo piú che pensare, riandava, riandava con l'anima smarrita il passato...
Tutt'a un tratto, senza saper perché, il pensiero gli s'appuntò in un ricordo lontano, nel piú triste ricordo della sua vita.
Ardevano in quella notte funesta quattro ceri, e Marco Verona, con la faccia affondata nella sponda del letto, su cui giaceva Silvia morta, piangeva.
Fu all'improvviso come se, nella sua anima scombujata, quei ceri funebri guizzassero e accendessero un lampo livido a rischiarargli orridamente tutta la vita, fin dal primo giorno che Silvia gli era venuta innanzi, accompagnata da Marco Verona.
Sentí mancarsi le gambe, e gli parve che tutta la camera gli girasse attorno.
Si nascose il volto con le mani, tutto ristretto in sé:
- Possibile? Possibile?
Alzò gli occhi al ritratto della moglie, dapprima quasi sgomento di ciò che gli avveniva dentro; poi aggredí quel ritratto con lo sguardo, serrando le pugna e contraendo tutta la faccia in una espressione d'odio, di ribrezzo, d'orrore:
- Tu? tu?
Piú di tutti lei lo aveva ingannato.
Forse perché il pentimento di lei, dopo, era stato sincero.
Il Verona, no...
il Verona, no...
Costui gli veniva in casa, là, come un padrone e...
ma sí! forse sospettava ch'egli sapesse e fingesse di non accorgersi di nulla per vile tornaconto...
Come questo pensiero odioso gli balenò, Martino Lori sentí artigliarsi le dita e le reni fenderglisi.
Balzò in piedi; ma una nuova vertigine lo colse.
L'ira, il dolore gli si sciolsero in un pianto convulso, impetuoso.
Si riebbe, alla fine, stremato di forze e come tutto vuoto, dentro.
Piú di vent'anni c'eran voluti perché comprendesse.
E non avrebbe compreso, se quelli con la loro freddezza, con la loro noncuranza sdegnosa non gliel'avessero dimostrato e quasi detto chiaramente.
Che fare piú, dopo tant'anni? ora che tutto era finito...
cosí, da un pezzo, in silenzio...
pulitamente, come usa fra gente per bene, fra gente che sa fare a modo le cose? Non glielo avevano lasciato intendere con garbo forse, che oramai non aveva piú nessuna parte da rappresentare? Aveva rappresentato la parte del marito, poi quella del padre...
e ora basta: ora non c'era piú bisogno di lui, poiché essi, tutti e tre, si erano cosí bene intesi fra loro...
La men trista fra tutti, la meno perfida, forse era stata colei che s'era pentita subito dopo il fallo ed era morta...
E Martino Lori, quella sera, come tutte le sere, seguendo l'antica abitudine, si ritrovò per la via che conduce al cimitero.
S'arrestò, fosco e perplesso, se andare avanti o tornare indietro.
Pensò alle piante attorno alla gentilizia, che da tant'anni, ormai, curava con amore.
Là, tra poco, anch'egli avrebbe riposato...
Là sotto, accanto a lei? Ah, no, no: non piú ormai...
Eppure, come aveva pianto quella donna, allora, ritornando a lui, e di quanto affetto lo aveva circondato, dopo...
Sí, sí: s'era pentita...
A lei, sí, a lei soltanto egli forse poteva perdonare.
E Martino Lori riprese la via per il cimitero.
Aveva qualche cosa di nuovo da dire alla morta, quella sera.
LA BUON'ANIMA
Fin dal primo giorno, Bartolino Fiorenzo s'era sentito dire dalla promessa sposa:
- Lina, veramente, ecco...
Lina no, non è il mio nome.
Carolina mi chiamo.
La buon'anima mi volle chiamar Lina, e m'è rimasto cosí.
La buon'anima era Cosimo Taddei, il primo marito.
- Eccolo là!
Glielo aveva anche indicato, la promessa sposa, perché era ancora là, ridente e in atto di salutare col cappello (vivacissima istantanea fotografica ingrandita), nella parete di fronte al canapè, presso al quale Bartolino Fiorenzo stava seduto.
E istintivamente a Bartolino era venuto di inchinar la testa per rispondere a quel saluto.
A Lina Sarulli, vedova Taddei, non era neanche passato per il capo di togliere quel ritratto dal salotto, il ritratto del padrone di casa.
Era di Cosimo Taddei, infatti, la casa in cui ella abitava; lui, ingegnere, la aveva levata di pianta, lui poi cosí elegantemente arredata, per lasciargliela alla fine in eredità con l'intero patrimonio.
La Sarulli seguitò, senza notare affatto l'impaccio del promesso sposo:
- A me non piaceva cangiar nome.
Ma la buon'anima allora mi disse: "E se invece di Carolina ti chiamassi cara Lina non sarebbe meglio? Quasi lo stesso, ma tanto di piú!".
Va bene?
- Benissimo! sí, sí, benissimo! - rispose Bartolino Fiorenzo, come se la buon'anima avesse domandato a lui un parere.
- Dunque, cara Lina, siamo intesi? - concluse la Sarulli, sorridendo.
E Bartolino Fiorenzo:
- Intesi...
sí, sí...
intesi...
- balbettò, smarrito di confusione e di vergogna, pensando che il marito, intanto, guardava ridente dalla parete e lo salutava.
Quando - tre mesi dopo - i Fiorenzo, marito e moglie, accompagnati alla stazione dai parenti e dagli amici, partirono per il viaggio di nozze, diretti a Roma, Ortensia Motta, intima di casa Fiorenzo e anche amicissima della Sarulli, disse al marito, alludendo a Bartolino:
- Povero figliuolo, ha preso moglie? Io direi piuttosto che gli hanno dato marito!
Ma con ciò, si badi, la Motta non voleva mica dire che Lina Sarulli, prima Lina Taddei, ora Lina Fiorenzo, avesse piú dell'uomo che della donna.
No.
Troppo donna, anzi, quella cara Lina! Fra i due, però, via! non si poteva mettere in dubbio che avesse molta piú esperienza della vita e piú giudizio lei che lui.
Ah, lui - tondo biondo rubicondo - aveva l'aria d'un bamboccione; d'un bamboccione curioso, però: calvo, ma d'una calvizie che pareva finta, come se egli stesso si fosse rasa la sommità del capo per togliersi quell'aria infantile.
E senza riuscirci, povero Bartolino!
- Ma che povero! Ma perché povero? - miagolò, con la voce nasina, stizzito, il Motta, vecchio marito della giovine Ortensia, il quale aveva combinato quel matrimonio e non voleva se ne dicesse male.
- Bartolino non è mica uno sciocco.
Valentissimo chimico...
- Ma sí! di prima forza! - ghignò la moglie.
- Di primissima forza! - ribatté lui.
Valentissimo chimico, se avesse voluto mandare a stampa gli studii profondi, nuovi, d'indiscutibile originalità, che aveva fatto fin da giovinetto in quella scienza - passione finora unica, esclusiva della sua vita - ma senza dubbio, chi sa...
al primo concorso, chi sa di qual primaria Università del regno sarebbe stato professore.
Dotto, dotto.
E ora, come marito, sarebbe stato esemplare.
Nella vita coniugale entrava puro, vergine di cuore.
- Ah, per questo...
- riconobbe la moglie, come se, quanto a quella verginità, fosse disposta a concedere anche di piú.
Il fatto è che ella, prima che si fosse concluso quel matrimonio con la Sarulli, ogni qual volta in casa Fiorenzo sentiva consigliare dal marito allo zio di Bartolino, che bisognava "coniugare" questo ragazzo, scoppiava a ridere.
Oh, certe risate ci faceva...
- Coniugarlo, sí signora, coniugarlo! - si voltava a dirle il marito, irosamente.
E allora lei, frenandosi di scatto:
- Ma coniugatelo pure, cari miei! Io rido per me, rido di ciò che sto leggendo.
Difatti leggeva lei, mentre il Motta si faceva la solita partita a scacchi col signor Anselmo, zio di Bartolino; leggeva qualche romanzo francese alla vecchia signora Fiorenzo da sei mesi relegata in una poltrona dalla paralisi.
Oh, allegre veramente, quelle serate! Bartolino, tappato ermeticamente nel suo gabinetto di chimica; la vecchia zia, che fingeva di prestare ascolto alla lettura e non capiva piú una saetta; quegli altri due vecchi intenti alla loro partita...
Bisognava "coniugare" Bartolino per avere un po' d'allegria in casa.
Ed ecco, povero figliuolo, lo avevano coniugato davvero!
Intanto Ortensia pensava ai due sposini in viaggio, e rideva immaginandosi la Lina a tu per tu con quel giovanottone calvo, inesperto, vergine di cuore, come diceva il marito: Lina Sarulli ch'era stata quattr'anni in compagnia di quel caro ingegner Taddei, espertissimo, vivace, gioviale, e intraprendente...
anche troppo!
Forse a quell'ora la vedova sposina aveva già notato la differenza tra i due.
Prima che il treno si scrollasse per partire, lo zio Anselmo aveva detto alla nuova nipote:
- Lina, ti raccomando Bartolino...
Guidalo tu!
Intendeva dire, guidarlo per Roma, dove Bartolino non era mai stato.
Lei sí c'era stata, nel suo primo viaggio di nozze, con la buon'anima; e serbava memoria anche delle minime cose, dei piú lievi incidenti che le erano occorsi; minutissima e lucidissima memoria, quasi che fossero passati, non sei anni, ma sei mesi, da allora.
Il viaggio con Bartolino durò un'eternità: le tendine non si poterono abbassare.
Appena il treno s'arrestò alla stazione di Roma, Lina disse al marito:
- Ora lascia fare a me, ti prego.
Giú le valige! - E, al facchino che venne ad aprir lo sportello:
- Ecco: tre valige, due cappelliere, no, tre cappelliere, un porta-mantelli, un altro porta-mantelli, questo sacchetto, quest'altro sacchetto...
che altro c'è? Niente, basta.
Hotel Vittoria!
Uscendo dalla stazione, dopo ritirato il baule, riconobbe subito il conduttore dell'omnibus, e gli fe' cenno.
