LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 9
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Sul punto di partire, da quegli stessi monellacci che erano corsi con lei in cerca della cagnolina, ansanti, esultanti per la speranza d'una buona mancia, le fu presentata la povera Mimí, piú morta che viva.
Ma miss Galley, contraffatta dall'ira, con un violentissimo scatto la respinse, storcendo la faccia.
Mimí, all'urto furioso, cadde a terra, batté il musetto e, con acuti guaiti, corse ranca ranca a ficcarsi sotto un divano alto appena tre dita dal suolo, mentre la padrona inviperita montava sul legno e gridava al vetturino:
- Via!
Il Ronchi, i camerieri, i bagnanti rientrati di corsa alla Pensione, restarono un pezzo a guardarsi tra loro, sbalorditi; poi ebbero pietà della povera cagnolina abbandonata; ma, per quanto la chiamassero e la invitassero coi modi piú affettuosi, non ci fu verso di farla uscire da quel nascondiglio.
Bisognò che il Ronchi, ajutato da un cameriere, sollevasse e scostasse il divano.
Ma allora Mimí s'avventò alla porta come una freccia e prese la fuga.
I monelli le corsero dietro, girarono tutto il paese, per ogni verso, arrivarono fin presso la stazione: non la poterono rintracciare.
Il Ronchi, che aveva avuto per lei tante noje, scrollò le spalle, esclamando:
- O vada a farsi benedire!
Dopo cinque o sei giorni, verso sera, Mimí, sudicia, scarduffata, famelica, irriconoscibile, fu rivista per le vie di Chianciano, sotto la pioggia lenta, che segnava la fine della stagione.
Gli ultimi bagnanti partivano: in capo a una settimana, il paesello, annidato su l'alto colle ventoso, avrebbe ripreso il fosco aspetto invernale.
- To', la cagnetta della signorina! - disse qualcuno, vedendola passare.
Ma nessuno si mosse a prenderla, nessuno la chiamò.
E Mimí seguitò a vagare, sotto la pioggia.
Era già stata alla Pensione Ronchi, ma l'aveva trovata chiusa, perché il proprietario s'era affrettato di andare in campagna per la vendemmia.
Di tratto in tratto s'arrestava a guardare con gli occhietti cisposi tra i peli, come se non sapesse ancora comprendere come mai nessuno avesse pietà di lei cosí piccola, di lei cosí carezzata prima e curata: come mai nessuno la prendesse per riportarla alla padrona, che l'aveva perduta, alla padrona, che essa aveva cercato invano per tanto tempo e cercava ancora.
Aveva fame, era stanca, tremava di freddo, non sapeva piú dove andare, dove rifugiarsi.
Nei primi giorni, qualcuno, nel vedersi seguito da lei, si chinò a lisciarla, a commiserarla; ma poi, seccato di trovarsela sempre alle calcagna, la cacciò sgarbatamente.
Era gravida.
Pareva quasi impossibile: una coserellina cosí, che non pareva nemmeno: gravida! E la scostavano col piede.
Fanfulla Mochi, dalla soglia della bottega, vedendola trotterellar per via, sperduta, un giorno la chiamò; le diede da mangiare; e siccome la povera bestiola, ormai avvezza a vedersi scacciata da tutti, se ne stava con la schiena arcuata, per paura, come in attesa di qualche calcio, la lisciò, la carezzò, per rassicurarla.
La povera Mimí, quantunque affamata, lasciò di mangiare per leccar la mano del benefattore.
Allora Fanfulla chiamò Pallino, che dormiva nella cuccia sotto il banco:
- Cane, figlio di cane, brutto libertino scodato, guarda qua la tua sposa!
Ma ormai Mimí non era piú una cagnetta signorina, era divenuta una cagnetta di strada, una delle tante del paese.
E Pallino non la degnò nemmeno d'uno sguardo.
NEL SEGNO
Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all'ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d'introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejòtica.
La capo-sala la guardò male.
- Vuoi farti vedere dagli studenti?
- Sí, per favore; prendete me.
- Ma lo sai che sembri una lucertola?
- Lo so.
Non me n'importa! Prendete me.
- Ma guarda un po' che sfacciata.
E che ti figuri che ti faranno là dentro?
- Come a Nannina, - rispose la Òsimo.
- No?
Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall'ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico.
- E ci vuoi andare? - concluse quella.
- Per me, ti servo.
Ma bada che il segno non te lo levi piú per molti giorni, neppure col sapone.
La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo:
- Voi portatemi, e non ve ne curate.
Le era tornato in volto un po' di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli.
Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti.
E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte.
Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo.
Già due altre volte era sta lí, all'ospedale.
La prima volta, per...
- eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all'ospizio dei trovatelli.
La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all'ospedale piú di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo.
Ora c'era per l'anemia, da un mese.
A forza d'iniezioni di ferro s'era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall'ospedale.
Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur cosí sconsolata.
Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime.
Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai piú altro che morire.
Vittima come era, però, d'una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell'oscura minaccia.
Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose.
Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto.
Invano, allora, le buone suore assistenti s'eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sí; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s'allentava per quelle esortazioni.
Nessuna cosa piú la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s'era illusa, che il vero inganno le era venuto dall'inesperienza, dall'appassionata e credula sua natura, piú che dal giovine a cui s'era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo.
Ma rassegnarsi, no, non poteva.
Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei.
Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni.
Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno...
Sí, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: - Ma un giorno...
- e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire.
Ma lei non mentiva.
Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studii, non fosse venuto a mancare cosí di colpo, laggiú, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d'un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele.
Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d'un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa.
Cosí era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli piú piccoli del barone e anche un po' come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso.
Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità.
Ma che glien'importava, allora? Lavorava con tutto il cuore, per acquistarsi la benevolenza paterna di chi la ospitava, con una speranza segreta: che quelle sue cure amorose, cioè, quei suoi servizi senz'alcun compenso, dopo il sacrificio del padre, valessero a vincere l'opposizione che forse il barone avrebbe fatta al figliuolo maggiore, Riccardo, quando questi, come già le aveva promesso, gli avrebbe dichiarato l'amore che sentiva per lei.
Oh, era sicurissimo Riccardo che il padre avrebbe condisceso di buona voglia; ma aveva appena diciannove anni, era ancora studente di liceo; non si sentiva il coraggio di far quella dichiarazione ai genitori: meglio aspettare qualche anno.
Ora, aspettando...
Ma lí, possibile? nella stessa casa, sempre vicini, fra tante lusinghe, dopo tante promesse, con tanti giuramenti...
La passione la aveva accecata.
Quando, alla fine, il fallo non s'era piú potuto nascondere, cacciata via! Sí, proprio cacciata via, poteva dire, senz'alcuna misericordia, senz'alcun riguardo neanche per il suo stato.
Il Barni aveva scritto a una vecchia zia di lei, perché fosse venuta subito a riprendersela e a portarsela via, laggiú in Calabria, promettendo un assegno; ma la zia aveva scongiurato il barone di aspettare almeno che la nipote si fosse prima liberata a Roma, per non affrontar lo scandalo in un piccolo paese; e il Barni aveva ceduto, ma a patto che il figliuolo non ne avesse saputo nulla e le avesse credute già fuori di Roma.
Dopo il parto, però, ella non era voluta tornare in Calabria; il barone, allora, su tutte le furie, aveva minacciato di togliere l'assegno; e lo aveva tolto difatti, dopo il tentato suicidio.
Riccardo era partito per Firenze; lei, salvata per miracolo, s'era messa a far la giovine di sarta per mantenere sé e la zia.
Era passato un anno; Riccardo era tornato a Roma; ma ella non aveva nemmen tentato di rivederlo.
Fallitole il proposito violento, s'era fitto in capo di lasciarsi morire a poco a poco.
La zia, un bel giorno, aveva perduto la pazienza e se n'era ritornata in Calabria.
Un mese addietro, durante uno svenimento in casa della sarta presso la quale lavorava, era stata condotta lí all'ospedale, e c'era rimasta per curarsi dell'anemia.
L'altro giorno, intanto, dal suo lettino, Raffaella Òsimo aveva veduto passare per la corsia gli studenti di medicina che facevano il corso di semejòtica, e fra questi studenti aveva riveduto, dopo circa due anni, Riccardo, con accanto una giovinetta, che doveva essere una studentessa anche lei, bionda, bella, straniera all'aspetto: e dal modo con cui la guardava...
- ah, Raffaella non poteva ingannarsi! - appariva chiaramente che n'era innamorato.
E come gli sorrideva lei, pendendo quasi dagli occhi di lui...
Li aveva seguiti con lo sguardo fino in fondo alla corsia; poi era rimasta con gli occhi sbarrati, levata su un gomito.
Nannina, la sua vicina di letto, s'era messa a ridere.
- Che hai veduto?
- Nulla...
E aveva sorriso anche lei, riabbandonandosi sul letto, perché il cuore le batteva come volesse balzarle dal seno.
Era venuta poi la capo-sala a invitare Nannina a vestirsi, perché il professore la voleva di là per la lezione agli studenti.
- E che debbono farmi? - aveva domandato Nannina.
- Ti mangeranno! Che vuoi che ti facciano? - le aveva risposto quella.
- Tocca a te; toccherà anche alle altre.
Tanto, tu domani andrai via.
Aveva tremato, dapprima, Raffaella al pensiero che potesse toccare anche a lei.
Ah, cosí caduta, cosí derelitta, come ricomparirgli davanti, lí? Per certi falli, quando la bellezza sia sparita, né compatimento, né commiserazione.
Certo i compagni di Riccardo, vedendola cosí misera, lo avrebbero deriso:
- Come! Con quella lucertolina t'eri messo?
Non sarebbe stata una vendetta.
Né lei, del resto, voleva vendicarsi.
Quando però, dopo circa mezz'ora, Nannina era ritornata al suo lettuccio e le aveva spiegato che cosa le avevano fatto di là e mostrato il corpo tutto segnato, Raffaella improvvisamente aveva cangiato idea; ed ecco, fremeva d'impazienza, ora, aspettando l'arrivo degli studenti.
Giunsero, alla fine, verso le dieci.
C'era Riccardo e, come l'altro giorno, accanto alla studentessa straniera.
Si guardavano e si sorridevano.
- Mi vesto? - domandò Raffaella alla capo-sala, balzando a sedere tutt'accesa sul letto, appena quelli entrarono nella sala in fondo alla corsia.
- Ih che prescia! giú, - le impose la capo-sala, - aspetta prima che il professore dia l'ordine.
Ma Raffaella, come se colei le avesse detto: - Vestiti! - prese a vestirsi di nascosto.
Era già bella e pronta sotto le coperte, quando la capo-sala venne a chiamarla.
Pallida come una morta, convulsa in tutto il misero corpicino, sorridente, con gli occhi sfavillanti e i capelli che le cascavano da tutte le parti, entrò nella sala.
Riccardo Barni, parlava con la giovine studentessa e non s'accorse in prima di lei, che - smarrita fra tanti giovani - lo cercava con gli occhi e non sentiva il medico primario, libero docente di semejòtica, che le diceva:
- Qua, qua, figliuola!
Alla voce del professore, il Barni si voltò e vide Raffaella che lo fissava, avvampata ora in volto: allibí; diventò pallidissimo; gli s'intorbidò la vista.
- Insomma! - gridò il professore.
- Qua!
Raffaella sentí ridere tutti gli studenti e si riscosse vieppiú smarrita; vide che Riccardo si ritraeva in fondo alla sala, verso la finestra; si guardò attorno; sorrise nervosamente e domandò:
- Che debbo fare?
- Qua, qua, qua, stendetevi qua! - le ordinò il professore che stava a capo d'un tavolino, su cui era stesa una specie d'imbottita.
- Eccomi, sissignore! - s'affrettò a ubbidire Raffaella; ma siccome stentava a tirarsi sú a sedere sul tavolino, sorrise di nuovo e disse: - Non ci arrivo...
Uno studente la ajutò a montare.
Seduta, prima di stendersi, guardò il professore, ch'era un bell'uomo, alto di statura, tutto raso, con gli occhiali d'oro, e gli disse, indicando la studentessa straniera:
- Se me lo facesse disegnare da lei...
Nuovo scoppio di risa degli studenti.
Sorrise anche il professore:
- Perché? Ti vergogni?
- Nossignore.
Ma sarei piú contenta.
E si volse a guardare verso la finestra, là in fondo, ove Riccardo s'era rincantucciato, con le spalle volte alla sala.
La bionda studentessa seguí istintivamente quello sguardo.
Aveva già notato l'improvviso turbamento del Barni.
Ora s'accorse ch'egli s'era ritirato là, e si turbò anche lei vivamente.
Ma il professore la chiamò:
- Sú, dunque, a lei, signorina Orlitz.
Contentiamo la paziente.
Raffaella si stese sul tavolino e guardò la studentessa che si sollevava la veletta su la fronte.
Ah, com'era bella, bianca e delicata, con gli occhi celesti, dolci dolci.
Ecco che si liberava dalla mantella, prendeva il lapis dermografico che il professore le porgeva e si chinava su lei per scoprirle, con mani non ben sicure, il seno.
Raffaella Òsimo serrò gli occhi per vergogna di quel suo misero seno, esposto agli sguardi di tanti giovani, là attorno al tavolino.
Sentí posarsi una mano fredda sul cuore.
- Batte troppo...
- disse subito, con spiccato accento esotico, la signorina, ritraendo la mano.
- Quant'è che siete all'ospedale? - domandò il professore.
Raffaella rispose, senza schiuder gli occhi; ma con le palpebre che le fervevano, nervosamente:
- Trentadue giorni.
Son quasi guarita.
- Senta se c'è soffio anemico, - riprese il professore, porgendo alla studentessa lo stetoscopio.
Raffaella sentí sul seno il freddo dello strumento; poi la voce della signorina che diceva:
- Soffio, no...
Palpitazione, troppo.
- Andiamo, faccia la percussione, - ingiunse allora il professore.
Ai primi picchi, Raffaella piegò da un lato la testa, strinse i denti e si provò ad aprire gli occhi; li richiuse subito, facendo un violento sforzo su se stessa per contenersi.
Di tratto in tratto come la studentessa sospendeva un po' la percussione per segnare sotto il dito medio una breve lineetta con il lapis intinto in un bicchier d'acqua che uno studente lí presso reggeva, ella soffiava penosamente per le nari il fiato trattenuto..
Quanto durò quel supplizio? Ed egli era sempre là, presso la finestra...
Perché non lo richiamava il professore? perché non lo invitava a vedere il cuore di lei, che la sua bionda compagna tracciava man mano su quello squallido seno, cosí ridotto per lui?
Ecco, finalmente la percussione era finita.
