LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 27
...
.
Ottenuta dal questore la promessa che la traduzione in carcere non sarebbe avvenuta se non dopo il consenso del medico, egli e il dottor Vocalòpulo si recarono insieme alla casa del Corsi.
In pochi giorni Adriana si era cangiata cosí, che non pareva piú lei.
- Eccole, signora, il nostro caro avvocato, - le disse il Vocalòpulo.
- Sarà meglio preparare a poco a poco il convalescente alla dura necessità...
- E come, dottore? - esclamò Adriana.
- Pare che egli non ne abbia ancora il piú lontano sospetto.
È come un fanciullo...
si commuove per ogni nonnulla...
Giusto questa mattina mi diceva che, appena in grado di muoversi, vuole andare in campagna, in villeggiatura per un mese...
Il Vocalòpulo sospirò, stirandosi al solito il naso.
Stette un po' a pensare, poi disse:
- Aspettiamo qualche altro giorno.
Intanto facciamogli vedere l'avvocato.
Non è possibile che il pensiero della punizione non gli si affacci.
- E lei crede, avvocato, - domandò Adriana, - crede che sarà grave?
Il Cimetta chiuse gli occhi, aprí le braccia.
Gli occhi di Adriana si riempirono di lagrime.
Giunse, in quella, dall'altra stanza la voce dell'infermo.
Subito Adriana accorse.
- Mi permettano!
Tommaso le tendeva le braccia dal letto.
Ma appena le vide gli occhi rossi di pianto, le prese un braccio e, nascondendovi il volto, le disse:
- Ancora, dunque? non mi perdoni ancora?
Adriana strinse le labbra tremanti, mentre nuove lagrime le sgorgavano dagli occhi; e non trovò in prima la voce per rispondergli.
- No? - insistette egli, senza scoprire il volto.
- Io sí, - rispose Adriana, angosciata, timidamente.
- E allora? - ripigliò il Corsi, guardandola negli occhi lagrimosi.
Le prese il volto tra le mani, e aggiunse:
- Lo comprendi, lo senti, è vero? che tu mai, mai, nel mio cuore, nel mio pensiero, non sei venuta mai meno, tu santa mia, amore, amore mio...
Adriana gli carezzò lievemente i capelli.
- È stata un'infamia! - riprese egli.
- Sí, è bene, è bene che te lo dica, per togliere ogni nube fra noi.
Un'infamia sorprendermi in quel momento vergognoso, di stupido ozio...
Tu lo comprendi, se mi hai perdonato! Stupido fallo, che quel disgraziato ha voluto rendere enorme, tentando d'uccidermi, capisci? due volte...
Uccider me, proprio me, che dovevo per forza difendermi...
perché...
tu lo comprendi! non potevo lasciarmi uccidere per quella lí, è vero?
- Sí, sí, - diceva Adriana, piangendo, per calmarlo, piú col cenno che con la voce.
- È vero? - seguitò egli con forza.
- Non potevo...
per voi! Glielo dissi; ma egli era come impazzito, tutt'a un tratto; m'era venuto sopra, con l'arma in pugno...
E allora io, per forza...
- Sí, sí, - ripeté Adriana, ringojando le lagrime.
- Calmati, sí...
Queste cose...
S'interruppe, vedendo il marito abbandonarsi sfinito sui guanciali, e chiamò forte:
- Dottore! Queste cose, - seguitò alzandosi e chinandosi sul letto, premurosa, - tu le dirai...
le dirai ai giudici, e vedrai che...
Tommaso Corsi si rizzò improvvisamente su un gomito e guardò fiso il dottore e il Cimetta che gli si facevano incontro.
- Ma io, - disse, - eh già...
il processo...
Allividí.
Ricadde sul letto, annichilito.
- Formalità...
- si lasciò cadere dalle labbra il Vocalòpulo, accostandosi di piú al letto.
- E quale altra punizione, - fece il Corsi, quasi tra sé, guardando il soffitto con gli occhi sbarrati, - quale altra punizione maggiore di quella che mi son data io, con le mie mani?