Come furono montati, disse al marito:
- Vedrai: albergo modesto, ma comodissimo; buon servizio, pulizia, prezzi modici, e centrale poi!
La buon'anima - senza volerlo, ella lo ricordava - se n'era trovato molto contento.
Ora, anche Bartolino senza dubbio se ne sarebbe trovato contentone.
Oh, bonissimo figliuolo! Non fiatava neppure.
- Stordito, eh? - gli disse.
- Anche a me ha fatto lo stesso effetto, la prima volta...
Ma vedrai: Roma ti piacerà.
Guarda, guarda...
Piazza delle Terme...
Terme di Diocleziano...
Santa Maria degli Angeli...
e quella là, voltati!, fino in fondo, Via Nazionale...
magnifica, non è vero? Poi ci passeremo...
Scesi all'albergo, Lina si sentí come a casa sua.
Avrebbe voluto che qualcuno la riconoscesse, come lei riconosceva quasi tutti: ecco, quel vecchio cameriere, per esempio...
Pippo, sí; lo stesso di sei anni fa.
- Che camera?
Avevano assegnato loro la camera n.
12, al primo piano: bella camera, ampia, con alcova, ben messa.
Ma Lina disse al vecchio cameriere:
- Pippo, e la camera al n.
19, al secondo piano? Vorreste vedere se fosse libera?
- Subito, - rispose il cameriere inchinandosi.
- Molto piú comoda, - spiegò Lina al marito.
- Ci dev'essere un piccolo vano accanto all'alcova...
E poi, piú aria e meno frastuono.
Staremmo molto meglio...
Ricordava che anche alla buon'anima era capitato lo stesso caso: gli avevano assegnato una camera al primo piano, e lui se l'era fatta cambiare.
Il cameriere, poco dopo, venne a dire che il n.
19 era libero e a loro disposizione, se lo preferivano.
- Ma sí! ma sí! - s'affrettò a dir Lina, lietissima, battendo le mani.
E, appena entrata, ebbe la gioja di riveder quella camera tal quale, con la stessa tappezzeria, gli stessi mobili nella stessa posizione...
Bartolino restava estraneo a quella gioja.
- Non ti piace? - gli domandò Lina, spuntandosi il cappellino innanzi al noto specchio sul cassettone.
- Sí...
va bene...
- rispose egli.
- Oh, guarda! Me n'accorgo dallo specchio...
Quel quadretto lí non c'era, allora...
C'era un piatto giapponese...
Si sarà rotto.
Ma di', non ti piace? No no no no no! Niente baci, per ora...
col muso sporco...
Tu ti laverai qua; io andrò di là nel mio bugigattolino...
Addio!
E scappò via, felice, esultante.
Bartolino Fiorenzo si guardò attorno, un po' mortificato; poi s'appressò all'alcova, ne sollevò il cortinaggio e vide il letto.
Doveva esser lo stesso in cui la moglie per la prima volta aveva dormito con l'ingegner Taddei.
E da lontano, da un ritratto appeso alla parete del salotto nella casa della moglie, Bartolino si vide salutare.
Per tutto il tempo che durò il viaggio di nozze, non solamente poi si coricò in quello stesso letto, ma desinò e cenò anche negli stessi ristoranti, dove la buon'anima aveva condotto a desinare la moglie; andò in giro per Roma, seguendo come un cagnolino i passi della buon'anima che guidava nel ricordo la moglie; visitò le antichità e i musei e le gallerie e le chiese e i giardini, vedendo e osservando tutto ciò che la buon'anima aveva fatto vedere e osservare alla moglie.
Era timido, e non osava dimostrare in quei primi giorni l'avvilimento, la mortificazione, che cominciava a provare nel dover seguire cosí, in tutto e per tutto, l'esperienza, il consiglio, i gusti, le inclinazioni di quel primo marito.
Ma la moglie non lo faceva per male.
Non se n'accorgeva, né poteva accorgersene.
A diciott'anni, priva d'ogni discernimento, d'ogni nozione della vita, era stata presa tutta da quell'uomo, e istruita e formata e fatta donna da lui; era insomma una creatura di Cosimo Taddei, doveva tutto, tutto a lui, e non pensava e non sentiva e non parlava e non si moveva se non a modo di lui.
E come mai, dunque, aveva ripreso marito? Ma perché Cosimo Taddei le aveva insegnato che alle sciagure le lagrime non son rimedio.
La vita a chi resta, la morte a chi tocca.
Se fosse morta lei, egli avrebbe certamente ripreso moglie; e dunque...
Dunque ora Bartolino doveva fare a modo di lei, cioè a modo di Cosimo Taddei, ch'era il loro maestro e la loro guida: non pensare a nulla, non affliggersi di nulla, ridere e divertirsi, poiché n'era tempo.
Ella non lo faceva per male.
Sí, ma almeno, ecco...
un bacio, una carezza, qualcosa infine che non fosse propriamente a modo di quell'altro...
Niente, niente, niente di particolare doveva egli far sentire a quella donna? Niente di suo che la sottraesse anche per poco al dominio di quel morto?
Bartolino Fiorenzo cercava, cercava...
Ma la timidezza gl'impediva d'escogitar carezze nuove.
Cioè, ne escogitava, tra sé e sé, anche di arditissime, ma poi, bastava che la moglie nel vederlo diventar rosso rosso gli domandasse:
- Che hai?
Addio, gli sbollivano tutte! Faceva un viso da scemo e le rispondeva:
- Che ho?
Di ritorno dal viaggio di nozze, furono turbati da una triste notizia inattesa: il Motta, l'autore del loro matrimonio, era morto improvvisamente.
Lina Fiorenzo, che alla morte del Taddei s'era trovata accanto Ortensia e n'aveva avuto conforto e cure da sorella, corse subito da lei, per curarla a sua volta.
Non credeva che questo compito pietoso dovesse riuscirle difficile: Ortensia, via, non doveva essere in fondo troppo afflitta di quella sciagura; buon uomo, sí, il povero Motta, ma seccantissimo e molto piú vecchio di lei.
Rimase però costernata nel ritrovare l'amica, dopo dieci giorni dalla disgrazia, addirittura inconsolabile.
Suppose che il marito la avesse lasciata in tristi condizioni finanziarie.
E arrischiò con garbo una domanda.
- No no! - s'affrettò a risponderle Ortensia, tra le lagrime.
- Ma...
capirai...
Che cosa? Tutta quella pena, sul serio? Non la capiva, Lina Fiorenzo.
E volle confessarlo al marito.
- Eh! - fece Bartolino, stringendosi nelle spalle, rosso come un gambero di fronte a quella specie d'incoscienza della moglie pur tanto sapiente.
- In fin de' conti...
dico...
le è morto il marito...
- Eh via, adesso! marito...
- esclamò Lina.
- Le poteva esser padre, a momenti!
- E ti par poco?
- Ma non era neanche padre, poi!
Lina aveva ragione.
Ortensia piangeva troppo.
Nei tre mesi del fidanzamento di Bartolino, la Motta aveva notato che il povero giovine era rimasto molto turbato della facilità con cui la promessa sposa parlava innanzi a lui del primo marito; turbato, perché non riusciva a metter d'accordo la memoria viva, continua, persistente, ch'ella serbava di colui, col fatto che ora stesse per riprender marito.
Ne aveva discusso in casa con lo zio, e questi aveva cercato di rassicurarlo, dicendogli che era anzi una prova di franchezza - quella - da parte della sposa, di cui non avrebbe dovuto offendersi, perché appunto dal fatto che ella riprendeva marito doveva venirgli la certezza che la memoria di quell'uomo non aveva piú radici nel cuore di lei, bensí nella mente soltanto, sicché dunque ella poteva parlarne senza scrupoli, anche dinanzi a lei.
Bartolino non s'era affatto raffidato, dopo questo ragionamento.
Ortensia lo sapeva bene.
Ora poi ella aveva motivo di credere che il turbamento del giovine, per quella cosí detta franchezza della moglie, dopo il viaggio di nozze, doveva essere di molto cresciuto.
Nel ricevere la visita di condoglianza dei due sposi, ella aveva voluto perciò mostrarsi, non tanto a Lina quanto a Bartolino, inconsolabile.
E Bartolino Fiorenzo rimase cosí simpaticamente impressionato di quel dolore della vedova, che per la prima volta osò contraddire alla moglie che quel dolore non voleva credere.
E le disse col volto in fiamme:
- Ma anche tu, scusa, non hai forse pianto quando t'è morto...
- Che c'entra! - lo interruppe Lina.
- Prima di tutto la buon'anima era...
- Ancor giovane, sí - disse avanti Bartolino, per non farlo dire a lei.
- E poi, io, - riprese ella, - ho pianto, ho pianto, ho pianto, è vero...
- Non molto? - arrischiò Bartolino.
- Molto, molto...
ma, in fine, mi son fatta una ragione, ecco! Credi pure, Bartolino; tutto quel pianto di Ortensia è troppo.
Bartolino non ci volle credere; Bartolino sentí anzi piú aspra entro di sé, dopo questo discorso, la stizza, ma non tanto contro la moglie, quanto contro il defunto Taddei, perché comprendeva bene ormai che quel modo di ragionare, quel modo di sentire non eran proprii di lei, della moglie, ma frutto della scuola di quell'uomo, che doveva essere stato un gran cinico.
Non si vedeva forse Bartolino, ogni giorno, entrando nel salotto, sorridere e salutare da colui?
Ah, quel ritratto lí, non poteva piú soffrirlo! Era una persecuzione! Lo aveva sempre davanti a gli occhi.
Entrava nello studio? Ed ecco: l'immagine del Taddei gli rideva e lo salutava, come per dirgli:
- Passi! passi pure! Qui era anche il mio studio d'ingegnere, sa? Ora lei vi ha allogato il suo gabinetto di chimica? Buon lavoro! La vita a chi resta, la morte a chi tocca!
Entrava nella camera da letto? Ed ecco, l'immagine del Taddei lo perseguitava anche lí.