Ora la studentessa congiungeva tutte le lineette per compire il disegno.
Raffaella fu tentata di guardarselo il suo cuore, lí disegnato; ma, improvvisamente, non poté piú reggere; scoppiò in singhiozzi.
Il professore, seccato, la rimandò nella corsia, ordinando alla capo-sala d'introdurre un'altra inferma meno isterica e meno scema di quella.
La avrebbe egli cercata con gli occhi, almeno, attraversando la corsia? Ma no, no: che importava piú a lei, ormai? Non avrebbe alzato nemmeno il capo per farsi scorgere.
Egli non doveva piú vederla.
Le bastava di avergli fatto conoscere come s'era ridotta per lui.
Prese con le mani tremanti la rimboccatura del lenzuolo e se la tirò sul volto, come se fosse morta.
Per tre giorni Raffaella Òsimo vigilò con attenta cura che il segno del cuore non le si cancellasse dal seno.
Uscita dall'ospedale, innanzi a un piccolo specchio nella sua povera cameretta, si confisse uno stiletto puntato contro la parete, là, nel bel mezzo del segno che la rivale ignara le aveva tracciato.
LA CASA DEL GRANELLA
I
I topi non sospettano l'insidia della trappola.
Vi cascherebbero, se la sospettassero? Ma non se ne capacitano neppure quando vi son cascati.
S'arrampicano squittendo sú per le gretole; cacciano il musetto aguzzo tra una gretola e l'altra; girano; rigirano senza requie, cercando l'uscita.
L'uomo che ricorre alla legge sa, invece, di cacciarsi in una trappola.
Il topo vi si dibatte.
L'uomo, che sa, sta fermo.
Fermo, col corpo, s'intende.
Dentro, cioè con l'anima, fa poi come il topo, e peggio.
E cosí facevano, quella mattina d'agosto, nella sala d'aspetto dell'avvocato Zummo i numerosi clienti, tutti in sudore, mangiati dalle mosche e dalla noja.
Nel caldo soffocante, la loro muta impazienza, assillata dai pensieri segreti, si esasperava di punto in punto.
Fermi però, là, si lanciavano tra loro occhiatacce feroci.
Ciascuno avrebbe voluto tutto per sé, per la sua lite, il signor avvocato, ma prevedeva che questi, dovendo dare udienza a tanti nella mattinata, gli avrebbe accordato pochissimo tempo, e che, stanco, esausto dalla troppa fatica, con quella temperatura di quaranta gradi, confuso, frastornato dall'esame di tante questioni, non avrebbe piú avuto per il suo caso la solita lucidità di mente, il solito acume.
E ogni qualvolta lo scrivano, che copiava in gran fretta una memoria, col colletto sbottonato e un fazzoletto sotto il mento, alzava gli occhi all'orologio a pendolo, due o tre sbuffavano e piú d'una seggiola scricchiolava.
Altri, già sfiniti dal caldo e dalla lunga attesa, guardavano oppressi le alte scansie polverose, sovraccariche d'incartamenti: litigi antichi, procedure, flagello e rovina di tante povere famiglie! Altri ancora, sperando di distrarsi, guardavano le finestre dalle stuoje verdi abbassate, donde venivano i rumori della via, della gente che andava spensierata e felice mentr'essi qua...
auff! E con un gesto furioso scacciavano le mosche, le quali, poverine, obbedendo alla loro natura, si provavano a infastidirli un po' piú e a profittare dell'abbondante sudore che l'agosto e il tormento smanioso delle brighe giudiziarie spremono dalle fronti e dalle mani degli uomini.
Eppure c'era qualcuno piú molesto delle mosche nella sala d'aspetto, quella mattina: il figlio dell'avvocato, brutto ragazzotto di circa dieci anni, il quale era certo scappato di soppiatto dalla casa annessa allo studio, senza calze, scamiciato, col viso sporco, per rallegrare i clienti di papà.
- Tu come ti chiami? Vincenzo? Oh che brutto nome! E questo ciondolo è d'oro? si apre? come si apre? e che c'è dentro? Oh, guarda...
capelli...
E di chi sono? e perché ce li tieni?
Poi, sentendo dietro l'uscio dello studio i passi di papà che veniva ad accompagnare fino alla porta qualche cliente di conto, si cacciava sotto il tavolino, tra le gambe dello scrivano.
Tutti nella sala d'aspetto si levavano in piedi e guardavano con occhi supplici l'avvocato, il quale, alzando le mani, diceva, prima di rientrare nello studio:
- Un po' di pazienza, signori miei.
Uno per volta.
Il fortunato, a cui toccava, lo seguiva ossequioso e richiudeva l'uscio; per gli altri ricominciava piú smaniosa e opprimente l'attesa.
II
Tre soltanto, che parevano marito, moglie e figliuola, non davano alcun segno d'impazienza.
L'uomo, su i sessant'anni, aveva un aspetto funebre; non s'era voluto levar dal capo una vecchia tuba dalle tese piatte, spelacchiata e inverdita, forse per non scemar solennità all'abito nero, all'ampia, greve, antica finanziera, che esalava un odore acuto di naftalina.
Evidentemente s'era parato cosí perché aveva stimato di non poterne fare a meno, venendo a parlare col signor avvocato.
Ma non sudava.
Pareva non avesse piú sangue nelle vene, tanto era pallido; e che avesse le gote e il mento ammuffiti, per una peluria grigia e rada che voleva esser barba.
Aveva gli occhi strabi, chiari, accostati a un gran naso a scarpa; e sedeva curvo, col capo basso, come schiacciato da un peso insopportabile; le mani scarne, diafane, appoggiate al bastoncino.
Accanto a lui, la moglie aveva invece un atteggiamento fierissimo nella lampante balordaggine.
Grassa, popputa, prosperosa, col faccione affocato e un po' anche baffuto e un pajo d'occhi neri spalancati, volti al soffitto.
Con la figliuola, dall'altro lato, si ricascava nel medesimo squallore contegnoso del padre.
Magrissima, pallida, con gli occhi strabi anche lei, sedeva come una gobbina.
Tanto la figlia quanto il padre pareva non cascassero a terra perché nel mezzo avevano quel donnone atticciato che in qualche modo li teneva sú.
Tutti e tre erano osservati dagli altri clienti con intensa curiosità, mista d'una certa costernazione ostile, quantunque essi già tre volte, poverini, avessero ceduto il passo, lasciando intendere che avevano da parlare a lungo col signor avvocato.
Quale sciagura li aveva colpiti? Chi li perseguitava? L'ombra d'una morte violenta, che gridava loro vendetta? La minaccia della miseria?
La miseria, no, di certo.
La moglie era sovraccarica d'oro: grossi orecchini le pendevano dagli orecchi; una collana doppia le stringeva il collo; un gran fermaglio a lagrimoni le andava sú e giú col petto, che pareva un mantice, e una lunga catena le reggeva il ventaglio e tanti e tanti anelli massicci quasi le toglievano l'uso delle tozze dita sanguigne.
Ormai nessuno piú domandava loro il permesso di passare avanti: era già inteso ch'essi sarebbero entrati dopo di tutti.
Ed essi aspettavano, pazientissimi, assorti, anzi sprofondati nel loro cupo affanno segreto.
Solo, di tanto in tanto, la moglie si faceva un po' di vento, e poi lasciava ricadere il ventaglio, e l'uomo si protendeva per ripetere alla figlia:
- Tinina, ricordati del ditale.
Piú d'un cliente aveva cercato di spingere il molestissimo figlio dell'avvocato verso quei tre; ma il ragazzo, adombrato da quel funebre squallore, s'era tratto indietro, arricciando il naso.
L'orologio a pendolo segnava già quasi le dodici, quando, andati via piú o meno soddisfatti tutti gli altri clienti, lo scrivano, vedendoli ancora lí immobili come statue, domandò loro:
- E che aspettano per entrare?
- Ah, - fece l'uomo, levandosi in piedi con le due donne.
- Possiamo?
- Ma sicuro che possono! - sbuffò lo scrivano.
- Avrebbero potuto già da tanto tempo! Si sbrighino, perché l'avvocato desina a mezzogiorno.
Scusino, il loro nome?
L'uomo si tolse finalmente la tuba e, all'improvviso, scoprendo il capo calvo, scoprí anche il martirio che quella terribile finanziera gli aveva fatto soffrire: infiniti rivoletti di sudore gli sgorgarono dal roseo cranio fumante e gl'inondarono la faccia esangue, spiritata.
S'inchinò, sospirando il suo nome:
- Piccirilli Serafino.
III
L'avvocato Zummo credeva d'aver finito per quel giorno, e rassettava le carte su la scrivania, per andarsene, quando si vide innanzi quei tre nuovi, ignoti clienti.
- Lor signori? - domandò di mala grazia.
- Piccirilli Serafino, - ripeté l'uomo funebre, inchinandosi piú profondamente e guardando la moglie e la figliuola per vedere come facevano la riverenza.
La fecero bene, e istintivamente egli accompagnò col corpo la loro mossa da bertucce ammaestrate.
- Seggano, seggano, - disse l'avvocato Zummo, sbarrando tanto d'occhi allo spettacolo di quella mimica.
- È tardi.
Debbo andare.
I tre sedettero subito innanzi alla scrivania, imbarazzatissimi.
La contrazione del timido sorriso, nella faccia cerea del Piccirilli, era orribile: stringeva il cuore.
Chi sa da quanto tempo non rideva piú quel pover uomo!
- Ecco, signor avvocato...
- Siamo venuti, - cominciò contemporaneamente la figlia.
E la madre, con gli occhi al soffitto, sbuffò:
- Cose dell'altro mondo!
- Insomma, parli uno, - disse Zummo, accigliato.
- Chiaramente e brevemente.
Di che si tratta?
- Ecco, signor avvocato, - riprese il Piccirilli, dando un'ingollatina.
- Abbiamo ricevuto una citazione.
- Assassinio, signor avvocato! - proruppe di nuovo la moglie.
- Mammà, - fece timidamente la figlia, per esortarla a tacere o a parlar piú pacata.
Il Piccirilli guardò la moglie, e, con quella autorità che la meschinissima corporatura gli poteva conferire, aggiunse:
- Mararo', ti prego: parlo io! Una citazione, signor avvocato.
Noi abbiamo dovuto lasciar la casa in cui abitavamo, perché...
- Ho capito.
Sfratto? - domandò Zummo per tagliar corto.
- Nossignore, - rispose umilmente il Piccirilli.
- Al contrario.
Abbiamo pagato sempre la pigione, puntualmente, anticipata.
Ce ne siamo andati da noi, contro la volontà del proprietario, anzi.
E il proprietario ora ci chiama a rispettare il contratto di locazione e, per di piú, responsabili di danni e interessi, perché, dice, la casa noi gliel'abbiamo infamata.
- Come come? - fece Zummo, rabbujandosi e guardando, questa volta, la moglie.
- Ve ne siete andati da voi; gli avete infamato la casa, e il proprietario...
Non capisco.
Parliamoci chiaro, signori miei! L'avvocato è come il confessore.
Commercio illecito?
- Nossignore! - s'affrettò a rispondere il Piccirilli, ponendosi le mani sul petto.
- Che commercio? Niente! Noi non siamo commercianti.
Solo mia moglie dà qualche cosina...
cosí..
in prestito, ma a un interesse...
- Onesto, ho capito!
- Creda, sissignore, consentito finanche dalla Santa Chiesa...
Ma questo non c'entra.
Il Granella, proprietario della casa, dice che noi gliel'abbiamo infamata, perché in tre mesi, in quella casa maledetta, ne abbiamo vedute di tutti i colori, signor avvocato! Mi vengono...
mi vengono i brividi solo a pensarci!
- Oh Signore, scampatene e liberatene tutte le creature della terra! - esclamò con un formidabile sospiro la moglie, levandosi in piedi, levando le braccia e poi facendosi con la mano piena d'anelli il segno della croce.
La figlia, col capo basso e con le labbra strette, aggiunse:
- Una persecuzione...
(Siedi, mammà.)
- Perseguitati, sissignore - rincalzò il padre.
- (Siedi, Mararo'!) Perseguitati, è la parola.
Noi siamo stati per tre mesi perseguitati a morte, in quella casa.
- Perseguitati da chi? - gridò Zummo, perdendo alla fine la pazienza.
- Signor avvocato, - rispose piano il Piccirilli, protendendosi verso la scrivania e ponendosi una mano presso la bocca, mentre con l'altra imponeva silenzio alle due donne, - (Ssss...) Signor avvocato, dagli spiriti!
- Da chi? - fece Zummo, credendo d'aver sentito male.
- Dagli spiriti, sissignore! - raffermò forte, coraggiosamente, la moglie, agitando in aria le mani.
Zummo scattò in piedi, su le furie:
- Ma andate là! Non mi fate ridere! Perseguitati dagli spiriti? Io devo andare a mangiare, signori miei!
Quelli, allora, alzandosi anche loro, lo circondarono per trattenerlo, e presero a parlare tutti e tre insieme, supplici:
- Sissignore, sissignore! Vossignoria non ci crede? Ma ci ascolti...
Spiriti, spiriti infernali! Li abbiamo veduti noi, coi nostri occhi.
Veduti e sentiti...
Siamo stati martoriati, tre mesi!
E Zummo, scrollandosi rabbiosamente:
- Ma andate, vi dico! Sono pazzie! Siete venuti da me? Al manicomio, al manicomio, signori miei!
- Ma se ci hanno citato...
- gemette a mani giunte il Piccirilli.
- Hanno fatto benone! - gli gridò Zummo sul muso.
- Che dice, signor avvocato? - s'intromise la moglie, scostando tutti.
- È questa l'assistenza che Vossignoria presta alla povera gente perseguitata? Oh Signore! Vossignoria parla cosí perché non ha veduto come noi! Ci sono, creda pure, ci sono, gli spiriti! ci sono! E nessuno meglio di noi lo può sapere!
- Voi li avete veduti? - le domandò Zummo con un sorriso di scherno.
- Sissignore, con gli occhi miei, - affermò subito, non interrogato, il Piccirilli.
- Anch'io, coi miei, - aggiunse la figlia, con lo stesso gesto.
- Ma forse coi vostri! - non poté tenersi dallo sbuffare l'avvocato Zummo con gl'indici tesi verso i loro occhi strabi.
- E i miei, allora? - saltò a gridare la moglie, dandosi una manata furiosa sul petto e spalancando gli occhiacci.
- Io ce li ho giusti, per grazia di Dio, e belli grossi, signor avvocato! E li ho veduti anch'io, sa, come ora vedo Lei!
- Ah sí? - fece Zummo.
- Come tanti avvocati?