Il Cimetta trasse una mano dalla tasca e agitò l'indice in segno negativo.
- Non conta? - domandò il Corsi.
- E allora?...
- si provò a replicare; ma si riprese: - Eh già! Sí, sí...
Ci credi? Mi pareva che tutto fosse finito...
Adriana! - chiamò, e le buttò di nuovo le braccia al collo.
- Adriana! Sono perduto!
Il Cimetta, commosso, tentennò a lungo il capo, poi sbuffò:
- E perché? per una minchioneria di passata.
Sarà difficile, difficilissimo, caro dottore, farne capace quella rispettabile istituzione che si chiama giuria.
Non tanto, vedete, per il fatto in sé, quanto perché si tratta d'un sostituto procuratore del re.
Se fosse almeno possibile dimostrare che delle corna precedenti il poveretto s'era già accorto! Ma i mezzi? Un morto non si può chiamare a giurare su la sua parola d'onore...
L'onore dei morti se lo mangiano i vermi.
Che valore può avere l'induzione contro la prova di fatto? Del resto, siamo giusti: su la propria testa ciascuno è padrone di accoglier quelle corna che gli garbano.
Le tue, caro Tommaso, è chiaro, non le volle.
Tu dici: "Ma potevo lasciarmi uccidere da lui?".
No.
Ma se volevi rispettato questo diritto di non aver tolta la vita, non dovevi andare a prendergli la moglie, quella bertuccia vestita! Cosí facendo, - bada, io vedo adesso le ragioni dell'accusa, - tu stesso hai derogato al tuo diritto, ti sei esposto al rischio, e non dovevi perciò reagire.
Capisci? Due falli.
Del primo, dell'adulterio, dovevi lasciarti punire da lui, dal marito offeso; e tu invece l'hai ucciso...
- Per forza! - gridò il Corsi, levando il volto rabbiosamente contratto.
- Istintivamente! Per non farmi uccidere!
- Ma subito dopo, invece, - rimbeccò il Cimetta - hai tentato di ucciderti con le tue mani.
- E non deve bastare?
Il Cimetta sorrise.
- Non può bastare.
È anzi a tuo danno, caro mio! Perché, tentando d'ucciderti, hai implicitamente riconosciuto il tuo fallo.
- Sí! E mi sono punito!
- No, caro, - disse con calma il Cimetta.
- Hai tentato di sottrarti alla pena.
- Ma togliendomi la vita! - esclamò, infiammato, il Corsi.
- Che potevo fare di piú?
Il Cimetta si strinse nelle spalle, e disse:
- Avresti dovuto morire.
Non essendo morto...
- Ma sarei morto, - riprese il Corsi, allontanando la moglie e additando fieramente il dottor Vocalòpulo, - sarei morto, se lui non avesse fatto di tutto per salvarmi!
- Come...
io? - balbettò il Vocalòpulo, tirato in ballo quando meno se l'aspettava.
- Voi! Sí.
Per forza! Io non volevo le vostre cure.
Per forza avete voluto prodigarmele, ridarmi la vita.
E perché, dunque, se ora...
- Con calma, con calma...
- disse il Vocalòpulo, sorridendo nervosamente a fior di labbra, costernato.
- Vi fate male, agitandovi cosí...
- Grazie, dottore! Quanta premura...
- sghignò il Corsi.
- Vi sta tanto a cuore l'avermi salvato? Ma senti, Cimetta, senti! Io voglio ragionare.
M'ero ucciso.
Viene un dottore, codesto nostro dottore.
Mi salva.
Con qual diritto mi salva? con qual diritto mi ridà la vita ch'io m'ero tolta, se non poteva farmi rivivere per le mie creaturine, se sapeva ciò che m'aspettava?
Il Vocalòpulo tornò a sorridere nervosamente, intorbidandosi in volto.
- Dopo tutto, - disse, - è un bel modo di ringraziarmi, codesto.
Che dovevo fare?
- Ma lasciarmi morire! - proruppe il Corsi, - se non avevate il diritto di sottrarmi alla pena ch'io m'ero data, molto maggiore del mio fallo! Non c'è piú pena di morte; e io sarei morto, senza di voi.