Rideva e lo salutava:
- Si serva! si serva pure! Buona notte! È contento di mia moglie? Ah, gliel'ho istruita bene...
La vita a chi resta, la morte a chi tocca!
Non ne poteva piú! Tutta quella casa lí era piena di quell'uomo, come sua moglie.
Ed egli, tanto pacifico prima, ora si trovava in preda a un continuo orgasmo, che pur si sforzava di dissimulare.
Alla fine cominciò a fare stranezze, per scuotere le abitudini della moglie.
Se non che, queste abitudini, Lina le aveva contratte da vedova.
Cosimo Taddei, d'indole vivacissima, non aveva abitudini, non aveva voluto mai averne.
Sicché dunque Bartolino, alle prime stranezze, si sentí rimproverare dalla moglie:
- Oh Dio, Bartolino, come la buon'anima?
Ma non volle darsi per vinto.
Sforzò violentemente la propria natura per farne di nuove.
Qualunque cosa però facesse, pareva a Lina che la avesse fatta pure quell'altro, che ne aveva fatte veramente di tutti i colori.
Bartolino si avvilí; tanto piú che Lina mostrava di riprender gusto a quelle scapataggini.
Seguitando cosí, a lei doveva certo sembrare di rivivere proprio con la buon'anima.
E allora...
allora Bartolino, per dare uno sfogo all'orgasmo crescente di giorno in giorno, concepí un tristo disegno.
Veramente, egli non intese tanto di tradir la moglie quanto di vendicarsi di quell'uomo che gliel'aveva presa tutta e se la teneva ancora.
Credette che quest'idea cattiva fosse nata in lui spontaneamente; ma in verità bisogna dire in sua scusa che gli fu quasi suggerita, insinuata, infiltrata da colei che invano da scapolo aveva piú volte tentato con le sue arti di rimuoverlo dall'eccessivo studio della chimica.
Fu per Ortensia Motta una rivincita.
Ella si mostrò dolentissima d'ingannar l'amica; ma fece intendere a Bartolino che lei, prima ancora che egli prendesse moglie...
via! era quasi fatale!
Questa fatalità non apparve a Bartolino molto chiara; e però, da buon figliuolo, restò deluso, quasi frodato dalla facilità con cui era riuscito nel suo intento.
Rimasto per un tratto solo, là nella camera del buon vecchio Motta, si pentí della sua cattiva azione.
A un certo punto, gli occhi gli andarono per caso su qualcosa che luccicava su lo scendiletto, dalla parte d'Ortensia.
Era un ciondolo d'oro, con una catenella, che doveva esserle scivolato dal collo.
Lo raccolse, per restituirglielo; ma, aspettando, con le dita nervose, senza volerlo, gli venne fatto d'aprirlo.
Trasecolò.
Un ritrattino piccolo piccolo di Cosimo Taddei, anche lí.
Rideva e lo salutava.
SENZA MALIZIA
I
Quando Spiro Tempini, con le lunghe punte dei baffetti insegate come due capi di spago lí pronti per passar nel foro praticato da una lesina, facendo a leva di continuo con le dita sui polsini inamidati per tirarseli fuor delle maniche della giacca; timido e smilzo, miope e compito, chiese debitamente alla maggiore delle quattro sorelle Margheri la mano di Iduccia, la minore, e se ne andò con quelle piote ben calzate ma fuori di squadra e indolenzite, inchinandosi piú e piú volte di seguito; tanto Serafina, quanto Carlotta, quanto Zoe, quanto Iduccia stessa rimasero per un pezzo quasi intronate.
Ormai non s'aspettavano piú che a qualcuno potesse venire in mente di chieder la mano d'una di loro.
Dopo essersi rassegnate a tante gravi sciagure, alla rovina improvvisa e alla conseguente morte per crepacuore del padre, poi a quella della madre, e quindi a dover trarre profitto dei buoni studii compiuti per arricchire squisitamente la loro educazione signorile, s'erano anche rassegnate a rimaner zitelle.
Veramente, certe loro amiche carissime non volevano credere a quest'ultima rassegnazione, perché pareva loro che le Margheri, da un pezzo, si fossero come impuntate: Serafina a trent'anni; Carlotta, a ventinove; Zoe a ventisette; Ida a venticinque.
Il tempo passava, cominciava a urtarle un po' sgarbatamente alle spalle; invano.
Lí, ferme ostinatamente su la triste soglia di quegli anni oltrepassati, che stavano ad aspettare? Eh via, qualcuno che le inducesse finalmente a muoversene, ad andare innanzi non piú sole.
Quando queste care amiche sentivano dalle tre sorelle maggiori chiamar per nome l'ultima, si confessavano che faceva loro l'effetto che la chiamassero da lontano, da molto lontano, Iduccia.
Perché, a conti fatti, Ida, via! doveva aver per lo meno ventotto anni.
Intanto, ajutate da amici autorevoli, rimasti fedeli dopo la rovina, le Margheri erano riuscite col lavoro, cioè impartendo lezioni particolari di lingue straniere (inglese e francese), di pittura ad acquerello, d'arpa e di miniatura, a tener sú intatta la casa, che attestava con l'eleganza sobria e semplice della mobilia e della tappezzeria l'agiatezza in cui eran nate e di cui avevano goduto; e andavano ancora a concerti e a radunanze, accolte dovunque con molta deferenza e con simpatia per il coraggio di cui davano prova, per il garbo disinvolto con cui portavano gli abiti non piú sopraffini, per le maniere gentili e dolcissime e anche per le fattezze graziose e tuttora piacevoli.
Erano magroline (forse un po' troppo; spighite, dicevano i maligni) e di alta statura tutt'e quattro; Ida e Serafina, bionde; Carlotta e Zoe, brune.
Certamente era una bella soddisfazione per loro poter bastare a se stesse col proprio lavoro.
Avrebbero potuto morir di fame, e non morivano.
Si procuravano da mangiare, da vestir discretamente, da pagar la pigione.
E quelle care amiche che avevano marito e le altre che avevano il fidanzato o facevano all'amore si congratulavano tanto con esse di questo bel fatto; e quelle promettevano che avrebbero mandato presto la piccola Tittí o il piccolo Cocò a studiar l'arpa o la pittura ad acquerello; e le altre per miracolo, nelle effusioni d'affetto e d'ammirazione, non promettevano che si sarebbero affrettate a mettere al mondo un figliuolo, una figliuola, per avere anch'esse il piacere d'ajutare le coraggiose amiche a provvedersi da vestir discretamente, da pagar la pigione e non morire di fame.
Ma ecco intanto questo signor Tempini, piovuto dal cielo.
Ci volle un bel po', prima che le quattro sorelle rinvenissero dallo stupore.
Conoscevano il Tempini soltanto da pochi mesi; lo avevano veduto, sí e no, una dozzina di volte nei salotti ch'esse frequentavano; né pareva loro ch'egli avesse mai manifestato in alcun modo - timido com'era, e impensierito sempre di quei piedi troppo grossi, ben calzati e indolenziti - d'aver qualche mira su esse.
Quasi quasi, dopo tanta vana e smaniosa attesa, quella richiesta cosí improvvisa e insperata le contrariava; le insospettiva.
Che considerazioni aveva potuto far costui nel venirsi a cacciare, cosí a cuor leggero, con quell'aria smarrita, tra quattro ragazze sole, senza dote, senza stato se non precario, o almeno molto incerto, unite fra loro, legate inseparabilmente dall'ajuto che eran costrette a prestarsi a vicenda? Che s'era immaginato? Come s'era indotto? Che aveva fatto Iduccia per indurlo?
- Ma niente! vi giuro: nientissimo! - badava a protestare Iduccia infocata in volto.
Le sorelle dapprima si mostrarono incredule; tanto che Iduccia si stizzí e dichiarò finanche che non voleva saperne, perché le era antipatico, ecco, antipaticissimo quel...
come si chiamava? Tempini.
Eh via! eh via! Antipatico? Perché? Ma no! - Giovane serio, - disse Serafina; - giovane colto, - disse Carlotta; - laureato in legge, - disse Zoe; e Serafina aggiunse: - Segretario al Ministero di Grazia e Giustizia; - e Carlotta: - Libero docente di...
di...
non ricordo bene di che cosa, all'Università di Roma.
E lo conoscevano appena le sorelle Margheri!
Zoe finanche si ricordò che il Tempini aveva tenuto una volta una conferenza al Circolo Giuridico: sí, una conferenza con projezioni, in cui si mostravano le impronte digitali dei delinquenti - ricordava benissimo - anzi la conferenza era intitolata: Segnalamenti dactiloscopici col rilievo delle impronte digitali.
Del resto, Serafina e Carlotta avrebbero domandato maggiori ragguagli, si sarebbero consigliate con gli amici autorevoli, non perché dubitassero minimamente del Tempini, ma per far le cose proprio a modo.
II
Tre giorni dopo, Spiro Tempini fu accolto in casa, e quindi presentato nelle radunanze quale promesso sposo di Iduccia.
Di Iduccia soltanto? Pareva veramente il promesso sposo di tutt'e quattro le Margheri; anzi, piú che di Iduccia, delle altre tre; perché Iduccia, vedendo cosí naturalmente partecipi le sorelle della soddisfazione, della gioja che avrebbero dovuto esser sue principalmente, s'irrigidiva in un contegno piuttosto riserbato, e faceva peggio; ché quelle, supponendo ch'ella non riuscisse ancora a vincere la prima, ingiusta antipatia per il Tempini, ritenevano che fosse loro dovere compensarlo di quella freddezza, opprimendolo di cure, d'amorevolezze, cosí che egli non se n'accorgesse.
- Spiro, il fazzoletto da collo! Avvolgiti bene, mi raccomando.
Hai la voce un po' rauca.
- Spiro, hai le mani troppo calde.
Perché?
Poi ciascuna gli aveva chiesto un piccolo sacrifizio.
Zoe:
- Per carità, Spiro, non t'insegare piú codesti baffetti.
Carlotta:
- Se fossi in te, Spiro, me li lascerei un po' piú lunghetti i capelli.