- E va bene! - sospirò la donna.
- Vossignoria non ci crede; ma abbiamo tanti testimoni, sa? tutto il vicinato che potrebbe venire a deporre...
Zummo aggrottò le ciglia:
- Testimoni che hanno veduto?
- Veduto e udito, sissignore!
- Ma veduto...
che cosa per esempio? - domandò Zummo, stizzito.
- Per esempio, seggiole muoversi, senza che nessuno le toccasse...
- Seggiole?
- Sissignore.
- Quella seggiola là, per esempio?
- Sissignore, quella seggiola là, mettersi a far le capriole per la stanza, come fanno i ragazzacci per istrada; e poi, per esempio...
che debbo dire? un portaspilli, per esempio, di velluto, in forma di melarancia, fatto da mia figlia Tinina, volare dal cassettone su la faccia del povero mio marito, come lanciato...
come lanciato da una mano invisibile; l'armadio a specchio scricchiolare e tremar tutto, come avesse le convulsioni, e dentro...
dentro l'armadio, signor avvocato...
mi s'aggricciano le carni solo a pensarci...
risate!
- Risate! - aggiunse la figlia.
- Risate! - il padre.
E la moglie, senza perder tempo, seguitò:
- Tutte queste cose, signor avvocato mio, le hanno vedute e udite le nostre vicine, che sono pronte, come le ho detto, a testimoniare.
Noi abbiamo veduto e udito ben altro!
- Tinina, il ditale, - suggerí, a questo punto, il padre.
- Ah, sissignore, - prese a dire la figlia, riscotendosi con un sospiro.
- Avevo un ditalino d'argento, ricordo della nonna, sant'anima! Lo guardavo, come la pupilla degli occhi.
Un giorno, lo cerco nella tasca e non lo trovo! lo cerco per tutta la casa e non lo trovo.
Tre giorni a cercarlo, che a momenti ci perdevo anche la testa.
Niente! Quando una notte, mentre stavo a letto, sotto la zanzariera...
- Perché ci sono anche le zanzare, in quella casa, signor avvocato! - interruppe la madre.
- E che zanzare! - appoggiò il padre, socchiudendo gli occhi e tentennando il capo.
- Sento, - riprese la figlia, - sento qualcosa che salta sul cielo della zanzariera...
A questo punto il padre la fece tacere con un gesto della mano.
Doveva attaccar lui.
Era un pezzo concertato, quello.
- Sa, signor avvocato? tal quale come si fanno saltare le palle di gomma, che si dà loro un colpetto e rivengono alla mano.
- Poi, - seguitò la figlia, - come lanciato piú forte, il mio ditalino dal cielo della zanzariera va a schizzare al soffitto e casca per terra, ammaccato.
- Ammaccato, - ripeté la madre.
E il padre:
- Ammaccato!
- Scendo dal letto, tutta tremante, per raccoglierlo e, appena mi chino, al solito, dal tetto...
- Risate, risate, risate...
- terminò la madre.
L'avvocato Zummo restò a pensare, col capo basso e le mani dietro la schiena, poi si riscosse, guardò negli occhi i tre clienti, si grattò il capo con un dito e disse con un risolino nervoso:
- Spiriti burloni, dunque! Seguitate, seguitate...
mi diverto.
- Burloni? Ma che burloni, signor avvocato! - ripigliò la donna.
- Spiriti infernali, deve dire Vossignoria! Tirarci le coperte del letto; sederci su lo stomaco, la notte; percuoterci alle spalle; afferrarci per le braccia; e poi scuotere tutti i mobili, sonare i campanelli, come se, Dio liberi e scampi, ci fosse il terremoto; avvelenarci i bocconi, buttando la cenere nelle pentole e nelle casseruole...
Li chiama burloni Lei? Non ci hanno potuto né il prete né l'acqua benedetta! Allora ne abbiamo parlato al Granella, scongiurandolo di scioglierci dal contratto, perché non volevamo morire là, dallo spavento, dal terrore...
Sa che ci ha risposto quell'assassino? Storie! ci ha risposto.
Gli spiriti.? Mangiate, dice, buone bistecche, dice, e curatevi i nervi.
Lo abbiamo invitato a vedere con gli occhi suoi, a sentire con le sue orecchie.
Niente.
Non ha voluto saperne; anzi ci ha minacciati: "Guardatevi bene" dice "dal farne chiasso, o vi fulmino!".
Proprio cosí.
- E ci ha fulminato! - concluse il marito, scotendo il capo amaramente.
- Ora, signor avvocato, noi ci mettiamo nelle sue mani.
Vossignoria può fidarsi di noi: siamo gente dabbene: sapremo fare il nostro dovere.
L'avvocato Zummo finse, al solito, di non udire queste ultime parole: si stirò per un pezzo ora un baffo ora l'altro, poi guardò l'orologio.
Era presso il tocco.
La famiglia, di là, lo aspettava da un'ora per il desinare.
- Signori miei, - disse, - capirete benissimo che io non posso credere ai vostri spiriti.
Allucinazioni...
storielle da femminucce.
Guardo il caso, adesso, dal lato giuridico.
Voi dite d'aver veduto...
non diciamo spiriti, per carità! dite d'avere anche testimoni, e va bene; dite che l'abitazione in quella casa vi era resa intollerabile da questa specie di persecuzione...
diciamo, strana...
ecco! Il caso è nuovo e speciosissimo; e mi tenta, ve lo confesso.
Ma bisognerà trovare nel codice un qualche appoggio, mi spiego? un fondamento giuridico alla causa.
Lasciatemi vedere, studiare, prima di prendermene l'accollo.
Ora è tardi.
Ritornate domani e vi saprò dare una risposta.
Va bene cosí?
IV
Subito il pensiero di quella strana causa si mise a girar nella mente dell'avvocato Zummo come una ruota di molino.
A tavola, non poté mangiare; dopo tavola, non poté riposare come soleva d'estate, ogni giorno, buttato sul letto.
- Gli spiriti! - ripeteva tra sé di tratto in tratto; e le labbra gli s'aprivano a un sorriso canzonatorio, mentre davanti a gli occhi gli si ripresentavano le comiche figure dei tre nuovi clienti, che giuravano e spergiuravano d'averli veduti.
Tante volte aveva sentito parlar di spiriti; e, per certi racconti delle serve, ne aveva avuto anche lui una gran paura, da ragazzo.
Ricordava ancora le angosce che gli avevano strizzato il coricino atterrito nelle terribili insonnie di quelle notti lontane.
- L'anima! - sospirò a un certo punto, stirando le braccia verso il cielo della zanzariera, e lasciandole poi ricader pesantemente sul letto.
- L'anima immortale...
Eh già! Per ammetter gli spiriti bisogna presupporre l'immortalità dell'anima; c'è poco da dire.
L'immortalità dell'anima...
Ci credo, o non ci credo? Dico e ho detto sempre di no.
Dovrei ora, almeno, ammettere il dubbio, contro ogni mia precedente asserzione.
E che figura ci faccio? Vediamo un po'.
Noi spesso fingiamo con noi stessi, come con gli altri.
Io lo so bene.
Sono molto nervoso e, qualche volta, sissignore, trovandomi solo, io ho avuto paura.
Paura di che? Non lo so.
Ho avuto paura! Noi...
ecco, noi temiamo di indagare il nostro intimo essere, perché una tale indagine potrebbe scoprirci diversi da quelli che ci piace di crederci o di esser creduti.
Io non ho mai pensato sul serio a queste cose.
La vita ci distrae.
Faccende, bisogni, abitudini, tutte le minute brighe cotidiane non ci lasciano tempo di riflettere a queste cose, che pure dovrebbero interessarci sopra tutte le altre.
Muore un amico? Ci arrestiamo là, davanti alla sua morte, come tante bestie restíe, e preferiamo di volgere indietro il pensiero, alla sua vita, rievocando qualche ricordo, per vietarci d'andare oltre con la mente, oltre il punto cioè che ha segnato per noi la fine del nostro amico.
Buona notte! Accendiamo un sigaro per cacciar via col fumo il turbamento e la malinconia.
La scienza s'arresta anch'essa, là, ai limiti della vita, come se la morte non ci fosse e non ci dovesse dare alcun pensiero.
Dice: "Voi siete ancora qua; attendete a vivere, vojaltri: l'avvocato pensi a far l'avvocato; l'ingegnere a far l'ingegnere...".
E va bene! Io faccio l'avvocato.
Ma ecco qua: l'anima immortale, i signori spiriti che fanno? vengono a bussare alla porta del mio studio: "Ehi, signor avvocato, ci siamo anche noi, sa? Vogliamo ficcare anche noi il naso nel suo codice civile! Voi, gente positiva, non volete curarvi di noi? Non volete piú darvi pensiero della morte? E noi, allegramente, dal regno della morte, veniamo a bussare alle porte dei vivi, a sghignazzar dentro gli armadii, a far rotolare sotto gli occhi vostri le seggiole, come se fossero tanti monellacci, ad atterrir la povera gente e a mettere in imbarazzo, oggi, un avvocato che passa per dotto; domani, un tribunale chiamato a dar su noi una novissima sentenza...".
L'avvocato Zummo lasciò il letto in preda a una viva eccitazione e rientrò nello studio per compulsare il codice civile.
Due soli articoli potevano offrire un certo fondamento alla lite: l'articolo 1575 e il 1577.
Il primo diceva:
Il locatore è tenuto per la natura del contratto e senza bisogno di speciale stipulazione:
1° a consegnare al Conduttore la cosa locata;
2° a mantenerla in istato di servire all'uso per cui viene locata;
3° a garantirne al conduttore il pacifico godimento per tutto il tempo della locazione.
L' altro articolo diceva:
Il conduttore debb'essere garantito per tutti quei vizii o difetti della cosa locata che ne impediscano l'uso, quantunque non fossero noti al locatore al tempo della locazione.
Se da questi vizii o difetti proviene qualche danno al conduttore, il locatore è tenuto a farnelo indenne, salvo che provi d'averli ignorati.
Se non che, eccependo questi due articoli, non c'era via di mezzo, bisognava provare l'esistenza reale degli spiriti.
C'erano i fatti e c'erano le testimonianze.
Ma fino a qual punto erano queste attendibili? e che spiegazione poteva dare la scienza di quei fatti?
L'avvocato Zummo interrogò di nuovo, minutamente, i Piccirilli; raccolse le testimonianze indicategli e, accettata la causa, si mise a studiarla appassionatamente.
Lesse dapprima una storia sommaria dello Spiritismo, dalle origini delle mitologie fino ai dí nostri, e il libro del Jaccolliot su i prodigi del fachirismo, poi tutto quanto avevano pubblicato i piú illustri e sicuri sperimentatori, dal Crookes al Wagner, all'Aksakof; dal Gibier allo Zoellner al Janet, al de Rochas, al Richet, al Morselli; e con suo sommo stupore venne a conoscere che ormai i fenomeni cosí detti spiritici, per esplicita dichiarazione degli scienziati piú scettici e piú positivi, erano innegabili.
- Ah, perdio! - esclamò Zummo, già tutto acceso e vibrante.
- Qua la cosa cambia d'aspetto!
Finché quei fenomeni gli erano stati riferiti da gentuccia come i Piccirilli e i loro vicini, egli, uomo serio, uomo colto, nutrito di scienza positiva, li aveva derisi e senz'altro respinti.
Poteva accettarli? Seppure glieli avessero fatti vedere e toccar con mano, avrebbe piuttosto confessato d'essere un allucinato anche lui.
Ma ora, ora che li sapeva confortati dall'autorità di scienziati come il Lombroso, come il Richet, ah perdio, la cosa cambiava d"aspetto!
Zummo, per il momento, non pensò piú alla lite dei Piccirilli, e si sprofondò tutto, a mano a mano sempre piú convinto e con fervore crescente, ne' nuovi studii.
Da un pezzo non trovava piú nell'esercizio dell'avvocatura, che pur gli aveva dato qualche soddisfazione e ben lauti guadagni, non trovava piú nella vita ristretta di quella cittaduzza di provincia nessun pascolo intellettuale, nessuno sfogo a tante scomposte energie che si sentiva fremere dentro, e di cui egli esagerava a se stesso l'intensità, esaltandole come documenti del proprio valore, via! quasi sprecato lí, tra le meschinità di quel piccolo centro.
Smaniava da un pezzo, scontento di sé, di tutto e di tutti; cercava un puntello, un sostegno morale e intellettuale, una qualche fede, sí, un pascolo per l'anima, uno sfogo per tutte quelle energie.
Ed ecco, ora, leggendo quei libri...
Perdio! Il problema della morte, il terribile essere o non essere d'Amleto, la terribile questione era dunque risolta? Poteva l'anima d'un trapassato tornare per un istante a "materializzarsi" e venire a stringergli la mano? Sí, a stringere la mano a lui, Zummo, incredulo, cieco fino a jeri, per dirgli: "Zummo, sta' tranquillo; non ti curare piú delle miserie di codesta tua meschinissima vita terrena! C'è ben altro, vedi? ben altra vita tu vivrai un giorno! Coraggio! Avanti!".
Ma Serafino Piccirilli veniva anche lui, ora con la moglie ora con la figliuola, quasi ogni giorno, a sollecitarlo, a raccomandarglisi.
- Studio! studio! - rispondeva loro Zummo, su le furie.
- Non mi distraete, perdio! state tranquilli; sto pensando a voi.
Non pensava piú a nessuno, invece.
Rinviava le cause, rimandava anche tutti gli altri clienti.
Per debito di gratitudine, tuttavia, verso quei poveri Piccirilli, i quali, senza saperlo, gli avevano aperto innanzi allo spirito la via della luce, si risolse alla fine a esaminare attentamente il loro caso.
Una grave questione gli si parò davanti e lo sconcertò non poco, su le prime.
In tutti gli esperimenti, la manifestazione dei fenomeni avveniva costantemente per la virtú misteriosa d'un medium.
Certo, uno dei tre Piccirilli doveva esser medium senza saperlo.
Ma in questo caso il vizio non sarebbe stato piú della casa del Granella, bensí degli inquilini; e tutto il processo crollava.
Però, ecco, se uno dei Piccirilli era medium senza saperlo, la manifestazione dei fenomeni non sarebbe avvenuta anche nella nuova casa presa da essi in affitto? Invece, no! E anche nelle case precedentemente abitate i Piccirilli assicuravano d'essere stati sempre tranquilli.
Perché dunque nella sola casa del Granella si erano verificate quelle paurose manifestazioni? Evidentemente, doveva esserci qualcosa di vero nella credenza popolare delle case abitate dagli spiriti.
E poi c'era la prova di fatto.