Ora come faccio io? Di che debbo ringraziarvi?
- Ma noi medici, scusate, - rispose, smarrito, il Vocalòpulo, - noi medici non abbiamo di questi diritti: noi medici abbiamo il dovere della nostra professione.
E me n'appello all'avvocato qua presente.
- E in che differisce, allora, - domandò con amaro scherno il Corsi, - codesto vostro dovere da quello d'un aguzzino?
- Oh insomma! - esclamò, scrollandosi tutto, il Vocalòpulo, - vorreste che un medico passasse sopra la legge?
- Ah, bene! Voi dunque la legge avete servito, - riprese il Corsi, con foga rabbiosa.
- La legge; non me, poveretto...
Mi ero tolta la vita; voi me l'avete ridata a forza.
Tre, quattro volte tentai di strapparmi le fasce.
Voi avete fatto di tutto per salvarmi, per ridarmi la vita.
E perché? Perché la legge, ora, di nuovo me la ritolga, e in un modo piú crudele.
Ecco: a questo, dottore, vi ha condotto il dovere della vostra professione.
E non è un'ingiustizia?
- Ma, scusa, - si provò a interloquire il Cimetta, - del male che hai fatto...
- Mi sono lavato, col mio sangue! - compí subito la frase il Corsi, tutto acceso e vibrante.
- Io sono un altro, ora! Io sono rinato! Come posso restar sospeso a un solo momento di quell'altra mia vita che non esiste piú per me? sospeso, agganciato a quel momento, come se esso rappresentasse tutta la mia esistenza, come se io non fossi mai vissuto per altro? E la mia famiglia? mia moglie? i miei figli, a cui devo dare il pane, la riuscita? Ma come! come! Che volete di piú? Non avete voluto che morissi...
E allora perché? Per vendetta? Contro uno che s'era ucciso...
- Ma che pure ha ucciso! - ribatté forte il Cimetta.
- Trascinato! - rispose, pronto, il Corsi.
- E il rimorso di quel momento io me lo son tolto; in un'ora, io scontai il mio fallo; in un'ora che poteva esser lunga quanto l'eternità.
Ora non ho piú nulla da scontare, io! Questa è un'altra vita per me, che m'è stata ridata.
Debbo rimettermi a vivere per la mia famiglia, debbo rimettermi a lavorare per i miei figliuoli.
M'avete ridato la vita per mandarmi in galera? E non è un atroce delitto, questo? E che giustizia può esser quella che punisce a freddo un uomo ormai privo di rimorsi? come starò io in un reclusorio a scontare un delitto che non ho pensato di commettere, che non avrei mai commesso, se non vi fossi stato trascinato; mentre, meditatamente, ora, a freddo, coloro che approfitteranno della vostra scienza, dottore, la quale mi ha tenuto per forza in vita solo per farmi condannare, commetteranno il delitto piú atroce, quello di farmi abbrutire in un ozio infame, e di fare abbrutire nei vizii della miseria e nell'ignominia i miei figliuoli innocenti? Con quale diritto?
Si rizzò sul busto, sospinto da una rabbia che il sentimento della propria impotenza rendeva feroce: cacciò un urlo e s'afferrò con le dita artigliate la fascia e se la stracciò; poi si riversò bocconi sul letto, convulso; tentò di scoppiare in singhiozzi, ma non poté.
Nella vanità di quello sforzo tremendo, rimase un tratto stordito, come in un vuoto strano, in un attonimento spaventevole.
Diventò cadaverico nel volto segnato dallo strappo recente delle dita.
Adriana spaventata, accorse; gli sollevò prima il capo, poi, ajutata dal Cimetta; si provò a rialzarlo, ma ritrasse subito le mani con un grido di ribrezzo e di terrore: la camicia, sul petto, era zuppa di sangue.
- Dottore! Dottore!
- Gli s'è riaperta la ferita! - esclamò il Cimetta.
Il dottor Vocalòpulo sbarrò gli occhi, impallidí, allibito.
- La ferita?
E, istintivamente, s'appressò al letto.