Non ti pare, Iduccia, che pettinati cosí a spazzola gli stieno male? Meglio con la scriminatura da un lato.
Alla Guglielmo.
E Serafina:
- Iduccia dovrebbe farti smettere codesti occhiali a staffa.
Da notajo, Dio mio, o da professore tedesco! Meglio le lenti, Spiro! Un pajo di lenti, e senza laccio, mi raccomando! A pince-nez.
Alle piote, nessun accenno.
Erano irrimediabili.
In men d'un mese Spiro Tempini diventò un altro.
I maligni però lo commiseravano a torto, perché egli, cresciuto sempre solo, senza famiglia, senza cure, era felicissimo tra quelle quattro sorelle tanto buone e intelligenti e animose, che lo vezzeggiavano e gli stavano sempre attorno a domandargli ora una notizia, ora un consiglio, ora un servizietto.
- Spiro, chi è Bacone?
- Per piacere, Spiro, abbottonami questo guanto.
- Auff, che caldo! Ti seccherebbe, Spiro, di portarmi questa mantellina?
- Oh di', Spiro, sapresti regolarmi quest'orologino? Va sempre indietro...
Iduccia, zitta.
Sospettare delle sorelle, questo no, neanche per ombra; ma certo cominciava a essere un po' stufa di tutto quello sfoggio di civetteria senza malizia.
Avrebbero dovuto comprenderlo le sorelle, che diamine! avvedersi che il Tempini, essendo per natura cosí timido e servizievole, e standogli esse cosí d'attorno senza requie, tre pittime, la trascurava per badare a loro.
Non gli lasciavano piú né tempo né modo non che d'accostarsi a lei, ma neanche di respirare.
Spiro di qua, Spiro di là...
Avrebbe dovuto aver quattro braccia quel poveretto per offrirne uno a ciascuna e altrettante mani per pigliarsele tutte e quattro.
Le seccava poi maggiormente che esse, con le loro manierine, quasi quasi lo costringevano ogni volta a portar quattro regali invece di uno.
Ma sí! Gli facevano tanta festa, ogni volta, che egli, per paura che rimanessero poi deluse, si guardava bene dal recarne qualcuno particolare a lei ch'era la fidanzata.
Non parlava, Iduccia, ma certe bili ci pigliava a quello spettacolo di vezzi e di premure! Cosí, santo Dio, egli avrebbe potuto chiedere senz'altro la mano di Zoe, o di Carlotta, o anche di Serafina...
Perché aveva chiesto la sua?
Iduccia aspettava dunque con molta impazienza, quantunque senza il minimo entusiasmo, il giorno delle nozze, sperando bene che, in tal giorno almeno, una certa distinzione egli finalmente avrebbe dovuto farla.
III
Avvenne un contrattempo spiacevolissimo.
Per fare il viaggio di nozze, Spiro Tempini aveva sollecitato al Ministero di Grazia e Giustizia un lavoro straordinario.
Non ostante l'amore e il gran da fare che gli davano le tre future cognatine, lo aveva condotto a termine con quella minuziosa diligenza, con quello zelo scrupoloso che soleva mettere in tutti i lavori d'ufficio e negli studii pregiatissimi di scienza positiva.
Contava che questo lavoro gli fosse retribuito pochi giorni prima di quello fissato per le nozze; ma, all'ultimo momento, quando già tutto era disposto per la celebrazione del matrimonio, stampate le partecipazioni, spiccati gli inviti, il decreto ministeriale era stato respinto dalla Corte dei Conti per vizio di forma.
Spiro Tempini parve lí lí per cader fulminato da una congestione cerebrale.
Lui, di solito cosí timido, cosí ossequente, cosí misurato nelle espressioni, si lasciò scappare parole di fuoco contro la burocrazia, contro l'amministrazione dello Stato, anche contro il Ministro, contro tutto il Governo, che gli mandava a monte il viaggio di nozze.
Non per il viaggio di nozze in se stesso; ma perché si vedeva costretto a venir meno a un riguardo di delicatezza, verso le tre cognatine nubili.
S'era stabilito (anzi non s'era messo neanche in discussione) ch'egli avrebbe fatto casa comune con esse; sí, ma santo Dio, almeno la prima notte non avrebbe voluto rimanere lí, sotto lo stesso tetto.
S'immaginava l'imbarazzo, per non dir altro, di quelle tre povere ragazze, quando, andati via tutti gl'invitati, finita la festa, lui e Iduccia...
Ah! Ci sudava freddo.
Sarebbe stato un momento terribile, uno strappo a tutte le convenienze, un angoscioso tormento di tutta la notte...
Come la avrebbero passata quelle tre povere anime, con la sorellina divisa da loro per la prima volta, di là, in un'altra camera con lui?
Invano Spiro Tempini, per rimediarvi, pregò, scongiurò Iduccia, che si contentasse d'un viaggetto di pochi giorni, pur che fosse, d'una giterella a Frascati o ad Albano.
Iduccia - forse perché non capiva ed egli non osò di farla anzi tempo capace - Iduccia non volle saperne.
Le parve un ripiego meschino e umiliante.
Là, là, meglio rimanere a casa.
Il Tempini diede un'ingollatina e arrischiò:
- Dicevo per...
per le tue sorelle, ecco...
Ma la sposina, che si teneva già da un bel pezzo, gli piantò tanto d'occhi in faccia e gli domandò:
- Perché? Che c'entrano le mie sorelle? Ancora?
E chi sa che altro avrebbe aggiunto Iduccia, nella stizza, se non fosse stata una ragazza per bene, che doveva figurare di non capir nulla fino all'ultimo momento.
Fu però una bella festa; non molto vivace, perché si sa, l'idea delle nozze richiama alla mente di chi abbia un po' di senno e di coscienza non lievi doveri e responsabilità; ma degna tuttavia e decorosa, soprattutto per la qualità degli invitati.
Spiro Tempini, che teneva piú alla libera docenza che al posto di segretario al Ministero di Grazia e Giustizia, perché credeva di contare in fine qualche cosa fuori dell'ufficio, invitò pochi colleghi e molti professori d'Università, i quali ebbero la degnazione di parlare animatamente di studii antropologici e psicofisiologici e di sociologia e d'etnografia e di statistica.
Poi il "momento terribile" venne, e fu, pur troppo, quale il Tempini lo aveva preveduto.
Quantunque volessero sembrar disinvolte, le tre sorelle e anche Iduccia stessa vibravano dalla commozione.
Avevano trattato finora con la massima confidenza il Tempini; ma quella sera, che impaccio! che senso, nel vederlo rimanere in casa, con loro; lui solo, uomo; già nel pieno diritto d'entrare in una intimità che, per quanto timida in quei primi istanti e imbarazzata, avventava.
Profondamente turbate, con gli occhi lampeggianti, le tre sorelle guardavano la sposa e le leggevano negli occhi la stessa ambascia che strizzava le loro animucce non al tutto ignare, certo, ma perciò anzi piú trepidanti.
Iduccia si staccava da loro; cominciava da quella sera ad appartenere piú a quell'estraneo che ad esse.
Era una violenza che tanto piú le turbava, quanto piú delicate eran le maniere con cui si manifestava finora.
E poi? Poi Iduccia, lei sola, tra breve, avrebbe saputo...
Le s'accostarono, sorridendo nervosamente, per baciarla.
Subito il sorriso si cangiò in pianto.
Due, Serafina e Carlotta, scapparono via nella loro camera senza neanche volgersi a guardare il cognato; Zoe fu piú coraggiosa: gli mostrò gli occhi rossi di pianto e, alzando il pugno in cui teneva il fazzoletto, gli disse tra due singhiozzi:
- Cattivo!
IV
Ma era destino che Iduccia non dovesse godere della distinzione che il Tempini, finalmente, aveva dovuto fare tra lei e le sorelle.
La pagò, e come! questa distinzione, la povera Iduccia.
Può dirsi che cominciò a morire fin dalla mattina dopo.
Il Tempini volle dare a intendere tanto a lei quanto alle sorelle, che non era propriamente una malattia.
- Disturbi, - diceva alle cognatine, afflitto ma non impensierito.
Alla moglie diceva:
- Eh, troppo presto, Iduccia mia! troppo presto! Basta.
Pazienza.
Ma Iduccia soffriva tanto! Troppo soffriva.
Non aveva un momento solo di requie.
Nausee, capogiri, e una prostrazione cosí grave di tutte le membra che, dopo il terzo mese, non poté piú reggersi in piedi.
Abbandonata su una poltrona, con gli occhi chiusi, senza piú forza neanche di sollevare un dito, udiva intanto di là, nella saletta da pranzo, conversare lietamente le tre sorelle col marito, e si struggeva dall'invidia.
Ah che invidia rabbiosa le sorgeva man mano per quelle tre ragazze, che le pareva ostentassero innanzi a lei, cosí sconfitta, con tutti i loro movimenti, le corse pazze per le stanze, quasi una loro vittoria: quella d'esser rimaste ancora agili e salde nella loro verginità.
Era tanto il dispetto, che quasi quasi credeva il suo male provenisse principalmente dal fastidio ch'esse le cagionavano con la loro vista e le loro parole.
Ecco, ridevano, sonavano l'arpa, si paravano, come se nulla fosse, senza alcun pensiero per lei che stava tanto male.
Ma non era giusto? non era naturale?
Lei aveva marito: esse non l'avevano; bisognava dunque ch'ella ne piangesse pure le conseguenze.
Spiro, del resto, le tranquillava; diceva loro che non c'era da darsene pensiero.
La lieve afflizione che potevano sentire per il malessere di lei era poi bilanciata dalla gioia d'aver presto un nipotino, una nipotina.
Ed era tale questa gioja, ch'esse stimavano finanche ingiusti, talvolta, i lamenti e i sospiri di lei.
Ah, in certi giorni, l'invidia di Iduccia, nel veder le tre sorelle come prima, piú di prima attorno al marito, tre pecette addirittura, s'inveleniva, fino a diventar vera e propria gelosia.
Poi si calmava, si pentiva dei cattivi pensieri; diceva a se stessa ch'era giusto infine che, non potendo lei, badassero almeno loro a Spiro.