Negando nel modo piú assoluto la dote della medianità alla famiglia Piccirilli, egli avrebbe dimostrato falsa la spiegazione biologica, che alcuni scienziati schizzinosi avevan tentato di dare dei fenomeni spiritici.
Che biologia d'Egitto! Bisognava senz'altro ammettere l'ipotesi metafisica.
O che era forse medium, lui, Zummo? Eppure parlava col tavolino.
Non aveva mai composto un verso in vita sua; eppure il tavolino gli parlava in versi, coi piedi.
Che biologia d'Egitto!
Del resto, giacché a lui piú che la causa dei Piccirilli premeva ormai d'accertare la verità, avrebbe fatto qualche esperimento in casa dei suoi clienti.
Ne parlò ai Piccirilli; ma questi si ribellarono, impauriti.
Egli allora s'inquietò e diede loro a intendere che quell'esperimento era necessario, per la lite, anzi imprescindibile! Fin dalle prime sedute, la signorina Piccirilli, Tinina, si rivelò un medium portentoso.
Zummo, convulso, coi capelli irti su la fronte, atterrito e beato, poté assistere a tutte, o quasi, le manifestazioni piú stupefacenti registrate e descritte nei libri da lui letti con tanta passione.
La causa crollava, è vero; ma egli, fuori di sé, gridava ai suoi clienti a ogni fine di seduta:
- Ma che ve n'importa, signori miei? Pagate, pagate...
Miserie! Sciocchezze! Qua, perdio, abbiamo la rivelazione dell'anima immortale!
Ma potevano quei poveri Piccirilli condividere questo generoso entusiasmo del loro avvocato? Lo presero per matto.
Da buoni credenti, essi non avevano mai avuto il minimo dubbio su l'immortalità delle loro afflitte e meschine animelle.
Quegli esperimenti, a cui si prestavano da vittime, per obbedienza, sembravano loro pratiche infernali.
E invano Zummo cercava di rincorarli.
Fuggendo dalla casa del Granella, essi credevano d'essersi liberati dalla tremenda persecuzione; e ora, nella nuova casa, per opera del signor avvocato, eccoli di nuovo in commercio coi demonii, in preda ai terrori di prima! Con voce piagnucolosa scongiuravano l'avvocato di non farne trapelar nulla, di quelle sedute, di non tradirli, per carità!
- Ma va bene, va bene! - diceva loro Zummo, sdegnato.
- Per chi mi prendete? per un ragazzino? State tranquilli, signori miei! Io esperimento qua, per conto mio.
L'uomo di legge, poi, saprà fare il suo dovere in tribunale, che diamine! Sosterremo il vizio occulto della casa, non dubitate!
V
Lo sostenne, di fatti, il vizio occulto della casa, ma senz'alcun calore di convinzione, certo com'era ormai della medianità della signorina Piccirilli.
Invece sbalordí i giudici, i colleghi, il pubblico che stipava l'aula del tribunale, con una inaspettata, estrosa, fervida professione di fede.
Parlò di Allan Kardech come d'un novello messia; definí lo spiritismo la religione nuova dell'umanità; disse che la scienza co' suoi saldi ma freddi ordigni, col suo formalismo troppo rigoroso aveva sopraffatto la natura; che l'albero della vita, allevato artificialmente dalla scienza, aveva perduto il verde, s'era isterilito o dava frutti che imbozzacchivano e sapevano di cenere e tosco, perché nessun calore di fede piú li maturava.
Ma ora, ecco, il mistero cominciava a schiudere le sue porte tenebrose: le avrebbe spalancate domani! Intanto, da questo primo spiraglio all'umanità sgomenta, in angosciosa ansia, venivano ombre ancora incerte e paurose a rivelare il mondo di là: strane luci, strani segni...
E qui l'avvocato Zummo, con drammaticissima eloquenza, entrò a parlare delle piú meravigliose manifestazioni spiritiche, attestate, controllate, accettate dai piú grandi luminari della scienza: fisici, chimici, psicologi, fisiologi, antropologi, psichiatri; soggiogando e spesso atterrendo addirittura il pubblico che ascoltava a bocca aperta e con gli occhi spalancati.
Ma i giudici, purtroppo, si vollero tenere terra terra, forse per reagire ai voli troppo sublimi dell'avvocato difensore.
Con irritante presunzione, sentenziarono che le teorie, tuttora incerte, dedotte dai fenomeni cosí detti spiritici, non erano ancora ammesse e accettate dalla scienza moderna, eminentemente positiva; che, del resto, venendo a considerar piú da vicino il processo, se per l'articolo 1575 il locatore è tenuto a garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa locata, nel caso in esame, come avrebbe potuto il locatore stesso garantir la casa dagli spiriti, che sono ombre vaganti e incorporee? come scacciare le ombre? E, d'altra parte, riguardo all'articolo 1577, potevano gli spiriti costituire uno di quei vizii occulti che impediscono l'uso dell'abitazione? Erano forse ingombranti? E quali rimedii avrebbe potuto usare il locatore contro di essi? Senz'altro, dunque, dovevano essere respinte le eccezioni dei convenuti.
Il pubblico, commosso ancora e profondamente impressionato dalle rivelazioni dell'avvocato Zummo, disapprovò unanimemente questa sentenza, che nella sua meschinità, pur presuntuosa, sonava come un'irrisione.
Zummo inveí contro il tribunale con tale scoppio d'indignazione che per poco non fu tratto in arresto.
Furibondo, sottrasse alla commiserazione generale i Piccirilli, proclamandoli in mezzo alla folla plaudente martiri della nuova religione.
Il Granella intanto, proprietario della casa, gongolava di gioja maligna.
Era un omaccione di circa cinquant'anni, adiposo e sanguigno.
Con le mani in tasca, gridava forte a chiunque volesse sentirlo, che quella sera stessa sarebbe andato a dormire nella casa degli spiriti - solo! Solo, solo, sí, perché la vecchia serva che stava da tant'anni con lui, grazie all'infamia dei Piccirilli, lo aveva piantato, dichiarandosi pronta a servirlo dovunque, foss'anche in una grotta, tranne che in quella povera casa infamata da quei signori là.
E non gli era riuscito di trovare in tutto il paese un'altra serva o un servo che fosse, i quali avessero il coraggio di stare con lui.
Ecco il bel servizio che gli avevano reso quegli impostori! E una casa perduta, come andata in rovina!
Ma ora egli avrebbe dimostrato a tutto il paese che il tribunale, condannando alle spese e al risarcimento dei danni quegli imbecilli, gli aveva reso giustizia.
Là, egli solo! Voleva vederli in faccia questi signori spiriti!
E sghignazzava.
VI
La casa sorgeva nel quartiere piú alto della città, in cima al colle.
La città aveva lassú una porta, il cui nome arabo, divenuto stranissimo nella pronunzia popolare: Bibirría, voleva dire Porta dei Venti.
Fuori di questa porta era un largo spiazzo sterrato; e qui sorgeva solitaria la casa del Granella.
Dirimpetto aveva soltanto un fondaco abbandonato, il cui portone imporrito e sgangherato non riusciva piú a chiudersi bene, e dove solo di tanto in tanto qualche carrettiere s'avventurava a passar la notte a guardia del carro e della mula.
Un solo lampioncino a petrolio stenebrava a mala pena, nelle notti senza luna, quello spiazzo sterrato.
Ma, a due passi, di qua dalla porta, il quartiere era popolatissimo, oppresso anzi di troppe abitazioni.
La solitudine della casa del Granella non era dunque poi tanta, e appariva triste (piú che triste, ora, paurosa) soltanto di notte.
Di giorno, poteva essere invidiata da tutti coloro che abitavano in quelle case ammucchiate.
Invidiata la solitudine, e anche la casa per se stessa, non solo per la libertà della vista e dell'aria, ma anche per il modo com'era fabbricata, per l'agiatezza e i comodi che offriva, a molto minor prezzo di quelle altre, che non ne avevano né punto né poco.
Dopo l'abbandono del Piccirilli, il Granella l'aveva rimessa tutta a nuovo; carte da parato nuove; pavimenti nuovi, di mattoni di Valenza; ridipinti i soffitti; rinverniciati gli usci, le finestre, i balconi e le persiane.
Invano! Eran venuti tanti a visitarla, per curiosità; nessuno aveva voluto prenderla in affitto.
Ammirandola, cosí pulita, cosí piena d'aria e di luce, pensando a tutte le spese fatte, quasi quasi il Granella piangeva dalla rabbia e dal dolore.
Ora egli vi fece trasportare un letto, un cassettone, un lavamano e alcune seggiole, che allogò in una delle tante camere vuote; e, venuta la sera, dopo aver fatto il giro del quartiere per far vedere a tutti che manteneva la parola, andò a dormire solo in quella sua povera casa infamata.
Gli abitanti del quartiere notarono che s'era armato di ben due pistole.
E perché?
Se la casa fosse stata minacciata dai ladri, eh, quelle armi avrebbero potuto servirgli, ed egli avrebbe potuto dire che se le portava per prudenza.
Ma contro gli spiriti, caso mai, a che gli sarebbero servite? Uhm!
Aveva tanto riso, là, in tribunale, che ancora nel faccione sanguigno aveva l'impronta di quelle risa.
In fondo in fondo, però...
ecco, una specie di vellicazione irritante allo stomaco se la sentiva, per tutti quei discorsi che si erano fatti, per tutte quelle chiacchiere dell'avvocato Zummo.
Uh, quanta gente, anche gente per bene, spregiudicata, che in presenza sua aveva dichiarato piú volte di non credere a simili fandonie, ora, prendendo ardire dalla fervida affermazione di fede dell'avvocato Zummo e dall'autorità dei nomi citati e dalle prove documentate, non s'era messa di punto in bianco a riconoscere che...
sí, qualche cosa di vero infine poteva esserci, doveva esserci, in quelle esperienze...
(ecco, esperienze ora, non piú fandonie!).
Ma che piú? Uno degli stessi giudici, dopo la sentenza, uscendo dal tribunale, s'era avvicinato all'avvocato Zummo che aveva ancora un diavolo per capello, e - sissignori - aveva ammesso anche lui che non pochi fatti riferiti in certi giornali, col presidio di insospettabili testimonianze di scienziati famosi, lo avevano scosso, sicuro! E aveva narrato per giunta che una sua sorella, maritata a Roma, fin da ragazza, una o due volte l'anno, di pieno giorno, trovandosi sola, era visitata, com'ella asseriva, da un certo ometto rosso misterioso, che le confidava tante cose e le recava finanche doni curiosi...
Figurarsi Zummo, a una tale dichiarazione, dopo la sentenza contraria! E allora quel giudice imbecille s'era stretto nelle spalle e gli aveva detto:
- Ma, capirà, caro avvocato, allo stato delle cose...
Insomma, tutta la cittadinanza era rimasta profondamente scossa dalle affermazioni e dalle rivelazioni di Zummo.
E Granella ora si sentiva solo: solo e stizzito, come se tutti lo avessero abbandonato, vigliaccamente.
La vista dello sterrato deserto, dopo il quale l'alto colle su cui sorge la città strapiomba in ripidissimo pendio su un'ampia vallata, con quell'unico lampioncino, la cui fiammella vacillava come impaurita dalla tenebra densa che saliva dalla valle, non era fatta certamente per rincorare un uomo dalla fantasia un po' alterata.
Né poté rincorarlo poi di piú il lume d'una sola candela stearica, la quale - chi sa perché - friggeva, ardendo, come se qualcuno vi soffiasse sú, per spegnerla.
(Non s'accorgeva Granella che aveva un ansito da cavallo, e che soffiava lui, con le nari, su la candela.)
Attraversando le molte stanze vuote, silenziose, rintronanti, per entrare in quella nella quale aveva allogato i pochi mobili, tenne fisso lo sguardo su la fiamma tremolante riparata con una mano, per non veder l'ombra del proprio corpo mostruosamente ingrandita, fuggente lungo le pareti e sul pavimento.
Il letto, le seggiole, il cassettone, il lavamano gli parvero come sperduti in quella camera rimessa a nuovo.
Posò la candela sul cassettone, vietandosi di allungar lo sguardo all'uscio, oltre al quale le altre camere vuote eran rimaste buje.
Il cuore gli batteva forte.
Era tutto in un bagno di sudore.
Che fare adesso? Prima di tutto, chiudere quell'uscio e metterci il paletto.
Sí, perché sempre, per abitudine, prima d'andare a letto, egli si chiudeva cosí, in camera.
È vero che, di là, adesso, non c'era nessuno, ma...
l'abitudine, ecco! E perché in tanto aveva ripreso in mano la candela per andare a chiudere quell'uscio nella stessa stanza? Ah...
già, distratto!...
Non sarebbe stato bene, ora, aprire un tantino il balcone? Auff! si soffocava dal caldo, là dentro...
E poi, c'era ancora un tanfo di vernice...
Sí sí, un tantino, il balcone.
E nel mentre che la camera prendeva un po' d'aria, egli avrebbe rifatto il letto con la biancheria che s'era portata.
Cosí fece.
Ma appena steso il primo lenzuolo su le materasse, gli parve di sentire come un picchio all'uscio.
I capelli gli si drizzarono su la fronte, un brivido gli spaccò le reni, come una rasojata a tradimento.
Forse il pomo della lettiera di ferro aveva urtato contro la parete? Attese un po', col cuore in tumulto.
Silenzio! Ma gli parve misteriosamente animato, quel silenzio...
Granella raccolse tutte le forze, aggrottò le ciglia, cavò dalla cintola una delle pistole, riprese in mano la candela, riaprí l'uscio e, coi capelli che gli fremevano sul capo, gridò:
- Chi è là?
Rimbombò cupamente il vocione nelle vuote camere.
E quel rimbombo fece indietreggiare il Granella.
Ma subito egli si riprese; batté un piede; avanzò il braccio con la pistola impugnata.
Attese un tratto, poi si mise a ispezionare dalla soglia quella camera accanto.
C'era solamente una scala, in quella camera, appoggiata alla parete di contro: la scala di cui s'erano serviti gli operai per riattaccar la carta da parato nelle stanze.
Nient'altro.
Ma sí, via, non ci poteva esser dubbio: il pomo della lettiera aveva urtato contro la parete.
E Granella rientrò nella camera, ma con le membra d'un subito rilassate e appesantite cosí, che non poté piú per il momento rimettersi a rifare il letto.
Prese una seggiola e andò a sedere al balcone, al fresco.
- Zrí!
Accidenti al pipistrello! Ma riconobbe subito, eh, che quello era uno strido di pipistrello attirato dal lume della candela che ardeva nella camera.
E rise Granella della paura che, questa volta, non aveva avuto, e alzò gli occhi per discerner nel bujo lo svolazzío del pipistrello.