Ma il Corsi lo arrestò d'un subito, con gli occhi invetrati.
- Ha ragione, - disse allora il dottore, lasciandosi cader le braccia.
- Hanno sentito? Io non posso, non debbo...
PARI
Bartolo Barbi e Guido Pagliocco, entrati insieme per concorso al Ministero dei Lavori Pubblici da vice-segretarii, promossi poi a un tempo segretarii di terza e poi di seconda e poi di prima classe, erano divenuti, dopo tanti anni di vita comune, indivisibili amici.
Abitavano insieme, in due camere ammobiliate al Babuino.
Per grazia particolare della vecchia padrona di casa, che si lodava tanto di loro, avevano anche il salottino a disposizione, ove solevano passar le sere, quando - sempre d'accordo - stabilivano di non andare a teatro o a qualche caffè-concerto.
Giocavano a dadi o a scacchi o a dama, intramezzando alle partite pacate e sennate conversazioncine o sui superiori o sui compagni d'ufficio o su le questioni politiche del momento o anche su le arti belle, di cui si reputavano con una certa soddisfazione estimatori non volgari.
Ogni giorno, difatti, passando e ripassando per via del Babuino, si indugiavano in lunghe contemplazioni o in accigliate meditazioni innanzi alle vetrine degli antiquarii e dei negozianti d'arte moderna; e Bartolo Barbi, ch'era molto perito in tutto ciò che si riferiva alle gerarchie, sia quella ecclesiastica, sia quella militare, sia quella burocratica, e agli usi e ai costumi, si scialava a dar di bestia a certi pittori che, nei soliti quadretti di genere, osavano raffigurar cardinali con paramenti addirittura spropositati.
Era molto caro ai due amici quel salottino raccolto, dai mobili d'antica foggia, consunti a furia di tenerli puliti.
Il vecchio finto tappeto persiano era qua e là ragnato; le tende turche, all'uscio e alla finestra, erano un po' scolorite come la carta da parato, come i fiori di pezza su la mensola e l'ombrellino giapponese, aperto e sospeso a un angolo.
Qualche piccolo intaglio s'era scollato dai tanti porta-ritratti e porta-carte appesi alle pareti, eseguiti in casa, a traforo, dai due amici nei primi anni della loro convivenza.
Fin su l'orlo di quell'ombrellino giapponese, intanto, all'insaputa dei due amici, veniva a quando a quando, zitto zitto, un grosso ragno nero; stava lí un pezzo come a spiare misteriosamente ciò che essi facevano, ciò che essi dicevano; poi si ritraeva.
Dentro l'ombrellino giapponese era tessuta tutt'intorno al fusto un'ampia tela finissima e polverosa.
Forse quel ragno misterioso ne aveva tratto la materia, a filo a filo, dalla vita de' due amici, dai loro giorni sempre uguali, dai loro savii discorsi, tradotti pazientemente in quella sua sottilissima bava seguace.
Né essi né la vecchia padrona di casa ne avevano il piú lontano sospetto.
Di tanto in tanto Barbi e Pagliocco pensavano con rammarico che fra qualche anno sarebbero stati costretti a lasciar quella casa, quel caro salottino.
Aspettavano dal paese i loro due fratelli minori, che dovevano intraprendere a Roma sotto la loro vigilanza gli studii universitarii; e in quella casa non ci sarebbe stato posto per tutti e quattro.
Avrebbero affittato allora un quartierino; lo avrebbero ammobiliato modestamente per conto loro e avrebbero preso una vecchia serva per la pulizia e la cucina.
Vecchia la serva, perché i due giovanottini di primo pelo...
eh, non si sa mai! prudenza ci voleva! Per loro due non ci sarebbe stato piú pericolo.
Ogni mattina erano in piedi, puntuali, alla stess'ora; uscivano insieme a prendere il caffè; entravano insieme al Ministero, dove lavoravano nella stessa stanza l'uno di fronte all'altro; a mezzogiorno andavano a desinare alla stessa trattoria; e insomma, come appajati sotto il medesimo giogo, conducevano una vita affatto uguale, dignitosa, metodica per forza, ma non priva di qualche onesto svago, segnatamente le domeniche.