E forse, chi sa! ci avrebbero badato sempre loro, tutte e tre vestite di nero.
Perché lei sarebbe morta.
Sí, sí: lo sentiva.
N'era sicurissima! Quell'esserino che man mano le si maturava in grembo, le succhiava a filo a filo la vita.
Che supplizio lento e smanioso! Se la sentiva proprio tirare, la vita, a filo a filo, dal cuore.
Sarebbe morta.
Le tre sorelle avrebbero fatto loro da madre alla sua creaturina.
Se femmina, l'avrebbero chiamata Iduccia, come lei.
Poi, passando gli anni, nessuna delle tre avrebbe piú pensato a lei, perché avrebbero avuto un'altra Iduccia, loro.
Ma il marito? Per lui non poteva essere la stessa cosa, quella bambina.
Egli forse...
quale delle tre avrebbe scelto?
Zoe? Carlotta? Serafina?
Che orrore! Ma perché ci pensava? Tutte e tre insieme, sí, avrebbero potuto far da madre alla sua creaturina; ma se egli ne sceglieva una...
Zoe, per esempio, ecco Zoe, no, non sarebbe stata una buona madre, perché avrebbe avuto da attendere ad altri figliuoli, ai suoi; e alla piccina orfana avrebbero allora badato con piú amore Carlotta e Serafina, quelle cioè ch'egli non avrebbe scelto.
Ecco dunque: se lo faceva per il bene della sua piccina, Spiro non avrebbe dovuto sceglierne alcuna.
Non poteva forse rimanere lí, in casa, come un fratello?
Glielo volle domandare Iduccia, pochi giorni prima del parto, confessandogli la gran paura che aveva di morire e i tristi pensieri che l'avevano straziata durante tutti quei mesi d'agonia.
Spiro le diede su la voce, dapprima; si ribellò; ma poi cedendo alle insistenze di lei - ch'eran puerili, via! come quel timore - dovette giurare.
- Sei contenta, ora?
- Contenta...
Tre giorni dopo, Iduccia morí.
V
Ma potevano mai pensare sul serio le tre sorelle superstiti di prendere il posto della sorellina morta, che aveva lasciato un cosí gran vuoto nel loro cuore e nella casa? Come sospettarlo? Ma nessuna delle tre!
Ecco, faceva male Zoe, anzi, a mostrar troppo il compianto e la tenerezza per la povera piccina orfana.
Serafina e Carlotta, piú riserbate, piú chiuse, quasi irrigidite nel loro cordoglio, la richiamavano:
- Zoe!
- Perché? - domandava Zoe, dopo aver cercato invano di leggere negli occhi delle sorelle la ragione di quel richiamo.
- Lasciala stare, - le diceva freddamente Carlotta.
Serafina poi, a quattr'occhi, le consigliava di frenare un po', ecco, quelle troppo vivaci effusioni d'affetto per la bambina.
- Ma perché? - tornava a domandare Zoe, stordita.
- Quella povera cosuccia nostra!
- Va bene.
Ma innanzi a lui...
- A Spiro?
- Sí.
Frenati.
Potrebbe parergli che tu...
- Che cosa?
- Capirai...
La nostra condizione, adesso; è un po'...
un po' difficile, ecco...
Finché c'era Iduccia...
Ah già! Zoe capiva.
Finché c'era Iduccia, Spiro era come un fratello; ma ora che Iduccia non c'era piú...
Esse erano tre ragazze sole, costrette, per via di quella piccina, a convivere col cognato vedovo, e...
e...
- Dobbiamo farlo per Iduccia nostra! - concludeva Serafina, con un profondo sospiro.
Poco dopo, però, Zoe, ripensandoci meglio, domandava a se stessa:
- Che cosa dobbiamo fare per Iduccia nostra? Poche carezze alla piccina? E perché? Perché Spiro, vedendo ch'io gliene faccio troppe, potrebbe supporre...
Oh Dio! Com'è potuta venire in mente a Serafina una tale idea? Io?
Cosí tutte e tre, ora, si vigilavano a vicenda, quando Spiro era in casa e anche quando non c'era.
E questa vigilanza puntigliosa e il rigido contegno scioglievano a mano a mano e facevano cader tutti i legami d'intimità che s'eran prima annodati fraternamente tra esse e il cognato.
Questi notò presto la freddezza; ma suppose in principio che dipendesse dal cordoglio per la recente sciagura.
Poi cominciò ad avvertire negli sguardi, nelle parole, in tutte le maniere delle tre cognatine un certo ritegno quasi sospettoso, come una mutria impacciata, che distornava la confidenza.
Perché? Non intendevano piú trattarlo da fratello?
Il gelo cresceva di giorno in giorno.
E anche Spiro allora si vide costretto a frenarsi, a ritrarsi.
Un giorno gli cascarono le lenti dal naso; e invece di comperarsene un altro paio, inforcò gli occhiali a staffa già smessi per far piacere a Serafina.
La prima volta che gli toccò d'andare dal barbiere, gli disse che voleva smettere la pettinatura con la divisa da un lato, adottata per consiglio di Carlotta, e si fece tagliare i capelli a spazzola, come prima.
Non riprese a insegarsi i baffi, per non far supporre che, da vedovo, pensasse ancora ad aver cura della propria persona, quantunque Zoe però gli avesse detto che i baffi insegati gli stavano male.
Ma poi, notando che Serafina e Carlotta, a tavola, lanciavano qualche occhiata obliqua a quei baffi e poi si guardavano tra loro, temendo ch'esse potessero sospettare ch'egli intendesse usare qualche particolarità a Zoe, tornò anche a insegarsi i baffi come un tempo.
Cosí si ritrasse dall'intimità anche con la figura.
Tante cure - pensava - tante amorevolezze prima, e ora...
Ma in che aveva mancato? Era forse lui cagione, se Iduccia era morta? Era stata una sciagura.
Egli la sentiva come loro, piú di loro.
Non avrebbe dovuto anzi affratellarli di piú il dolore comune? Desideravano forse le sue cognate che si staccasse da loro e facesse casa da sé? Ma egli, rimanendo, aveva creduto di far loro piacere; le aiutava, e non poco; provvedeva lui quasi del tutto ormai al mantenimento della casa.
E poi c'era la bambina.
La piccola Iduccia.
Non la aveva egli affidata alle loro cure? Ma ecco, notava intanto con grandissimo dolore che anche la piccina era trattata con freddezza, se non proprio trascurata.
Spiro Tempini non sapeva piú che pensare.
Prese il partito di trattenersi quanto piú poteva fuori di casa, per pesare il meno possibile in famiglia.
Da tanti segni gli parve di dovere argomentare che la sua presenza dava ombra e impicciava.
Ma il gelo crebbe ancor piú.
Ora Serafina diceva a Carlotta:
- Vedi? Non sta piú in casa, il signore.
Quel poco che ci sta: guardingo, impacciato.
Chi sa che cova! Ah, povera Iduccia nostra!
Carlotta si stringeva nelle spalle:
- Che ci possiamo far noi?
- Eh già, - incalzava Serafina.
- Vorrei sapere che cosa pretenderebbe da noi, con quella freddezza.
Dovremmo forse buttargli le braccia al collo per trattenerlo? Dico la verità, non me lo sarei mai aspettato!
Carlotta abbassava gli occhi; sospirava:
- Pareva tanto buono...
Ed ecco Zoe:
- Parlate di Spiro? Uomini, e tanto basta! Tutti gli stessi.
Sono appena sei mesi, e già...
Altro sospiro di Carlotta.
Sospirava anche Serafina, e aggiungeva:
- Mi tormenta il pensiero di quella povera creaturina.
E Zoe:
- È chiaro che a lui non basta esser trattato come possiamo trattarlo noi.
E Carlotta, di nuovo con gli occhi bassi:
- Nella condizione nostra...
- Pensate, intanto, pensate, - riprendeva Serafina.
- La nostra piccola Iduccia in mano a una estranea, a una matrigna!
Le tre sorelle fremevano a questo pensiero; si sentivano proprio fendere la schiena da certi brividi, che parevano rasojate a tradimento.
No, no, via! Un sacrifizio era necessario per amore della bambina.
Necessità! Dura necessità! Ma quale delle tre doveva sacrificarsi?
Serafina pensava: "Tocca a me.
Io sono la maggiore.
Ormai qui non si tratta di fare all'amore.
Piú che una moglie per sé, egli deve scegliere una madre per la bambina.
Io sono la maggiore; dunque, la piú adatta.
Scegliendo me, dimostrerà che non ha voluto far torto alla memoria d'Iduccia.
Siamo quasi coetanei.
Ho solamente sei mesi piú di lui".
"Tocca a me" pensava invece Zoe.
"Son la minore; la piú vicina a Iduccia, sant'anima! Egli allora aveva scelto l'ultima.
Ora l'ultima sono io.
Tocca dunque a me.
Senz'alcun dubbio, se s'affaccia anche a lui la necessità di questo sacrifizio, sceglierà me."
Carlotta poi, dal canto suo, non credeva d'esser meno indicata delle altre due.
Pensava che Serafina era troppo attempatella e che, sposando Zoe, Spiro avrebbe dimostrato di badare piú a sé che alla piccina.
Le pareva indubitabile, dunque, che avrebbe scelto lei, piuttosto, che stava nel mezzo, come la virtú.
Ma Spiro? Che pensava Spiro?
Egli aveva giurato.
È vero che non sempre chi vive può serbar fede al giuramento fatto a una morta.
La vita ha certe difficoltà, da cui chi muore si scioglie.
E chi si scioglie non può tener legato chi rimane in vita.
Se non che, quando per la prima volta Spiro Tempini s'era accostato improvvisamente alle quattro Margheri, la scelta aveva potuto farla lui.
Ora, per stare in pace, capiva che avrebbero dovuto invece scegliere loro.
Ma come scegliere, Dio mio, se egli era uno ed esse erano tre?