In quel mentre, gli giunse all'orecchio dalla camera uno scricchiolío.
Ma riconobbe subito ugualmente che quello scricchiolío era della carta appiccicata di fresco alle pareti, e ci si divertí un mondo! Ah, erano uno spasso gli spiriti, a quella maniera...
Se non che, nel voltarsi, cosí sorridente, a guardar dentro la camera, vide...
- non comprese bene, che fosse, in prima: balzò in piedi, esterrefatto; s'afferrò, rinculando, alla ringhiera del balcone.
Una lingua spropositata, bianca, s'allungava silenziosamente lungo il pavimento, dall'uscio dell'altra camera, rimasto aperto!
Maledetto, maledetto, maledetto! un rotolo di carta da parato, un rotolo di carta da parato che gli operaj forse avevano lasciato lí, in capo a quella scala...
Ma chi lo aveva fatto precipitare di là e poi scivolare cosí, svolgendosi, lungo il pavimento di due stanze, imbroccando perfettamente l'uscio aperto?
Granella non poté piú reggere.
Rientrò con la sedia; richiuse di furia il balcone; prese il cappello, la candela, e scappò via, giú per la scala.
Aperto pian piano il portone, guardò nello sterrato.
Nessuno! Tirò a sé il portone e, rasentando il muro della casa, sgattajolò per il viottolo fuori delle mura al bujo.
Che doveva perderci la salute, lui, per amor della casa? Fantasia alterata, sí; non era altro...
dopo tutte quelle chiacchiere...
Gli avrebbe fatto bene passare una notte all'aperto, con quel caldo.
La notte, del resto, era brevissima.
All'alba, sarebbe rincasato.
Di giorno, con tutte le finestre aperte, non avrebbe avuto piú, di certo, quella sciocchissima paura; e, venendo di nuovo la sera, avendo già preso confidenza con la casa, sarebbe stato tranquillo, senza dubbio, che diamine! Aveva fatto male, ecco, ad andarci a dormire, cosí, in prima, per una bravata.
Domani sera...
Credeva il Granella che nessuno si fosse accorto della sua fuga.
Ma in quel fondaco dirimpetto alla casa, un carrettiere era ricoverato quella sera, che lo vide uscire con tanta paura e tanta cautela, e lo vide poi rientrare ai primi albori.
Impressionato del fatto e di quei modi, costui ne parlò nel vicinato con alcuni che, il giorno avanti, erano andati a testimoniare in favore dei Piccirilli.
E questi testimoni allora si recarono in gran segreto dall'avvocato Zummo ad annunziargli la fuga del Granella spaventato.
Zummò accolse la notizia con esultanza.
- Lo avevo previsto! - gridò loro, con gli occhi che gli schizzavano fiamme.
- Vi giuro, signori miei, che lo avevo previsto! E ci contavo.
Farò appellare i Piccirilli, e mi avvarrò di questa testimonianza dello stesso Granella! A noi, adesso! Tutti d'accordo, ohé, signori miei!
Complottò subito, per quella notte stessa, l'agguato.
Cinque o sei, con lui, cinque o sei: non si doveva essere in piú! Tutto stava a cacciarsi in quel fondaco, senza farsi scorgere dal Granella.
E zitti, per carità! Non una parola con nessuno, durante tutta la giornata.
- Giurate!
- Giuriamo!
Piú viva soddisfazione di quella non poteva dare a Zummo l'esercizio della sua professione d'avvocato! Quella notte stessa, poco dopo le undici, egli sorprese il Granella che usciva scalzo dal portone della sua casa, proprio scalzo, quella notte, in maniche di camicia, con le scarpe e la giacca in una mano, mentre con l'altra si reggeva su la pancia i calzoni che, sopraffatto dal terrore, non era riuscito ad abbottonarsi.
Gli balzò addosso, dall'ombra, come una tigre, gridando:
- Buon passeggio, Granella!
Il pover'uomo, alle risa sgangherate degli altri appostati, si lasciò cader le scarpe di mano, prima una e poi l'altra; e restò, con le spalle al muro, avvilito, basito addirittura.
- Ci credi ora, imbecille, all'anima immortale? - gli ruggí Zummo, scrollandolo per il petto.
- La giustizia cieca ti ha dato ragione.
Ma tu ora hai aperto gli occhi.
Che hai visto? Parla!
Ma il povero Granella, tutto tremante, piangeva, e non poteva parlare.
FUOCO ALLA PAGLIA
Non avendo piú nessuno a cui comandare, Simone Lampo aveva preso da un pezzo l'abitudine di comandare a se stesso.
E si comandava a bacchetta:
- Simone, qua! Simone, là!
S'imponeva apposta, per dispetto del suo stato, le faccende piú ingrate.
Fingeva talvolta di ribellarsi per costringersi a obbedire, rappresentando a un tempo le due parti in commedia.
Diceva, per esempio, rabbioso:
- Non lo voglio fare!
- Simone, ti bastono.
T'ho detto, raccogli quel concime! No?
Pum!...
S'appioppava un solennissimo schiaffo.
E raccoglieva il concime.
Quel giorno, dopo la visita al poderetto, l'unico che gli fosse restato di tutte le terre che un tempo possedeva (appena due ettari di terra, abbandonati lassú, senza custodia d'alcun villano), si comandò di sellar la vecchia asinella, con la quale soleva pur fare, ritornando al paese, i piú speciosi discorsi.
L'asinella, drizzando ora questa ora quella orecchia spelata, pareva gli prestasse ascolto, paziente, non ostante un certo fastidio, che da qualche tempo il padrone le infliggeva e ch'essa non avrebbe saputo precisare: qualcosa che, nell'andare, le sbatteva dietro, sotto la coda.
Era un cestello di vimini senza manico, legato con due lacci al posolino della sella e sospeso sotto la coda alla povera bestia, per raccogliervi e conservare belle calde, fumanti, le pallottole di timo, ch'essa altrimenti avrebbe seminato lungo la strada.
Tutti ridevano, vedendo quella vecchia asinella col cestino dietro, lí pronto al bisogno; e Simone Lampo ci scialava.
Era ben noto alla gente del paese con quale e quanta liberalità fosse un tempo vissuto e in che conto avesse tenuto il denaro.
Ma ora, ecco, era andato a scuola dalle formiche, le quali, b-a-ba, b-a-ba, gli avevano insegnato questo espediente per non perdere neanche quel po' di timo buono a ingrassar la terra.
Sissignori!
- Sú, Nina, sú, lasciati mettere questa bella gala qua! Che siamo piú noi, Nina? Tu niente e io nessuno.
Buoni soltanto da far ridere il paese.
Ma non te ne curare.
Ci restano ancora a casa qualche centinaio d'uccellini.
Cïo-cïo-cïo-cïo...
Non vorrebbero essere mangiati! Ma io me li mangio; e tutto il paese ride.
Viva l'allegria!
Alludeva a un'altra sua bella pensata, che poteva veramente fare il pajo col cestello appeso sotto la coda dell'asina.
Mesi addietro aveva finto di credere che avrebbe potuto novamente arricchire con la cultura degli uccelli.
E aveva fatto delle cinque stanze della sua casa in paese tutt'una gabbia (per cui era detta la gabbia del matto), riducendosi a vivere in due stanzette del piano superiore con la scarsa suppellettile scampata al naufragio delle sue sostanze e con gli usci, gli scuri e le invetriate delle finestre e dei finestroni, che aveva chiuso, per dar aria agli uccelli, con ingraticolati.
Dalla mattina alla sera, dalle cinque stanze da basso venivan sú, con gran delizia di tutto il vicinato, ringhii e strilli e cínfoli e squittíi, chioccolío di merli, spincionar di fringuelli: un cinguettío, un passerajo fitto, continuo, assordante.
Da parecchi giorni però, sfiduciato del buon esito di quel negozio, Simone Lampo mangiava uccellini a tutto pasto, e aveva distrutto lí, nel poderetto, l'apparato di reti e di canne, con cui aveva preso, a centinaja e centinaja, quegli uccellini.
Sellata l'asina, cavalcò e si mise in via per il paese.
Nina non avrebbe affrettato il passo, neanche se il padrone la avesse tempestata di nerbate.
Pareva glielo facesse apposta, per fargli assaporar meglio con la lentezza del suo andare i tristi pensieri che, a suo dire, gli nascevano anche per colpa di lei, di quel tentennío del capo, cioè, ch'essa gli cagionava con la sua andatura.
Sissignori.
A forza di far cosí e cosí con la testa, guardando attorno dall'alto della sua groppa la desolazione dei campi che s'incupiva a mano a mano sempre piú con lo spegnersi degli ultimi barlumi crepuscolari, non poteva fare a meno di mettersi a commiserar la sua rovina.
Lo avevano rovinato le zolfare.
Quante montagne sventrate per il miraggio del tesoro nascosto! Aveva creduto di scoprire dentro ogni montagna una nuova California.
Californie da per tutto! Buche profonde fino a duecento, a trecento metri, buche per la ventilazione, impianti di macchine a vapore, acquedotti per la eduzione delle acque e tante e tante altre spese per uno straterello di zolfo, che non metteva conto, alla fine, di coltivare.
E la triste esperienza fatta piú volte, il giuramento di non cimentarsi mai piú in altre imprese, non eran valsi a distoglierlo da nuovi tentativi, finché non s'era ridotto, com'era adesso, quasi al lastrico.
E la moglie lo aveva abbandonato, per andare a convivere con il suo fratello ricco, poiché l'unica figlia era andata a farsi monaca per disperata.
Era solo, adesso, senza neanche una servaccia in casa; solo e divorato da un continuo orgasmo, che gli faceva commettere tutte quelle follie.
Lo sapeva, sí: era cosciente delle sue follie; le commetteva apposta, per far dispetto alla gente che, prima, da ricco, lo aveva tanto ossequiato, e ora gli voltava le spalle e rideva di lui.
Tutti, tutti ridevano di lui e lo sfuggivano; nessuno che volesse dargli ajuto, che gli dicesse: - Compare, che fate? venite qua: voi sapete lavorare, avete lavorato sempre, onestamente; non fate piú pazzie; mettetevi con me a una buona impresa! - Nessuno.
E la smania, l'interno rodío, in quell'abbandono, in quella solitudine agra e nuda, crescevano e lo esasperavano sempre piú.
L'incertezza di quella sua condizione era la sua maggiore tortura.
Sí, perché non era piú né ricco, né povero.
Ai ricchi non poteva piú accostarsi, e i poveri non lo volevano riconoscere per compagno, per via di quella casa in paese e di quel poderetto lassú.
Ma che gli fruttava la casa? Niente.
Tasse, gli fruttava.
E quanto al poderetto, ecco qua: c'era, per tutta ricchezza, un po' di grano che, mietuto fra pochi giorni, gli avrebbe dato, sí e no, tanto da pagare il censo alla mensa vescovile.
Che gli restava dunque, per mangiare? Quei poveri uccellini, là...
E che pena, anche questa! Finché s'era trattato di prenderli, per tentare un negozio da far ridere la gente, transeat; ma ora, scender giú nel gabbione, acchiapparli, ucciderli e mangiarseli...
- Sú Nina, sú! Dormi, stasera? Sú!
Maledetta la casa e maledetto il podere, che non lo lasciavano essere neanche povero bene, povero e pazzo, lí, in mezzo a una strada, povero senza pensieri, come tanti ne conosceva e per cui, nell'esasperazione in cui si trovava, sentiva un'invidia angosciosa.
Tutt'a un tratto Nina s'impuntò con le orecchie tese.
- Chi è là? - gridò Simone Lampo.
Sul parapetto d'un ponticello lungo lo stradone gli parve di scorgere, nel bujo, qualcuno sdrajato.
- Chi è là?
Colui che stava lí sdrajato alzò appena il capo ed emise come un grugnito.
- Oh tu, Nàzzaro? Che fai lí?
- Aspetto le stelle.
- Te le mangi?
- No: le conto.
- E poi?
Infastidito da quelle domande, Nàzzaro si rizzò a sedere sul parapetto e gridò iroso, tra il fitto barbone abbatuffolato:
- Don Simo', andate, non mi seccate! Sapete bene che a quest'ora non negozio piú; e con voi non voglio discorrere!
Cosí dicendo, si sdrajò di nuovo, a pancia all'aria, sul parapetto, in attesa delle stelle.
Quando aveva guadagnato quattro soldi, o strigliando due bestie o accudendo a qualche altra faccenda, purché spiccia, Nàzzaro diventava padrone del mondo.
Due soldi di pane e due soldi di frutta.
Non aveva bisogno d'altro.
E se qualcuno gli proponeva di guadagnarsi, oltre a quei quattro soldi, per qualche altra faccenda, una o magari dieci lire, rifiutava, rispondendo sdegnosamente a quel suo modo:
- Non negozio piú!
E si metteva a vagar per le campagne o lungo la spiaggia del mare o sú per i monti.
S'incontrava da per tutto, e dove meno si sarebbe aspettato, scalzo, silenzioso, con le mani dietro la schiena e gli occhi chiari, invagati e ridenti.
- Ve ne volete andare, insomma, sí o no? - gridò levandosi di nuovo a sedere sul parapetto, piú iroso, vedendo che quello s'era fermato con l'asina a contemplarlo.
- Non mi vuoi neanche tu? - disse allora Simone Lampo, scotendo il capo.
- Eppure, va' là, che potremmo far bene il paio, noi due.
- Col demonio, voi, il paio! - borbottò Nàzzaro, tornando a sdrajarsi.
- Siete in peccato mortale, ve l'ho detto!
- Per quegli uccellini?
- L'anima, l'anima, il cuore...
non ve lo sentite rodere, il cuore? Sono tutte quelle creature di Dio, che vi siete mangiate! Andate...
Peccato mortale!
- Arrí, - disse Simone Lampo all'asinella.
Fatti pochi passi, s'arrestò di nuovo, si voltò indietro e chiamò:
- Nàzzaro!
Il vagabondo non gli rispose.
- Nàzzaro - ripeté Simone Lampo.
- Vuoi venire con me a liberare gli uccelli?
Nàzzaro si rizzò di scatto.
- Dite davvero?
- Sí.
- Volete salvarvi l'anima? Non basta.
Dovreste dar fuoco anche alla paglia!
- Che paglia?
- A tutta la paglia! - disse Nàzzaro, accostandosi, rapido e leggero come un'ombra.
Posò una mano sul collo dell'asina, l'altra su una gamba di Simone Lampo e, guardandolo negli occhi, tornò a domandargli:
- Vi volete salvar l'anima davvero?
Simone Lampo sorrise e gli rispose:
- Sí.