Quantunque si servissero dallo stesso sarto, pagato puntualmente a tanto al mese, non vestivano allo stesso modo.
Spesso Bartolo Barbi sceglieva la stoffa per l'abito di Guido Pagliocco e viceversa; giudiziosamente; perché sapevano bene quale sarebbe stata piú adatta all'uno, quale all'altro.
Non erano già come due gocce d'acqua in tutto.
Bartolo Barbi era alto di statura e magro, di scarso pelo rossiccio, pallido in volto e lentigginoso, lungo di braccia, un po' dinoccolato: presentava da lontano nella faccia quattro fori e una caverna: gli occhi tondi, le nari aperte e una bocca enorme, dalle labbra aride e screpolate.
Guido Pagliocco era invece robusto e sveglio, tozzo, bruno, bene azzampato, miope e ricciuto.
Si erano però medesimati nell'anima, vagheggiando uno stesso tipo ideale, che s'ingegnavano di raggiungere e d'incarnare in due, ponendovi ciascuno dal canto suo quel tanto che mancava all'altro.
E l'uno amava e ammirava le speciali facoltà e attitudini dell'altro, e lo lasciava fare, senza tentar mai d'invaderne il campo.
Subito, a ogni minima evenienza, si assegnavano le parti; riconoscevano a volo se dovesse parlare o agire l'uno o l'altro; e di ciò che l'uno diceva o faceva l'altro rimaneva sempre contento e soddisfatto, come se meglio non si fosse potuto né dire né fare.
Raggiunto il grado di segretarii di prima classe, proposti insieme per la croce di cavaliere, ottenuta questa onorificenza ben meritata, Barbi e Pagliocco furono invitati alle radunanze che il loro capo-divisione commendator Cargiuri-Crestari teneva ogni venerdí.
I due amici presero a frequentar quelle radunanze con la stessa puntualità scrupolosa con cui adempivano ai doveri d'ufficio.
Ma presto s'accorsero che la loro comunanza di vita fraterna correva un serio pericolo in casa del commendator Cargiuri-Crestari.
Il capo-divisione e la moglie, non avendo proprii figliuoli e figliuole da accasare, pareva si fossero preso il compito di sposar tutti i giovani e le giovani che si raccoglievano ogni venerdí nel loro salotto.
La signora, invitando le vecchie amiche, lasciava intendere con mezzi sorrisi e mezze frasi che le loro figliuole avrebbero trovato presto marito; e molte mamme sollecitavano di continuo, ansiosamente, l'onore di essere ammesse in casa di lei.
Ella però voleva essere lasciata libera nella scelta, voleva che si avesse piena fiducia in lei, nel suo tatto, nel suo intuito, nella sua esperienza.
Guaj se una fanciulla, non contenta del giovane ch'ella, nella sua saggezza, le aveva destinato, faceva invece l'occhiolino a qualche altro! Subito la signora Cargiuri-Crestari si dava attorno per dividere questi illeciti ravvicinamenti, di cui si aveva proprio per male, ecco, e lo lasciava intendere in tutti i modi.
Ma sí, per male, perché Dio solo sapeva quanto e quale studio le costassero quelle sue combinazioni ideali.
Prima di decidere, prima d'assegnare a quel tale giovine quella tal fanciulla, ella teneva l'uno e l'altra quattro o cinque mesi in esperimento; li interrogava su tutti i punti secondo un formulario prestabilito e segnava in un taccuino le risposte; e gusti, educazione, costumi, aspirazioni, tutto indagava, pesava tutto.
E se qualche coppia, messa sú da lei con tanto scrupolo, faceva alla fine una cattiva riuscita, non se ne sapeva proprio dar pace.
Possibile? Ma se dovevano andar cosí bene d'accordo quei due! Ci doveva esser sotto certamente qualche malinteso fra loro! Ed ecco la signora Cargiuri-Crestari affannata, in continue spedizioni alle case delle tante coppie messe sú da lei, per ristabilir l'accordo, che non poteva mancare, diamine! a chiarir quel malinteso che senza dubbio doveva esser sorto tra i due coniugi cosí bene appajati.