IL DOVERE DEL MEDICO
I
- E sono miei, - pensava Adriana, udendo il cinguettio de' due bambini nell'altra stanza; e sorrideva tra sé, pur seguitando a intrecciare speditamente una maglietta di lana rossa.
Sorrideva, non sapendo quasi credere a se stessa, che quei bambini fossero suoi, che li avesse fatti lei, e che fossero passati tanti anni, già circa dieci, dal giorno in cui era andata sposa.
Possibile! Si sentiva ancor quasi fanciulla, e il maggiore dei figli intanto aveva otto anni, e lei trenta, fra poco: trenta! possibile? vecchia a momenti! Ma che! ma che! - E sorrideva.
- Il dottore? - domandò a un tratto, quasi a se stessa, sembrandole di udir nella saletta d'ingresso la voce del medico di casa; e si alzò, col dolce sorriso ancora su le labbra.
Le morí subito dopo quel sorriso, assiderato dall'aspetto sconvolto e imbarazzato del dottor Vocalòpulo, che entrava ansante, come se fosse venuto di corsa, e batteva nervosamente le palpebre dietro le lenti molto forti da miope, che gli rimpiccolivano gli occhi.
- Oh Dio, dottore?
- Nulla...
non si agiti...
- La mamma?
- No no! - negò subito, forte, il dottore.
- La mamma, no!
- Tommaso, allora? - gridò Adriana.
E, poiché il dottore, non rispondendo, lasciava intendere che si trattava proprio del marito: - Che gli è accaduto? Mi dica la verità...
Oh Dio, dov'è, dov'è?
Il dottor Vocalòpulo tese le mani, quasi per opporre un argine alle domande.
- Nulla, vedrà...
Una feritina...
- Ferito? E lei...
Me l'hanno ucciso?
E Adriana afferrò un braccio al dottore, sgranando gli occhi, come impazzita.
- Ma no, ma no, signora...
si calmi...
una ferita...
speriamo leggera...
- Un duello?
- Sí, - lasciò cadersi dalle labbra, esitando, il dottore vieppiú turbato.
- Oh, Dio, Dio, no...
mi dica la verità! - insistette Adriana.
- Un duello? Con chi? Senza dirmi nulla?
- Lo saprà.
Intanto...
intanto, calma: pensiamo a lui...
Il letto?...
- Di là...
- rispose ella, stordita, non comprendendo in prima.
Poi riprese con ansia piú smaniosa: - Dove l'hanno ferito? Lei mi spaventa...
Non era con lei, Tommaso? Dov'è? Perché s'è battuto? Con chi? Quand'è stato?...
Mi dica...
- Piano, piano...
- la interruppe il dottor Vocalòpulo, non potendone piú.
- Saprà tutto...
Adesso, è in casa la serva? Per piacere, la chiami.
Un po' di calma, e ordine: dia ascolto a me.
E mentre ella, quasi istupidita, si faceva a chiamare la serva, il dottore, toltosi il cappello, si passò una mano tremolante su la fronte, come si sforzasse di rammentare qualcosa; poi, sovvenendosi, si sbottonò in fretta la giacca, trasse dalla tasca in petto il portabiglietti e scosse piú volte la penna stilografica, pensando alle ordinazioni da scrivere.
Adriana ritornò con la serva.
- Ecco, - disse il Vocalòpulo, seguitando a scrivere.
E, appena ebbe finito: - Subito, alla farmacia piú vicina...
Fiaschi...
no, no...
andate pure, ve li darà il farmacista stesso.
Lesta, mi raccomando.
- È molto grave, dottore? - domandò Adriana, con espressione timida e appassionata, come per farsi perdonare la insistenza.
- No, le ripeto.
Speriamo bene, - le rispose il Vocalòpulo e, per impedire altre domande, aggiunse: - Mi vuol far vedere la camera?
- Sí, ecco, venga...
Ma, appena nella camera, ella domandò ancora, tutta tremante:
- Ma come, dottore; lei non era con Tommaso? Assistono pure due medici ai duelli...
- Bisognerebbe trasportare il letto un po' piú qua...
- osservò il dottore, come se non avesse inteso.
Entrò, in quel punto, di corsa un bellissimo ragazzo, dalla faccia ardita, coi capelli neri ricci e lunghi, svolazzanti.
- Mamma, una barella! Quanta gen...
Vide il medico e s'arrestò di botto, confuso, mortificato, in mezzo alla stanza.
La madre diè un grido e scostò il ragazzo per accorrere dietro al dottore.
Su la soglia questi si voltò e la trattenne:
- Stia qua, signora: sia buona! Vado io, non dubiti...
Col suo pianto gli potrà far male...
Adriana allora si chinò per stringersi forte al seno il figlioletto che le si era aggrappato alla veste, e ruppe in singhiozzi.
- Perché, mamma, perché? - domandava il ragazzo sbigottito, non comprendendo e mettendosi a piangere anche lui.
II
A piè della scala il dottore accolse la barella condotta da quattro militi della carità, mentre due questurini, ajutati dal portinajo, impedivano a una folla di curiosi d'entrare.
- Dottor Vocalòpulo! - gridava un giovanotto tra la folla.
Il dottore si voltò e gridò a sua volta alle guardie:
- Lo lascino passare: è il mio assistente.
Entri, dottor Sià.
I quattro militi si riposavano un po', preparando le cinghie per la salita.
Il portone fu chiuso.
La gente di fuori vi picchiava con le mani e coi piedi, fischiando, vociando.
- Ebbene? - domandò il dottor Vocalòpulo al Sià che sbuffava ancora, tutto sudato.
- La donna?
- Che corsa, caro professore! - rispose il dottor Cosimo Sià.
- La donna? All'ospedale...
Sono tutto sudato! Frattura alla gamba e al braccio...
- Congestione?
- Credo.
Non so...
Son venuto a tempesta.
Che caldo, per bacconaccio! Se potessi avere un bicchier d'acqua...
Il dottor Vocalòpulo scostò un poco la tendina di cerata della barella per vedere il ferito; la riabbassò subito e si volse ai militi:
- Andiamo, sú! Piano e attenzione, figliuoli, mi raccomando.
Mentre si eseguiva con la massima cautela la penosa salita, allo scalpiccío, al rumor delle voci brevi affannose, si schiudevano sui pianerottoli le porte degli altri casigliani.
- Piano, piano...
- ammoniva, quasi a ogni scalino, il dottor Vocalòpulo.
Il Sià veniva dietro, asciugandosi ancora il sudore dalla nuca e dalla fronte, e rispondeva ai casigliani:
- Il signor...
come si chiama? Corsi...
Quarto piano, è vero?
Una signora e una signorina, madre e figlia, scapparono sú di corsa per la scala con un grido d'orrore, e, poco dopo, s'intesero le grida disperate di Adriana.
Il Vocalòpulo scosse la testa, contrariato, e voltosi al Sià:
- Ci badi lei, mi raccomando, - disse, e salí a balzi le altre due branche di scala fino alla porta del Corsi.
- Via, si faccia forza, signora: non gridi cosí! Non capisce che gli farà male? Prego, signore, la conducano di là!
- Voglio vederlo! Mi lascino! Voglio vederlo! - gridava, piangendo e smaniando, Adriana.
E il medico:
- Lo vedrà, non dubiti, non ora però...
La conducano di là!
La barella era già arrivata.
- La porta! - gridò uno dei militi, ansimando.
Il dottor Vocalòpulo accorse ad aprire l'altro battente della porta, mentre Adriana, divincolandosi, trascinava seco le due vicine, imbalordite, verso la barella.
- In quale camera? Prego...
Dov'è il letto? - domandò il dottor Sià.
- Di qua...
ecco! - disse il Vocalòpulo, e gridò alle due pigionali accorse: - Ma la trattengano, perdio! Non son buone neanche da trattenerla?
- Oh Dio benedetto! - esclamò la signora del secondo piano, tozza, popputa, parandosi davanti ad Adriana furibonda.
Le due guardie erano dietro la barella e se ne stavano innanzi alla porta d'ingresso.
A un tratto, per la scala, un vociare e un salire frettoloso di gente.
Certo il portinajo aveva riaperto il portone, e la folla curiosa aveva invaso la scala.
Le due guardie tennero testa all'irruzione.
- Lasciatemi passare! - gridava tra la ressa su gli ultimi scalini, facendosi largo con le braccia, una signora alta, ossuta, vestita di nero, con la faccia pallida, disfatta, e i capelli aridi, ancor neri, non ostante l'età e le sofferenze evidenti.
Si voltava ora di qua ora di là, come se non vedesse: aveva infatti quasi spento lo sguardo tra le palpebre gonfie semichiuse.
Pervenuta alla fine innanzi alla porta, con l'aiuto di un giovinotto ben vestito, che le veniva dietro, fu su la soglia fermata dalle guardie:
- Non si entra!
- Sono la madre! - rispose imperiosamente e, con un gesto che non ammetteva replica, scostò le guardie e s'introdusse in casa.
Il giovinotto ben vestito sguisciò dentro, dietro a lei, dandosi a vedere come uno della famiglia anche lui.
La nuova arrivata si diresse a una stanza quasi buja, con un sol finestrino ferrato presso il tetto.
Non discernendo nulla, chiamò forte:
- Adriana!
Questa, che se ne stava tra le due pigionali che cercavano scioccamente di confortarla, balzò in piedi, gridando:
- Mamma!
- Vieni! vieni con me, figlia mia! povera figlia mia! Andiamocene subito! - disse in fretta, con voce vibrante di sdegno e di dolore, la vecchia signora.
- Non m'abbracciare! Tu non devi rimanere piú qua un solo minuto!
- Oh! mamma! mamma mia! - piangeva intanto Adriana, con le braccia al collo della madre.
Questa si sciolse dall'abbraccio, gemendo:
- Figlia disgraziata, piú di tua madre!
Poi dominando la commozione, riprese con l'accento di prima:
- Un cappello, subito! uno scialle! Prendi questo mio...
Andiamocene subito, coi bambini...
Dove sono? Già mi scottano i piedi, qua...
Maledici questa casa, com'io la maledico!
- Mamma...
che dici, mamma? - domandò Adriana, smarrita nell'atroce cordoglio.