- Proprio davvero? Giuratelo! Badate, io so quello che ci vorrebbe per voi.
Studio la notte, e so quello che ci vorrebbe, non per voi soltanto, ma anche per tutti i ladri, per tutti gl'impostori che abitano laggiú, nel nostro paese; quello che Dio dovrebbe fare per la loro salvazione e che fa, presto o tardi, sempre: non dubitate! Dunque volete davvero liberare gli uccelli?
- Ma sí, te l'ho detto.
- E fuoco alla paglia?
- E fuoco alla paglia!
- Va bene.
Vi prendo in parola.
Andate avanti e aspettatemi.
Devo ancora contare fino a cento.
Simone Lampo riprese la via, sorridendo e dicendo a Nàzzaro:
- Bada, t'aspetto.
S'intravedevano ormai laggiú, lungo la spiaggia, i lumi fiochi del paesello.
Da quella via su l'altipiano marnoso che dominava il paese, si spalancava nella notte la vacuità misteriosa del mare, che faceva apparir piú misero quel gruppetto di lumi laggiú.
Simone Lampo trasse un profondo sospiro e aggrottò le ciglia.
Salutava ogni volta cosí, da lontano, l'apparizione di quei lumi.
C'eran due pazzi patentati per gli uomini che stavano laggiú, oppressi, ammucchiati: lui e Nàzzaro.
Bene: ora si sarebbero messi insieme, per accrescere l'allegria del paese! Libertà agli uccellini e fuoco alla paglia! Gli piaceva questa esclamazione di Nàzzaro; e se la ripeté con crescente soddisfazione parecchie volte prima di giungere al paese.
- Fuoco alla paglia!
Gli uccellini, a quell'ora, dormivano tutti, nelle cinque stanze del piano di sotto.
Quella sarebbe stata per loro l'ultima notte da passar lí.
Domani, via! Liberi.
Una gran volata! E si sarebbero sparpagliati per l'aria; sarebbero ritornati ai campi, liberi e felici.
Sí, era una vera crudeltà, la sua.
Nàzzaro aveva ragione.
Peccato mortale! Meglio mangiar pane asciutto, e lí.
Legò l'asina nella stalluccia e, con la lucernetta a olio in mano, andò sú ad aspettar Nàzzaro, che doveva contare, come gli aveva detto, fino a cento stelle.
- Matto! Chi sa perché? Ma era forse una divozione...
Aspetta e aspetta, Simone Lampo cominciò ad aver sonno.
Altro che cento stelle! Dovevano esser passate piú di tre ore.
Mezzo firmamento avrebbe potuto contare...
Via! via! Forse glie l'aveva detto per burla, che sarebbe venuto.
Inutile aspettarlo ancora.
E si disponeva a buttarsi sul letto, cosí vestito, quando sentí bussare forte all'uscio di strada.
Ed ecco Nàzzaro, ansante e tutto ilare e irrequieto.
- Sei venuto di corsa?
- Sí.
Fatto!
- Che hai fatto?
- Tutto.
Ne parleremo domani, don Simo'! Sono stanco morto.
Si buttò a sedere su una seggiola e cominciò a stropicciarsi le gambe con tutt'e due le mani, mentre gli occhi d'animale forastico gli brillavano d'un riso strano, abbozzato appena sulle labbra di tra il folto barbone.
- Gli uccelli? - domandò.
- Giú.
Dormono.
- Va bene.
Non avete sonno voi?
- Sí.
T'ho aspettato tanto...
- Prima non ho potuto.
Coricatevi.
Ho sonno anch'io, e dormo qua, su questa seggiola.
Sto bene, non v'incomodate! Ricordatevi che siete ancora in peccato mortale! Domani compiremo l'espiazione.
Simone Lampo lo mirava dal letto, appoggiato su un gomito; beato.
Quanto gli piaceva quel matto vagabondo! Gli era passato il sonno, e voleva seguitare la conversazione.
- Perché conti le stelle, Nàzzaro, di'?
- Perché mi piace contarle.
Dormite!
- Aspetta.
Dimmi: sei contento tu?
- Di che? - domandò Nàzzaro, levando la testa, che aveva già affondata tra le braccia appoggiate al tavolino.
- Di tutto, - disse Simone Lampo.
- Di vivere cosí...
- Contento? Tutti in pena siamo, don Simo'! Ma non ve n'incaricate.
Passerà! Dormiamo.
E riaffondò la testa tra le braccia.
Simone Lampo sporse il capo per spegnere la candela; ma, sul punto, trattenne il fiato.
Lo costernava un po' l'idea di restare al bujo con quel matto là.
- Di', Nàzzaro: vorresti rimanere sempre con me?
- Sempre non si dice.
Finché volete.
Perché no?
- E mi vorrai bene?
- Perché no? Ma, né voi padrone, né io servo.
Insieme.
Vi sto appresso da un pezzo, sapete? So che parlate con l'asina e con voi stesso; e ho detto tra me: La sorba si matura...
Ma non mi volevo accostare a voi, perché avevate gli uccelli prigionieri in casa.
Ora che m'avete detto di voler salvare l'anima, starò con voi, finché mi vorrete.
Intanto, v'ho preso in parola, e il primo passo è fatto.
Buona notte.
- E il rosario, non te lo dici? Parli tanto di Dio!
- Me lo son detto.
È in cielo il mio rosario.
Un'avemaria per ogni stella.
- Ah, le conti per questo?
- Per questo.
Buona notte.
Simone Lampo, raffidato da queste parole, spense la candela.
E poco dopo, tutti e due dormivano.
All'alba, i primi cinguettii degli uccelli imprigionati svegliarono subito il vagabondo, che dalla seggiola s'era buttato a dormire in terra.
Simone Lampo, che a quei cinguettii era già avvezzo, ronfava ancora.
Nàzzaro andò a svegliarlo.
- Don Simo', gli uccelli ci chiamano.
- Ah, già! - fece Simone Lampo, destandosi di soprassalto e sgranando tanto d'occhi alla vista di Nàzzaro.
Non si ricordava piú di nulla.
Condusse il compagno nell'altra stanzetta e, sollevata la caditoja su l'assito, scesero entrambi la scala di legno della cateratta e pervennero nel piano di sotto, intanfato dello sterco di tutte quelle bestioline e di rinchiuso.
Gli uccelli, spaventati, presero tutti insieme a strillare, levandosi con gran tumulto d'ali verso il tetto.
- Quanti! quanti! - esclamò Nàzzaro, pietosamente, con le lagrime agli occhi.
- Povere creature di Dio!
- E ce n'erano di piú! - esclamò Simone Lampo, tentennando il capo.
- Meritereste la forca, don Simo'! - gli gridò quello mostrandogli le pugna.
- Non so se basterà l'espiazione che v'ho fatto fare! Sú, andiamo! Bisognerà mandarli tutti in una stanza, prima.
- Non ce n'è bisogno.
Guarda! - disse Simone Lampo, afferrando un fascio di cordicelle che, per un congegno complicatissimo, tenevano aderenti ai vani delle finestre e dei finestroni gli ingraticolati.
Vi si appese, e giú! Gl'ingraticolati, alla strappata, precipitarono tutt'insieme con fracasso indiavolato.
- Cacciamo via, ora! cacciamo via! Libertà! Libertà! Sciò! sciò! sciò!
Gli uccelli, da piú mesi lí imprigionati, in quel subitaneo scompiglio, sgomenti, sospesi sul fremito delle ali, non seppero in prima spiccare il volo: bisognò che alcuni, piú animosi, s'avventassero via, come frecce, con uno strido di giubilo e di paura insieme; seguiron gli altri, cacciati, a stormi, a stormi, in gran confusione, e si sparpagliarono dapprima, come per rimettersi un po' dallo stordimento, su gli scrimoli dei tetti, su le torrette dei camini, su i davanzali delle finestre, su le ringhiere dei balconi del vicinato, suscitando giú, nella strada, un gran clamore di meraviglia, a cui Nàzzaro, piangente dalla commozione, e Simone Lampo rispondevano seguitando a gridare per le stanze ormai vuote:
- Sciò! sciò! Libertà! Libertà!
S'affacciarono quindi anch'essi a godere dello spettacolo della via invasa da tutti quegli uccellini liberati alla nuova luce dell'alba.
Ma già qualche finestra si schiudeva; qualche ragazzo, qualche donna tentavano, ridendo, di ghermire questo o quell'uccellino; e allora Nàzzaro, furibondo, protese le braccia e cominciò a sbraitare come un ossesso:
- Lasciate! Non v'arrischiate! Ah, mascalzone! ah, ladra di Dio! Lasciateli andare!
Simone Lampo cercò di calmarlo:
- Va' là! Sta' tranquillo, che non si lasceranno piú prendere ormai...
Ritornarono al piano di sopra, sollevati e contenti.
Simone Lampo s'accostò a un fornelletto per accendere il fuoco e fare il caffè; ma Nàzzaro lo trasse di furia per un braccio.
- Che caffè, don Simo'! Il fuoco è già acceso.
L'ho acceso io stanotte.
Sú, corriamo a vedere l'altra volata di là!
- L'altra volata? - gli domandò Simone Lampo, stordito.
- Che volata?
- Una di qua, e una di là! - disse Nàzzaro.
- L'espiazione, per tutti gli uccelli che vi siete mangiati.
Fuoco alla paglia, non ve l'ho detto? Andiamo a sellare l'asina, e vedrete.
Simone Lampo vide passarsi come una vampa davanti agli occhi.
Temette d'intendere.
Afferrò Nàzzaro per le braccia e, scotendolo, gli gridò:
- Che hai fatto?
- Ho bruciato il grano del vostro podere, - gli rispose tranquillamente Nàzzaro.
Simone Lampo allibí dapprima; poi, trasfigurato dall'ira, si lanciò contro il matto.
- Tu? Il grano? Assassino! Dici davvero? M'hai bruciato il grano?
Nàzzaro lo respinse con una bracciata furiosa.
- Don Simo', a che gioco giochiamo? Di quanti parlari siete? Fuoco alla paglia, mi avete detto.
E io ho dato fuoco alla paglia, per l'anima vostra!
- Ma io ti mando ora in galera! - ruggí Simone Lampo.
Nàzzaro ruppe in una gran risata, e gli disse chiaro e tondo:
- Pazzo siete! L'anima, eh? Cosí ve la volete salvare l'anima? Niente, don Simo'! Non ne facciamo niente.
- Ma tu m'hai rovinato, assassino! - gridò con altro tono di voce Simone Lampo, quasi piangente, ora.
- Potevo figurarmi che tu intendessi dir questo? bruciarmi il grano? E come faccio ora? Come pago il censo alla mensa vescovile? il censo che grava sul podere?
Nàzzaro lo guardò con aria di compatimento sdegnoso:
- Bambino! Vendete la casa, che non vi serve a nulla, e liberate del censo il podere.
È presto fatto.
- Sí, - sghignò Simone Lampo.
- E intanto che mangio io là, senza uccelli e senza grano?
- A questo ci penso io, - gli rispose con placida serietà Nàzzaro.
- Non devo star con voi? Abbiamo l'asina; abbiamo la terra; zapperemo e mangeremo.
Coraggio, don Simo'!
Simone Lampo rimase stupito a mirare la fiducia serena di quel matto, ch'era rimasto innanzi a lui con una mano alzata a un gesto di noncuranza sdegnosa e un bel riso d'arguta spensieratezza negli occhi chiari e tra il folto barbone abbatuffolato.
LA FEDELTÀ DEL CANE
Mentre donna Giannetta, ancora in sottana, e con le spalle e le braccia scoperte e un po' anche il seno (piú d'un po', veramente) si racconciava i bei capelli corvini seduta innanzi alla specchiera, il marchese don Giulio del Carpine finiva di fumarsi una sigaretta, sdrajato sulla poltrona a piè del letto disfatto, ma con tale cipiglio, che in quella sigaretta pareva vedesse e volesse distruggere chi sa che cosa, dal modo come la guardava nel togliersela dalle labbra, dalla rabbia con cui ne aspirava il fumo e poi lo sbuffava.
D'improvviso si rizzò sulla vita e disse scrollando il capo:
- Ma no, via, non è possibile!
Donna Giannetta si voltò sorridente a guardarlo, con le belle braccia levate e le mani tra i capelli, come donna che non tema di mostrar troppo del proprio corpo.
- Ancora ci pensi?
- Perché non c'è logica! - scattò egli, alzandosi, stizzito.
- Tra me e...
coso, e Lulú, via, non tocca a dirlo a me...
Donna Giannetta chinò il capo da una parte e stette cosí a osservar don Giulio di sotto il braccio come per farne una perizia disinteressata prima di emettere un giudizio.
Poi, comicamente, quasiché la coscienza proprio non le permettesse di concedere senza qualche riserva, sospirò:
- Eh, secondo...
- Ma che secondo, fa' il piacere!
- Secondo, secondo, caro mio, - ripeté allora senz'altro donna Giannetta.
Del Carpine scrollò le spalle e si mosse per la camera.
Quand'aveva la barba era veramente un bell'uomo; alto di statura, ferrigno.
Ma ora, tutto raso per obbedire alla moda, con quel mento troppo piccolo e quel naso troppo grosso, dire che fosse bello, via, non si poteva piú dire, soprattutto perché pareva che lui lo pretendesse, anche cosí con la barba rasa, anzi appunto perché se l'era rasa.
- La gelosia, del resto, - sentenziò, - non dipende tanto dalla poca stima che l'uomo ha della donna, o viceversa, quanto dalla poca stima che abbiamo di noi stessi.
E allora...
Ma guardandosi per caso le unghie, perdette il filo del discorso, e fissò donna Giannetta, come se avesse parlato lei e non lui.
Donna Giannetta, che se ne stava ancora alla specchiera, con le spalle voltate, lo vide nello specchio, e con una mossetta degli occhi gli domandò:
- E allora...
che cosa?
- Ma sí, è proprio questo! Nasce da questo! - riprese lui, con rabbia.
- Da questa poca stima di noi, che ci fa credere, o meglio, temere di non bastare a riempire il cuore o la mente, a soddisfare i gusti o i capricci di chi amiamo; ecco!
- Oh, - fece allora lei, con un respiro di sollievo.
- E tu non l'hai, di te?
- Che cosa?
- Cotesta poca stima che dici.
- Non l'ho, non l'ho, non l'ho, se mi paragono con...
coso, con Lulú; ecco!
- Povero Lulú mio! - esclamò allora donna Giannetta, rompendo in una sua abituale risatina, ch'era come una cascatella gorgogliante.
- Ma tua moglie? - domandò poi.
- Bisognerebbe ora vedere che stima ha di te tua moglie.