- Ah, non sai? Non sai nulla ancora? non t'hanno detto nulla? non hai nulla sospettato? Tuo marito è un assassino! - gridò la vecchia signora.
- Ma è ferito, mamma!
- Da sé s'è ferito, con le sue mani! Ha ucciso il Nori, capisci? Ti tradiva con la moglie del Nori...
E lei s'è buttata dalla finestra...
Adriana cacciò un urlo e s'abbandonò su la madre, priva di sensi.
Ma la madre, non badandole, sorreggendola, seguitava a dirle tutta tremante:
- Per quella lí...
per quella lí...
te, te, figlia, angelo mio, ch'egli non era degno di guardare...
Assassino!...
Per quella lí...
capisci? capisci?
E con una mano le batteva dolcemente la spalla, carezzandola, quasi ninnandola con quelle parole.
- Che disgrazia! che tragedia! Ma com'è avvenuto? - domandò sottovoce la signora tozza del secondo piano al giovinotto ben vestito che si teneva in un angolo, con un taccuino in mano.
- Quella è la moglie? - domandò il giovinotto a sua volta, in luogo di rispondere.
- Scusi, saprebbe dirmi il casato?
- Di lei?...
Sí, fa Montesani, lei.
- E il nome, scusi?
- Adriana.
Lei è giornalista?
- Zitta, per carità! A servirla.
E mi dica, quella è la madre, è vero?
- La madre di lei, la signora Amalia, sissignore.
- Amalia, grazie, grazie.
Una tragedia, sí signora, una vera tragedia...
- È morta lei, la Noti?
- Ma che morta! La mal'erba, lei m'insegna...
È morto lui, invece, il marito.
- Il giudice?
- Giudice? No, sostituto procuratore del re.
- Sí, quel giovane...
brutto, insomma, mingherlino, calabrese, venuto da poco...
Erano tanto amici col signor Tommaso!
- Eh, si sa! - sghignò il giovinotto.
- Avviene sempre cosí, lei m'insegna...
Ma, scusi, il Corsi dov'è? Vorrei vederlo...
Se lei m'indicasse...
- Ecco, vada di là...
Dopo quella stanza, l'uscio a destra.
- Grazie, signora.
Scusi un'altra domanda: Quanti figliuoli?
- Due.
Due angioletti! Un maschietto di otto anni, una bambina di cinque...
- Grazie di nuovo; scusi...
Il giovinotto s'avviò, seguendo l'indicazione, alla camera del ferito.
Passando per la saletta d'ingresso, sorprese il bel ragazzo del Corsi che, con gli occhi sfavillanti, un sorriso nervoso su le labbra e le mani dietro la schiena, domandava a una delle guardie:
- E dimmi una cosa: come gli ha sparato, col fucile?
III
Tommaso Corsi, col torso nudo, poderoso, sorretto da guanciali, teneva i grandi occhi neri e lucidissimi intenti sul dottor Vocalòpulo, il quale, scamiciato, con le maniche rimboccate su le magre braccia pelose, premeva e studiava da presso la ferita.
Di tanto in tanto gli occhi del Corsi si levavano anche su l'altro medico, come se, nell'attesa che qualcosa a un tratto dovesse mancargli dentro, volesse coglierne il segno o il momento negli occhi altrui.
L'estremo pallore cresceva bellezza al suo maschio volto di solito acceso.
Ora egli fissò sul giornalista, che entrava timido, perplesso, uno sguardo fiero, come se gli domandasse chi fosse e che volesse.
Il giovinotto impallidí, appressandosi al letto, pur senza poter chinare gli occhi, quasi ammaliato da quello sguardo.
- Oh, Vivoli! - disse il dottor Vocalòpulo, voltandosi appena.
Il Corsi chiuse gli occhi, traendo per le nari un lungo respiro.
Lello Vivoli aspettò che il Vocalòpulo gli volgesse di nuovo lo sguardo; ma poi, impaziente:
- Ss, - lo chiamò piano e, accennando il giacente, domandò come stesse, con un gesto della mano.
Il dottore alzò le spalle e chiuse gli occhi, poi con un dito accennò la ferita alla mammella sinistra.
- Allora...
- disse il Vivoli, alzando una mano in atto di benedire.
Una goccia di sangue si partí dalla ferita e rigò lungamente il petto.
Il dottore la deterse con un bioccolo di bambagia, dicendo quasi tra sé:
- Dove diavolo si sarà cacciata la palla?
- Non si sa? - domandò timidamente il Vivoli, senza staccar gli occhi dalla ferita, non ostante il ribrezzo che ne provava.
- E di', sai di che calibro era?
- Nove...
calibro nove, - interloquí con evidente soddisfazione il giovine dottor Sià.
- Dalla ferita si può arguire...
- Suppongo, - rispose il Vocalòpulo accigliato, assorto, - che si sia cacciata qua sotto la scapola...
Eh sí, purtroppo...
il polmone...
E torse la bocca.
Indovinare, determinare il corso capriccioso della palla: per il momento, non si trattava d'altro per lui.
Gli stava davanti un paziente qualunque, sul quale egli doveva esercitare la sua bravura, valendosi di tutti gli espedienti della sua scienza: oltre a questo suo compito materiale e limitato non vedeva nulla, non pensava a nulla.
Solo, la presenza del Vivoli gli fece considerare che, essendo il Corsi conosciutissimo nella città e avendo quella tragedia sconvolto tutta la cittadinanza, poteva giovargli che il pubblico sapesse che il dottor Vocalòpulo era il medico curante.
- Oh, Vivoli, dirai che è affidato alle mie cure.
Il dottor Cosimo Sià dall'altra sponda del letto tossí leggermente.
- E puoi aggiungere, - riprese il Vocalòpulo, - che sono assistito dal dottor Cosimo Sià: te lo presento.
Il Vivoli chinò appena il capo, con un lieve sorriso.
Il Sià, che s'era precipitato con la mano tesa per stringer quella del Vivoli, all'inchino sostenuto di questo, restò goffo, arrossí, trinciò in aria con la mano già tesa un saluto, come per dire: - Ecco, fa lo stesso: Saluto cosí!
Il moribondo schiuse gli occhi e aggrottò le ciglia.
I due medici e il Vivoli lo guardarono quasi con paura.
- Adesso lo fasceremo, - disse con voce premurosa, chinandosi su lui, il Vocalòpulo.
Tommaso Corsi scosse la testa sul guanciale, poi riabbassò lentamente le palpebre su gli occhi foschi, come se non avesse compreso: cosí almeno parve al dottor Vocalòpulo, il quale, storcendo un'altra volta la bocca, mormorò:
- La febbre...
- Io scappo, - disse piano il Vivoli, salutando con la mano il Vocalòpulo e di nuovo inchinando appena il capo al Sià, che rispose, questa volta, con un inchino frettoloso.
- Sià, venga da questa parte.
Bisogna sollevarlo.
Ci vorrebbero due dei nostri infermieri...
- esclamò il Vocalòpulo.
- Basta, ci proveremo.
Ma tengo a fare una sola fasciatura, ben solida, e lí.
- Lo laviamo, ora? - domandò il Sià.
- Sí! L'alcool dov'è? e il catino, prego.
Cosí, aspetti...
Intanto, lei prepari le fasce.
Preparate? Poi la vescica di ghiaccio.
Tommaso Corsi, allorché il dottor Vocalòpulo si fece a fasciarlo, aprí gli occhi, s'infoscò in volto, tentò con una mano di scostar dal petto quelle del dottore, dicendo con voce cavernosa:
- No...
no...
- Come no? - domandò, sorpreso, il dottor Vocalòpulo.
Ma un empito di sangue impedí al Corsi di rispondere, e le parole gli gorgogliarono nella strozza soffocate dalla tosse.
Poi giacque, prostrato, privo di sensi.
E allora fu ripulito e fasciato a dovere dai due medici curanti.
IV
- No, mamma, no...
E come potrei? - rispose Adriana, appena rinvenuta, all'ingiunzione della madre d'abbandonar la casa del marito insieme coi figliuoli.
Si sentiva quasi inchiodata lí, su la seggiola, stordita e tremante, come se un fulmine le fosse caduto da presso.
E invano la madre le smaniava innanzi e la spingeva:
- Via, via, Adriana! Non mi senti?
Si era lasciata mettere uno scialletto addosso e il cappello, e guardava innanzi a sé, come una mendicante.
Non riusciva ancora a farsi un'idea dell'accaduto.
Che le diceva la madre? d'abbandonar quella casa? e come mai, in quel momento? O prima o poi avrebbe dovuto abbandonarla pur sempre? Perché? Il marito non le apparteneva piú? Si era spenta in lei l'ansia di vederlo.
Che volevano intanto quelle due guardie che la madre le accennava lí nella saletta d'ingresso?
- Meglio che muoja! Se vive, in galera!
- Mamma! - supplicò, guardandola.
Ma riabbassò subito gli occhi per trattenere le lagrime.
Sul volto della madre rilesse la condanna del marito: - "Ha ucciso il Nori; ti tradiva con la moglie del Nori".
- Non sapeva però, né poteva ancor quasi pensarlo, né immaginarlo: si vedeva ancora la barella sotto gli occhi e non poteva immaginare altri che lui - Tommaso - ferito, forse moribondo, lí...
E Tommaso dunque aveva ucciso il Nori? aveva una tresca con Angelica Nori, e tutt'e due erano stati scoperti dal marito? Pensò che Tommaso portava sempre con sé la rivoltella.
Per il Nori? No: l'aveva sempre portata, e il Nori e la moglie erano in città da un anno soltanto.
Nello scompiglio della coscienza, una moltitudine d'immagini si ridestavano in lei tumultuosamente: l'una chiamava l'altra e insieme si raggruppavano in balenanti scene precise e subito si disgregavano per ricomporsi in altre scene con vertiginosa rapidità.
Quei due eran venuti da un paese di Calabria accompagnati da una lettera di presentazione a Tommaso, il quale li aveva accolti con la festosa espansione della sua indole sempre gioconda, con aria confidenziale, col sorriso schietto di quel suo maschio volto, in cui gli occhi lampeggiavano, esprimendo la vitalità piena, l'energia operosa, costante, che lo rendevano caro a tutti.
Da quest'indole vivacissima, da questa natura esuberante, in continuo bisogno d'espandersi quasi con violenza, ella era stata investita fin dai primi giorni del matrimonio: s'era sentita trascinare dalla fretta ch'egli aveva di vivere: anzi furia, piú che fretta: vivere senza tregua, senza tanti scrupoli, senza tanto riflettere; vivere e lasciar vivere, passando sopra a ogni impedimento, a ogni ostacolo.
Piú volte ella si era arrestata un po' in questa corsa, per giudicare fra sé qualche azione di lui non stimata perfettamente corretta.
Ma egli non dava tempo al giudizio, come non dava peso ai suoi atti.
Ed ella sapeva ch'era inutile richiamarlo indietro a considerare il mal fatto: scrollava le spalle, sorrideva, e avanti! aveva bisogno d'andare avanti a ogni modo, per ogni via, senza indugiarsi a riflettere tra il bene e il male; e rimaneva sempre alacre e schietto, purificato dall'attività incessante, e sempre lieto e largo di favori a tutti, con tutti alla mano: a trent'otto anni, un fanciullone, capacissimo di mettersi a giocar sul serio coi due figliuoli, e ancora, dopo dieci anni di matrimonio, cosí innamorato di lei, che ella tante volte, anche di recente, aveva dovuto arrossire per qualche atto imprudente di lui innanzi ai bambini o alla serva.
E ora, cosí d'un colpo, quest'arresto fulmineo, questo scoppio! Ma come? come? La cruda prova del fatto non riusciva ancora a dissociare in lei i sentimenti, piú che di solida stima, d'amore fortissimo e devoto per il marito, da cui si sentiva in cuor suo ricambiata.
Forse qualche lieve inganno, sí, sotto quella tumultuosa vitalità; ma la menzogna, no, la menzogna non poteva annidarsi sotto l'allegria costante di lui.
Che egli avesse una tresca con Angelica Nori, non significava, no, aver tradito lei, la moglie; e questo la madre non poteva comprenderlo, perché non sapeva, non sapeva tante cose...
Egli non poteva aver mentito con quelle labbra, con quegli occhi, con quel riso che allegrava tutti i giorni la casa.
- Angelica Nori? Oh ella sapeva bene che cosa fosse costei, anche per il marito: neppure un capriccio: nulla, nulla! la prova soltanto d'una debolezza, nella quale nessun uomo forse sa o può guardarsi dal cadere...
Ma in quale abisso era egli adesso caduto? e la sua casa e lei coi figliuoli giú, giú con lui?
- Figli miei! figli miei! - proruppe alla fine, singhiozzando, con le mani sul volto, quasi per non veder l'abisso che le si spalancava orribile davanti.
- Portali via con te, - aggiunse, rivolgendosi alla madre.
- Loro sí, portali via, ché non vedano...
Io no, mamma: io resto.
Te ne prego...
Si alzò e, cercando alla meglio di trattener le lagrime, andò, seguita dalla madre, in cerca dei bambini che giocavano tra loro in un camerino, ove la serva li aveva chiusi.
Si mise a vestirli, soffocando i singhiozzi che le irrompevano dal petto a ogni loro lieta domanda infantile.
- Con la nonna, sí...
a spasso con la nonna...
E il cavalluccio, sí...
la sciabola pure...
Te li compra la nonna...
Questa contemplava, straziata, la sua cara figliuola, la creatura sua adorata, tanto buona, tanto bella, per cui tutto ormai era finito; e, nell'odio feroce contro colui che gliela faceva soffrir cosí, avrebbe voluto strapparle dalle mani quel bambino che somigliava tutto al padre, fin nella voce e nei gesti.
- Non vuoi proprio venire? - domandò alla figlia, quando i bambini furono pronti.
- Io, bada, qua non metto piú piede.
Resti sola...
La casa di tua madre è aperta.
Ci verrai, se non oggi, domani.
Ma già, anche se non morisse...
- Mamma! - supplicò Adriana, additandole i bambini.
La vecchia signora tacque e andò via coi nipotini, vedendo uscire dalla camera del ferito il dottor Vocalòpulo.
Questi si appressò ad Adriana per raccomandarle di non farsi vedere per il momento dal marito.
- Un'emozione improvvisa, anche lieve, potrebbe riuscirgli fatale.
Non si faccia nulla, per carità, che possa contrariarlo o impressionarlo in qualche modo.
Questa notte resterà a vegliarlo il mio collega.
Se ci fosse bisogno di me...
Non terminò il discorso, notando che ella non gli dava ascolto né gli domandava notizie intorno alla gravità della ferita, e che aveva in capo il cappellino, come se stesse per abbandonare la casa.
Socchiuse gli occhi, scosse un po' il capo, sospirando, e andò via.
V
Nella notte, Tommaso Corsi si riscosse incosciente dal letargo.
Stordito dalla febbre, teneva gli occhi aperti nella penombra della camera.
Un lampadino ardeva sul cassettone, riparato da uno specchio a tre luci: il lume si projettava su la parete vivamente, precisando il disegno e i colori della carta da parato.
Aveva solo la sensazione che il letto fosse piú alto, e che soltanto per ciò notasse in quella camera qualcosa che prima non vi aveva mai notato.
Vedeva meglio l'insieme dell'arredo, il quale, nella quiete altissima, gli pareva spirasse, dall'immobilità sua quasi rassegnata, un conforto familiare, a cui le ricche tende, che dall'alto scendevano fin sul tappeto, davano un'aria insolita di solennità.
"Noi siamo qui, come tu ci hai voluti, per i tuoi comodi" pareva gli dicessero, nella coscienza che man mano si risentiva, i varii oggetti della camera: "siamo la tua casa: tutto è come prima".
A un tratto richiuse gli occhi, quasi abbagliato bruscamente nella penombra da un lampo di luce cruda: la luce che s'era fatta in quell'altra camera, quando colei, urlando, aveva aperto la finestra, d'onde s'era buttata.
Riebbe allora, d'un subito, la memoria orrenda: rivide tutto, come se accadesse proprio allora.
Egli, trattenuto dall'istintivo pudore, non riusciva a balzar dal letto, svestito com'era, e il Noti, ecco, gli esplodeva contro il primo colpo che infrangeva il vetro di un'immagine sacra al capezzale; egli tendeva la mano alla rivoltella sul comodino, ed ecco il sibilo della seconda palla innanzi al volto...
Ma non ricordava d'aver tirato sul Noti: solo quando questi era caduto a sedere sul pavimento, e poi s'era ripiegato bocconi, egli s'era accorto d'aver l'arma ancor calda e fumante in pugno.
Era allora saltato dal letto e, in un attimo, entro di sé, la tremenda lotta di tutte le energie vitali contro l'idea della morte; prima, l'orrore di essa; poi la necessità e il sorgere d'un sentimento atroce, oscuro, a vincere ogni ripugnanza e ogni altro sentimento.
Aveva guardato il cadavere, la finestra donde quella era saltata; aveva udito i clamori della via sottostante, e s'era sentito aprire come un abisso nella coscienza: allora la determinazione violenta gli s'era imposta lucidamente, come un atto a lungo meditato e discusso.
Sí.
Cosí era stato.
- No -, diceva a se stesso, un istante dopo, riaprendo gli occhi brillanti di febbre.
- No; se questa è la mia casa, se io sto qui sul mio letto...
Gli pareva di udir voci liete e confuse di là, nelle altre stanze.
Aveva fatto mettere quelle tende nuove e i tappeti alle stanze per il battesimo dell'ultimo bambino, morto di venti giorni.
Ecco, gli invitati tornavano or ora dalla chiesa.
Angelica Noti, a cui egli offriva il braccio, glielo stringeva a un tratto furtivamente con la mano; egli si voltava a guardarla, stupito, ed ella accoglieva quello sguardo con un sorriso impudente, da scema, e chiudeva voluttuosamente le palpebre su i grandi occhi neri, globulenti, in presenza di tutti.
"Quel bambino è morto, - pensava ora egli, - perché l'ha tenuto a battesimo colui, ch'era fra l'altro un jettatore."
Immagini imprevedute, visioni strane, confuse, sensazioni fantastiche, improvvise, pensieri lucidi e precisi, si avvicendavano in lui, nel delirio intermittente.
Sí, sí, lo aveva ucciso.
Ma due volte quel forsennato s'era messo per uccider lui, ed egli nel volgersi per prendere l'arma dal comodino gli aveva gridato sorridendo: "Che fai?" tanto gli pareva impossibile che colui, prima ch'egli si vedesse costretto a minacciarlo e a reagire, non comprendesse ch'era un'infamia, una pazzia ucciderlo a quel modo, in quel momento, uccider lui che si trovava lí per caso, che aveva tant'altra vita fuori di lí: i suoi affari, gli affetti suoi vivi e veri, la sua famiglia, i figli da difendere.
Eh via, disgraziato!
Come mai tutt'a un tratto, quell'omiciattolo sbricio, brutto, scialbo, dall'anima apatica, attediata, che si trascinava nella vita senza alcuna voglia, senz'alcun affetto, e che da tant'anni si sapeva spudoratamente ingannato dalla moglie e non se ne curava, a cui pareva costasse pena e fatica guardare o trar fuori quella sua voce molle miagolante; come mai, tutt'a un tratto, s'era sentito muovere il sangue e per lui soltanto? Non sapeva che donna fosse sua moglie? e non sentiva ch'era una cosa ridicola e pazza e infame nello stesso tempo difender a quel modo ancora l'onor suo affidato a colei, che ne aveva fatto strazio tant'anni, senza che egli avesse mai mostrato d'accorgersene? Ma aveva pure assistito - sí, sí - a tante scene familiari, in cui ella, proprio sotto gli occhi di lui, sotto gli occhi stessi d'Adriana, aveva cercato di sedurlo con quei suoi lezii da scimmietta patita.
Adriana sí se n'era accorta, e
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