- Oh senti! - s'affrettò a risponderle don Giulio, infiammato.
- Non posso in nessun modo crederla capace di preferirmi...
- Coso!
- Non c'è logica! non c'è logica! Mia moglie sarà...
sarà come tu vuoi; ma intelligente è.
Di noi, ch'io sappia, non sospetta.
Perché lo farebbe? E con Lulú, poi?
Donna Giannetta, finito d'acconciarsi i capelli, si levò dalla specchiera.
- Tu insomma, - disse, - difendi la logica.
La tua, però.
Prendimi il copribusto, di là.
Ecco, sí, codesto, grazie.
Non la logica di tua moglie, caro mio.
Come ragionerà Livia? Perché Lulú è affettuoso, Lulú è prudente, Lulú è servizievole...
E mica tanto sciocco poi, sai? Guarda: io, per esempio, non ho il minimo dubbio che lui...
- Ma va'! - negò recisamente don Giulio, dando una spallata.
- Del resto, che sai tu? chi te l'ha detto?
- Ih, - fece donna Giannetta, appressandoglisi, prendendolo per le braccia e guardandolo negli occhi.
- Ti alteri? Ti turbi sul serio? Ma scusa, è semplicemente ridicolo...
mentre noi, qua...
- Non per questo! - scattò del Carpine, infocato in volto.
- Non ci so credere, ecco! Mi pare impossibile, mi pare assurdo che Livia...
- Ah sí? Aspetta, - lo interruppe donna Giannetta.
Gli tese prima il copribusto di nansouk, perch'egli l'ajutasse a infilarselo, poi andò a prendere dalla mensola una borsetta, ne trasse un cartoncino filettato d'oro, strappato dal taccuino, e glielo porse.
Vi era scritto frettolosamente a matita un indirizzo: Via Sardegna, 96.
- Se vuoi, per pura curiosità...
Don Giulio del Carpine restò a guardarla, stordito, col pezzettino di carta in mano.
- Come...
come l'hai scoperto?
- Eh, - fece donna Giannetta, stringendosi nelle spalle e socchiudendo maliziosamente gli occhi.
- Lulú è prudente, ma io...
Per la nostra sicurezza...
Caro mio, tu badi troppo a te...
Non ti sei accorto, per esempio, com'io da qualche tempo venga qua e ne vada via piú tranquilla?
- Ah...
- sospirò egli astratto, turbato.
- E Livia, dunque...? Via Sardegna: sarebbe una traversa di Via Veneto?
- Sí: numero 96, una delle ultime case, in fondo.
C'è sotto uno studio di scultura, preso anche a pigione da Lulú.
Ah! ah! ah! Te lo figuri Lulú...
scultore?
Rise forte, a lungo.
Rise altre volte, a scatti, mentre finiva di vestirsi, per le comiche immagini che le suscitava il pensiero di Lulú, suo marito, scultore in una scuola di nudo, con Livia del Carpine per modella.
E guardava obliquamente don Giulio, che s'era seduto di nuovo su la poltrona, col cartoncino arrotolato fra le dita.
Quando fu pronta, col cappellino in capo e la veletta abbassata, si guardò allo specchio, di faccia, di fianco, poi disse:
- Non bisogna presumer troppo di sé, caro! Io ci ho piacere per il povero Lulú, e anche per me...
Anche tu, del resto, dovresti esserne contento.
Scoppiò di nuovo a ridere, vedendo la faccia che lui le faceva; e corse a sederglisi su le ginocchia e a carezzarlo:
- Vendicati su me, via, Giugiú! Come sei terribile...
Ma chi la fa l'aspetta, caro: proverbio! Poiché Lulú è contento, noi adesso...
- Io voglio prima accertarmene, capisci? - diss'egli duramente, con un moto di rabbia mal represso, quasi respingendola.
Donna Giannetta si levò subito in piedi, risentita, e disse fredda fredda:
- Fa' pure.
Addio, eh?
Ma s'affrettò a levarsi anche lui, pentito.
L'espansione d'affetto a cui stava per abbandonarsi gli fu però interrotta dalla stizza persistente.
Tuttavia disse:
- Scusami, Gianna...
Mi...
mi hai frastornato, ecco.
Sí, hai ragione.
Dobbiamo vendicarci bene.
Piú mia, piú mia, piú mia....
E la prese, cosí dicendo, per la vita e la strinse forte a sé.
- No...
Dio...
mi guasti tutta di nuovo! - gridò lei, ma contenta, cercando d'opporsi con le braccia.
Poi lo baciò pian piano, teneramente da dietro la veletta, e scappò via.
Giugiú del Carpine, aggrottato e con gli occhi fissi nel vuoto, rimase a raschiarsi le guance rase con le unghie della mano spalmata sulla bocca.
Si riscosse come punto da un improvviso ribrezzo per quella donna che aveva voluto morderlo velenosamente, cosí, per piacere.
Contenta ne era; ma non per la loro sicurezza.
No! contenta di non esser sola; e anche (ma sí, lo aveva detto chiaramente) per aver punito la presunzione di lui.
Senza capire, imbecille, che se lei, avendo Lulú per marito, poteva in certo qual modo avere una scusa al tradimento, Livia no, perdio, Livia no!
S'era fisso ormai questo chiodo, e non si poteva dar pace.
Dell'onestà di sua moglie, come di quella di tutte le donne in genere, non aveva avuto mai un gran concetto.
Ma uno grandissimo ne aveva di sé, della sua forza, della sua prestanza maschile; e riteneva perciò, fermamente, che sua moglie...
Forse però poteva essersi messa con Lulú Sacchi per vendetta.
Vendetta?
Ma Dio mio, che vendetta per lei? Avrebbe fatto, se mai, quella di Lulú Sacchi, non già la sua, mettendosi con un uomo che valeva molto meno di suo marito.
Già! Ma non s'era egli messo scioccamente con una donna che valeva senza dubbio molto meno di sua moglie?
Ecco allora perché Lulú Sacchi mostrava di curarsi cosí poco del tradimento di donna Giannetta.
Sfido! Erano suoi tutti i vantaggi di quello scambio.
Anche quello d'aver acquistato, dalla relazione di lui con donna Giannetta, il diritto d'esser lasciato in pace.
Il danno e le beffe, dunque.
Ah, no, perdio! no, e poi no!
Uscí, pieno d'astio e furioso.
Tutto quel giorno si dibatté tra i piú opposti propositi, perché piú ci pensava, piú la cosa gli pareva inverosimile.
In sei anni di matrimonio aveva sperimentato sua moglie, se non al tutto insensibile, certo non molto proclive all'amore.
Possibile che si fosse ingannato cosí?
Stette tutto quel giorno fuori; rincasò a tarda notte per non incontrarsi con sua moglie.
Temeva di tradirsi, quantunque dicesse ancora a se stesso che, prima di credere, voleva vedere.
Il giorno dopo si svegliò fermo finalmente in questo proposito di andare a vedere.
Ma, appena sulle mosse, cominciò a provare un'acre irritazione; avvilimento e nausea.
Perché, dato il caso che il tradimento fosse vero, che poteva far lui? Nulla.
Fingere soltanto di non sapere.
E non c'era il rischio d'imbattersi nell'uno o nell'altra, per quella via? Forse sarebbe stato piú prudente andar prima, di mattina, a veder soltanto quella casa, far le prime indagini e deliberare quindi sul posto ciò che gli sarebbe convenuto di fare.
Si vestí in fretta; andò.
Vide cosí la casa al numero 96, la quale aveva realmente al pianterreno lo studio di scultura, per cui donna Giannetta aveva tanto riso.
La verità di questa indicazione gli rimescolò tutto il sangue, come se essa importasse di conseguenza la prova del tradimento.
Dal portone d'una casa dirimpetto, un po' piú giú si fermò a guardare le finestre di quella casa e a domandarsi quali fossero quelle del quartierino appigionato da Lulú.
Pensò infine che quel portone, non guardato da nessuno, poteva essere per lui un buon posto da vedere senz'esser visto, quando, a tempo debito, sarebbe venuto a spiare.
Conoscendo le abitudini della moglie, le ore in cui soleva uscir di casa, argomentò che il convegno con l'amante poteva aver luogo o alla mattina, fra le dieci e le undici, o nel pomeriggio, poco dopo le quattro.
Ma piú facilmente di mattina.
Ebbene, poiché era lí, perché non rimanerci? Poteva darsi benissimo che gli riuscisse di togliersi il dubbio quella mattina stessa.
Guardò l'orologio; mancava poco piú di un'ora alle dieci.
Impossibile star lí fermo, in quel portone, tanto tempo.
Poiché lí vicino c'era l'entrata a Villa Borghese da Porta Pinciana: ecco, si sarebbe recato a passeggiare a Villa Borghese per un'oretta.
Era una bella mattinata di novembre, un po' rigida.
Entrato nella Villa, don Giulio vide nella prossima pista due ufficiali d'artiglieria insieme con due signorine, che parevano inglesi, sorelle, bionde e svelte nelle amazzoni grige, con due lunghi nastri scarlatti annodati attorno al colletto maschile.
Sotto gli occhi di don Giulio essi presero tutt'e quattro a un tempo la corsa, come per una sfida.
E don Giulio si distrasse: scese il ciglio del viale, s'appressò alla pista per seguir quella corsa e notò subito, con l'occhio esperto, che il cavallo, un sauro, montato dalla signorina che stava a destra, buttava male i quarti anteriori.
I quattro scomparvero nel giro della pista.
E don Giulio rimase lí a guardare, ma dentro di sé: sua moglie, donna Livia, su un grosso bajo focoso.
Nessuna donna stava cosí bene in sella, come sua moglie.
Era veramente un piacere vederla.
Cavallerizza nata! E con tanta passione pei cavalli, cosí nemica dei languori femminili, s'era andata a mettere con quel Lulú Sacchi frollo, melenso?...
Era da vedere, via!
Girò, astratto, assorto, pe' viali, dove lo portavano i piedi.
A un certo punto consultò l'orologio e s'affrettò a tornare indietro.
S'eran fatte circa le dieci, perbacco! e diventava quasi un'impresa, ora, traversare Via Sardegna per arrivare a quel portone là in fondo.
Certo sua moglie non sarebbe venuta dalla parte di Via Veneto, ma da laggiú, per una traversa di Via Boncompagni.
C'era però il rischio che di qua venisse Lulú e lo scorgesse.
Simulando una gran disinvoltura, senza voltarsi indietro, ma allungando lo sguardo fin in fondo alla via, del Carpine andava con un gran batticuore che, dandogli una romba negli orecchi, quasi gli toglieva il senso dell'udito.
Man mano che inoltrava, l'ansia gli cresceva.
Ma ecco il portone: ancora pochi passi...
E don Giulio stava per trarre un gran respiro di sollievo, sgattajolando dentro il portone, quando...
- Tu, qua?
Trasecolò.
Lulú Sacchi era lí anche lui, nello stesso portone.
Curvo, carezzava un cagnolino lungo lungo, basso basso, di pelo nero; e quel cagnolino gli faceva un mondo di feste, tutto fremente, e si storcignava, si allungava, grattando con le zampette su le gambe di lui, o saltava per arrivare a lambirgli il volto.
Ma non era Liri, quello? Sí, Liri, il cagnolino di sua moglie.
Lulú era pallido, alterato dalla commozione; aveva gli occhi pieni di lagrime, evidentemente per le feste che gli faceva il cagnolino, quella bestiola buona, quella bestiola cara, che lo conosceva bene e gli era fedele, ah esso sí, esso sí! non come quella sua padronaccia, donna indegna, donna vile, sí, sí, o buon Liri, anche vile, vile; perché una donna che si porta nel quartierino pagato dal proprio amante un altro amante, il quale dev'essere per forza un miserabile, un farabutto, un mascalzone, questa donna, o buon Liri, è vile, vile, vile.
Cosí diceva fra sé Lulú Sacchi, carezzando il cagnolino e piangendo dall'onta e dal dolore, prima che Giulio del Carpine entrasse nel portone, dove anche lui era venuto ad appostarsi.
Per un equivoco preso dalla vecchia serva che si recava dopo i convegni a rassettare il quartierino, Lulú aveva scoperto quell'infamia di donna Livia; e, venendo ad appostarsi, aveva trovato per istrada Liri, smarrito evidentemente dalla padrona nella fretta di salir sú al convegno.
La presenza del cagnolino, lí, in quella strada, aveva dato la prova a Lulú Sacchi che il tradimento era vero, era vero! Anche lui non aveva voluto crederci; ma con piú ragione, lui, perché veramente una tale indegnità passava la parte.
E adesso si spiegava perché ella non aveva voluto ch'egli tenesse la chiave del quartierino e se la fosse tenuta lei, invece, costringendolo ogni volta ad aspettare lí, nello studio di scultura, ch'ella venisse.
Oh com'era stato imbecille, stupido, cieco!
Tutto intanto poteva aspettarsi il povero Lulú, tranne che don Giulio del Carpine venisse a sorprenderlo nel suo agguato.
I due uomini si guardarono, allibiti.
Lulú Sacchi non pensò che aveva gli occhi rossi di pianto, ma istintivamente, poiché le lagrime gli si erano raggelate sul volto in fiamme, se le portò via con due dita e, alla prima domanda lanciata nello stupore da don Giulio: Tu qua! rispose balbettando e aprendo le labbra a uno squallido sorriso:
-Eh?...
già...
sí...
a-aspettavo...
Del Carpine guardò, accigliato, il cane.
- E Liri?
Lulú Sacchi chinò gli occhi a guardarlo, come se non lo avesse prima veduto, e disse:
- Già...
Non so...
si trova qui...
Di fronte a quella smarrita scimunitaggine, don Giulio ebbe come un fremito di stizza; scese sul marciapiede della via e guardò in sú, al numero del portone.
- Insomma è qua? Dov'è?
- Che dici? - domandò Lulú Sacchi ancora col sorriso squallido su le labbra, ma come se non avesse piú una goccia di sangue nelle vene.
Del Carpine lo guardò con gli occhi invetrati.
- Chi aspettavi tu qua?
- Un...
un mio amico, - balbettò Lulú.
- È...
è andato sú...
- Con Livia? - domandò del Carpine.
- No! Che dici? - fece Lulú Sacchi, smorendo vieppiú.
- Ma se Liri è qua...
- Già, è qua; ma ti giuro che io l'ho proprio trovato per istrada, - disse col calore della verità Lulú Sacchi infoscandosi a un tratto.
- Qua? per istrada? - ripeté del Carpine, chinandosi verso il cane.
- Sai tu dunque la strada, eh, Liri? Come mai? Come mai?
La povera bestiola, sentendo la voce del padrone insolitamente carezzevole, fu presa da una subita gioja; gli si slanciò su le gambe, dimenandosi tutta; cominciò a smaniare con le zampette; s'allungò, guajolando; poi s'arrotolò per terra e, quasi fosse improvvisamente impazzita, si mise a girare, a girar di furia per l'androne; poi a spiccar salti addosso al padrone, addosso a Lulú, abbajando forte, ora, come se, in quel suo delirio d'affetto, in quell'accensione della istintiva fedeltà, volesse uniti quei due uomini, fra i quali non sapeva come spartire la sua gioja e la sua devozione.
Era veramente uno spettacolo commoventissimo la fedeltà di questo cane d'una donna infedele, verso quei due uomini ingannati.
L'uno e l'altro, ora, per sottrarsi al penosissimo imbarazzo in cui si trovavano cosí di fronte, si compiacevano molto della festa frenetica ch'esso faceva loro; e presero ad aizzarlo con la voce, col frullo delle dita: - "Qua, Liri!" - "Povero Liri!" - ridendo tutti e due convulsamente.
A un tratto però Liri s'arrestò, come per un fiuto improvviso: andò su la soglia del portone, vi si acculò un po', sospeso, inquieto, guardando nella via, con le due orecchie tese e la testina piegata da una parte, quindi spiccò la corsa precipitosamente.
Don Giulio sporse il capo a guardare, e vide allora sua moglie che svoltava dalla via, seguita dal cagnolino.
Ma sentí afferrarsi per un braccio da Lulú Sacchi, il quale - pallido, stravolto, fremente - gli disse:
- Aspetta! Lasciami vedere con chi...
- Come! - fece don Giulio, restando.
Ma Lulú Sacchi non ragionava piú; lo strappò indietro, ripetendo:
- Lasciami vedere, ti dico! Sta' zitto...
Vide Liri, che s'era fermato all'angolo della via, perplesso, come tenuto tra due, guardando verso il portone, in attesa.
Poco dopo, dalla porta segnata col numero 96 uscí un giovanottone su i vent'anni, tronfio, infocato in volto, con un paio di baffoni in sú, inverosimili.
- Il Toti! - esclamò allora Lulú Sacchi, con un ghigno orribile, che gli contraeva tutto il volto; e, senza lasciare il braccio di don Giulio, aggiunse: - Il Toti, capisci? Un ragazzaccio! Uno studentello! Capisci, che fa tua moglie? Ma gliel'accomodo io, adesso! Lasciami fare...
Hai visto? E ora basta, Giulio! Basta per tutti, sai?
E scappò via, su le furie.
Don Giulio del Carpine rimase come intronato.
Eh che? Due, dunque: Lulú messo da parte, oltrepassato? Lí, un altro, nello stesso quartierino? Un giovinastro...
Sua moglie! E come mai Lulú?...
Dunque, stava ad aspettare anche lui?...
E quel cagnolino smarrito lí, in mezzo alla via, confuso...
eh sfido!...
tra tanti...
E aveva fatto le feste anche a lui...
carino...
carino...
carino...
- Ah! - fece don Giulio, scrollandosi tutto dalla nausea, dal ribrezzo, ma pur con un segreto compiacimento che, per Lulú almeno, era come aveva detto lui: che veramente, cioè, sua moglie non aveva potuto prenderlo sul serio, e lo aveva ingannato, ecco qua; e non solo, ma anche schernito! anche schernito!
Cavò il fazzoletto e si stropicciò le mani che la bestiola devota gli aveva lambite; se le stropicciò forte forte forte, fin quasi a levarsi la pelle.
Ma, a un tratto, se lo vide accanto, chiotto chiotto, con le orecchie basse, la coda tra le gambe, quel povero Liri, che s'era provato a seguir prima la padrona, poi il Toti, poi Lulú e che ora infine aveva preso a seguir lui.
Don Giulio fu assalito da una rabbia furibonda: gli parve oscenamente scandalosa la fedeltà di quella brutta bestiola, e le allungò anche lui un violentissimo calcio.
- Va' via!
TUTTO PER BENE
I
La signorina Silvia Ascensi, venuta a Roma per ottenere il trasferimento dalla Scuola normale di Perugia in altra sede - qualunque e dovunque fosse, magari in Sicilia, magari in Sardegna - si rivolse per ajuto al giovane deputato del collegio, onorevole Marco Verona, che era stato discepolo devotissimo del suo povero babbo, il professor Ascensi dell'Università di Perugia, illustre fisico, morto da un anno appena, per uno sciagurato accidente di gabinetto.
Era sicura che il Verona, conoscendo bene i motivi per cui ella voleva andar via dalla città natale, avrebbe fatto valere in suo favore la grande autorità che in poco tempo era riuscito ad acquistarsi in Parlamento.
Il Verona, difatti, la accolse non solo cortesemente, ma con vera benevolenza.
Ebbe finanche la degnazione di ricordarle le visite che, da studente, egli aveva fatto al compianto professore, perché ad alcune di queste visite, se non s'ingannava, ella era stata presente, giovinetta allora, ma non tanto piccolina, se già - ma sicuro! - se già faceva da segretaria al babbo...
La signorina Ascensi, a tal ricordo, s'invermigliò tutta.
Piccolina? Altro che! Aveva nientemeno che quattordici anni lei, allora...
E lui, l'onorevole Verona, quanti poteva averne.
Venti, ventuno al piú.
Oh, ella avrebbe potuto ripetergli ancora, parola per parola, tutto ciò ch'egli era venuto a chiedere al babbo in quelle visite.
Il Verona si mostrò dolentissimo di non aver seguitato gli studii, pei quali il professor Ascensi aveva saputo ispirargli in quel tempo tanto fervore; poi esortò la signorina a farsi animo, poiché ella, al ricordo della sciagura recente, non aveva saputo trattener le lagrime.
Infine, per raccomandarla con maggiore efficacia, volle accompagnarla - (ma proprio scomodarsi fino a tal punto?) - sí sí, lui in persona volle accompagnarla al Ministero della Pubblica Istruzione.
D'estate, però, erano tutti in vacanza, quell'anno, alla Minerva.
Per il ministro e il sotto-segretario di Stato l'onorevole Verona lo sapeva; ma non credeva di non trovare in ufficio il capo-divisione, neppure il capo-sezione...
Dovette contentarsi di parlare col cavalier Martino Lori, segretario di prima classe, che reggeva in quel momento lui solo l'intera divisione.
Il Lori, scrupolosissimo impiegato, era molto ben visto dai superiori e dai subalterni per la squisita cordialità dei modi, per l'indole mite, che gli traspariva dallo sguardo, dal sorriso, dai gesti, e per la correttezza anche esteriore della persona linda, curata con diligenza amorosa.
Egli accolse l'onorevole Verona con molti ossequii e rosso in volto per la gioja, non solo perché prevedeva che questo deputato, senza dubbio, un giorno o l'altro sarebbe stato suo capo supremo, ma perché veramente da anni era ammiratore fervido dei discorsi di lui alla Camera.
Volgendosi poi a guardare la signorina e sapendo ch'era figlia del compianto e illustre professore dell'Ateneo perugino, il cavalier Lori provò un'altra gioja, non meno viva.
Egli aveva poco piú di trent'anni, e la signorina Silvia Ascensi aveva un curioso modo di parlare: pareva che con gli occhi - d'uno strano color verde, quasi fosforescenti - spingesse le parole a entrar bene nell'anima di chi l'ascoltava; e s'accendeva tutta.
Rivelava, parlando, un ingegno lucido e preciso, un'anima imperiosa; ma quella lucidità man mano era turbata e quella imperiosità vinta e sopraffatta da una grazia irresistibile che le affiorava in volto, vampando.
Ella notava con dispetto che, a poco a poco, le sue parole, il suo ragionamento, non avevano piú efficacia, poiché chi stava ad ascoltarla era tratto piuttosto ad ammirare quella grazia e a bearsene.
Allora, nel volto infocato, un po' per la stizza, un po' per l'ebbrezza, che istintivamente e suo malgrado le cagionava il trionfo della sua femminilità, ella si confondeva; il sorriso di chi la ammirava, si rifletteva, senza che lei lo volesse, anche su le sue labbra; scoteva con una rabbietta il capo, si stringeva nelle spalle e troncava il discorso, dichiarando di non saper parlare, di non sapersi esprimere.
- Ma no! Perché? Mi pare anzi che si esprima benissimo! - s'affrettò a dirle il cavalier Martino Lori.
E promise all'onorevole Verona che avrebbe fatto di tutto per contentar la signorina e procurarsi il piacere di rendere un servizio a lui.
Due giorni dopo, Silvia Ascensi ritornò sola al Ministero.
S'era accorta subito che per il cavalier Lori non aveva proprio bisogno di alcun'altra raccomandazione.
E con la piú ingenua semplicità del mondo andò a dirgli che non poteva piú assolutamente lasciare Roma: aveva tanto girato in quei tre giorni, senza mai stancarsi, e tanto ammirato le ville solitarie vegliate dai cipressi, la soavità silenziosa degli orti dell'Aventino e del Celio, la solennità tragica delle rovine e di certe vie antiche, come l'Appia, e la chiara freschezza del Tevere...
S'era innamorata di Roma, insomma, e voleva esservi trasferita, senz'altro.
Impossibile? Perché impossibile? Sarebbe stato difficile, via! Impossibile, no.
Dif-fi-ci-lis-si-mo, là! Ma volendo, via...
Anche comandata in qualche classe aggiunta...
Sí, sí.
Doveva farle questo piacere! Sarebbe venuta tante, tante, tante volte a seccarlo, altrimenti.
Non lo avrebbe lasciato piú in pace! Un comando era facile, no? Dunque...
Dunque, la conclusione fu un'altra.
Dopo sei o sette di quelle visite, un dopopranzo, il cavalier Martino Lori si assentò dall'ufficio, s'abbigliò come per le grandi occasioni e andò a Montecitorio a domandare dell'onorevole Verona.
Si guardava i guanti, si guardava le scarpine, si tirava fuori i polsini con le punte delle dita, molto irrequieto, aspettando l'usciere che doveva introdurlo.
Appena introdotto, per nascondere l'imbarazzo, prese a dir calorosamente all'onorevole Verona che la sua protetta chiedeva proprio l'impossibile, ecco!
- La mia protetta? - lo interruppe l'onorevole Verona.
- Quale protetta?
Il Lori, riconoscendo addoloratissimo d'aver usato, senz'ombra di malizia però, una parola che poteva prestarsi veramente a una...
sí, a una malevola interpretazione, s'affrettò a dire che intendeva parlare della signorina Ascensi.
- Ah, la signorina Ascensi? Ma allora sí, protetta! - gli rispose l'onorevole Verona, sorridendo e accrescendo l'imbarazzo del povero cavalier Martino Lori.
- Non ricordavo piú d'avergliela raccomandata e non ho indovinato in prima di chi intendesse parlarmi.
Io venero la memoria dell'illustre professore, padre della signorina e mio maestro, e vorrei che anche lei, cavaliere, ne proteggesse la figliuola - proteggesse, proprio - e me la contentasse a ogni modo, perché lo merita.
Ma se era venuto appunto per questo, il cavalier Martino Lori! Trasferirla a Roma, però, non poteva in nessun modo.
Se era lecito, ecco, desiderava di conoscere la vera ragione per cui...
per cui la signorina voleva andar via da Perugia.
Mah! Non bella, pur troppo, questa ragione.
Il professor Ascensi era stato tradito e abbandonato dalla moglie, tristissima donna, molto danarosa, la quale s'era messa a convivere con un altr'uomo degno di lei, da cui aveva avuto due o tre figli.
L'Ascensi s'era tenuta con sé, naturalmente, l'unica figliuola, restituendo a colei tutto il suo avere.
Grand'uomo, ma sprovvisto del tutto di senso pratico, il professor Ascensi aveva avuto un'esistenza tribolatissima, tra angustie e amarezze d'ogni genere.
Comperava libri e libri e libri, strumenti per il suo gabinetto, e poi non sapeva spiegarsi come mai il suo stipendio non bastasse a sopperire ai bisogni d'una famiglia ormai cosí ristretta.
Per non affliggere il babbo con privazioni, la signorina Ascensi s'era veduta costretta a darsi anche lei all'insegnamento.
Oh, la vita di quella ragazza, fino alla morte del padre, era stata un continuo esercizio di pazienza e di virtú.
Ma ella era orgogliosa, e giustamente, della fama del padre, che a fronte alta poteva contrapporre alla vergogna materna.
Ora però, morto sciaguratamente il padre e rimasta senza presidio, quasi povera e sola, non sapeva piú adattarsi a vivere a Perugia, dove stava anche la madre ricca e svergognata.
Ecco tutto.
Martino Lori, commosso a questo racconto (commosso veramente anche prima d'ascoltarlo dalla bocca autorevole d'un deputato di grande avvenire), nel licenziarsi gli lasciò intravedere il proposito di ricompensare del suo meglio quella fanciulla, tanto del sacrifizio e delle amarezze, quanto della meravigliosa devozione filiale.
E cosí la signorina Silvia Ascensi, venuta a Roma per ottenere un trasferimento, vi trovò - invece - marito.
II
Il matrimonio, però, almeno nei primi tre anni, fu disgraziatissimo.
Tempestoso.
Nel fuoco dei primi giorni Martino Lori buttò, per cosí dire, tutto se stesso; la moglie vi lasciò cadere, invece, pochino pochino di sé.
Attutita la fiamma che fonde anime e corpi, la donna ch'egli credeva divenuta ormai tutta sua, come egli era divenuto tutto di lei, gli balzò innanzi molto diversa da quella che s'era immaginata.
S'accorse, insomma, il Lori che ella non lo amava, che s'era lasciata sposare come in un sogno strano, da cui ora si destava aspra, cupa, irrequieta.
Che aveva sognato?
Di ben altro il Lori s'accorse col tempo: che ella, cioè, non solo non lo amava, ma non poteva neanche amarlo, perché le loro nature erano proprio opposte.
Non era possibile tra loro nemmeno il compatimento reciproco.
Che se egli, amandola, era disposto a rispettare il carattere vivacissimo, lo spirito indipendente di lei, ella, che non lo amava, non sapeva aver neppure sofferenza dell'indole e delle opinioni di lui.
- Che opinioni! - gli gridava, scrollandosi sdegnosamente.
- Tu non puoi avere opinioni, caro mio! Sei senza nervi...
Che c'entravano i nervi con le opinioni? Il povero Lori restava a bocca aperta.
Ella lo stimava duro e freddo perché taceva, è vero? Ma egli taceva per cansar liti! taceva perché s'era chiuso nel co
...
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