Le vittime designate a quelle combinazioni ideali erano naturalmente gl'impiegati subalterni del marito.
La promozione a segretario di prima classe, la croce di cavaliere, avevano per conseguenza inevitabile l'invito ai venerdí del commendatore e, in capo a un anno, il matrimonio.
Il garbo del capo-divisione e della moglie era tanto e tale, che riusciva quasi impossibile ribellarsi; si temeva poi il malumore, l'astio e, chi sa, fors'anche la vendetta del superiore.
Pei due amici Barbi e Pagliocco la signora Cargiuri-Crestari non ebbe bisogno né di studio né di esame.
Suo marito li teneva d'occhio, li covava da un pezzo; glien'aveva tanto parlato, come di due paranzelle che presto sarebbero entrate placidamente in porto!
Li aveva già belli e assegnati in precedenza la signora Cargiuri-Crestari e, come sempre, con intuito meraviglioso, a due fanciulle, amiche anch'esse tra loro, indivisibili: Gemma Gandini e Giulia Montà: quella bionda e questa bruna: la bionda a Pagliocco ch'era bruno, la bruna a Barbi che, se non era proprio biondo, ci pendeva.
Erano belline tutt'e due, e - già s'intende - buone come la stessa bontà.
Ah, niente lezii! niente bischenchi! il commendatore e la moglie non ammettevano in casa se non future mogli per bene, e dunque fanciulle sagge e modeste, econome e massaje.
I giovani potevano fidarsene a occhi chiusi.
Magari la signora Cargiuri-Crestari non badava tanto alle fattezze esteriori, perché - si sa - tutto non si può avere, e la bellezza non è dote che vada molto d'accordo con la modestia e con le altre virtú che a fare una perfetta moglie si ricercano.
Appena scoperta l'insidia, i due amici s'arrestarono alquanto sconcertati.
Avevano da un pezzo non solo chiuso la porta del cuore alla donna, ci avevano anche messo il catenaccio.
Non ne aspettavano piú, neanche in sogno.
Che se talvolta qualche desiderio monello saltava dentro all'improvviso per la finestra degli occhi, subito la ragione arcigna lo cacciava via a pedate.
Non perché avessero in odio il sesso femminile: discorrendo di donne e di pigliar moglie, riconoscevano anzi, in astratto, che lo stato coniugale (fondato - beninteso - nell'onestà e governato dalla pace e dall'amore) era preferibile alla vita da scapolo.
Ma purtroppo il matrimonio, nelle presenti tristissime condizioni sociali, doveva esser considerato come un lusso, che pochi solamente potevano concedersi, i quali poi non erano i piú adatti a pregiarne i vantaggi.
Nelle loro conversazioni serali, Barbi e Pagliocco avevano definito insieme il feminismo questione essenzialmente economica.
Ma sí, perché le donne, poverine, avevano compreso bene la ragione per cui diventava loro di giorno in giorno piú difficile trovar marito.
Il veder frustrata la loro naturale aspirazione, il dover soffocare il loro smanioso bisogno istintivo, le aveva esasperate e le faceva un po' farneticare.
Ma tutta quella loro rivolta ideale contro i cosí detti pregiudizii sociali, tutte quelle loro prediche fervorose per la cosí detta emancipazione della donna, che altro erano in fondo se non una sdegnosa mascheratura del bisogno fisiologico, che urlava sotto? Le donne desiderano gli uomini e non lo possono dire; poverine.
E volevano lavorare per trovar marito, ecco.
Era un rimedio, questo, suggerito dal loro naturale buon senso.
Ma, ahimè, il buon senso è nemico della poesia! E anche questo capivano le donne: capivano cioè che una donna, la quale lavori come un uomo, fra uomini, fuori di casa, non è piú considerata dalla maggioranza degli uomini come l'ideale delle mogli, e si ribellavano contro a questo modo di considerare, che frustrava il loro rimedio, e lo chiamavano pregiudizio.
Ecco il torto.
Pregiudizio il supporre che la donna, praticando di continuo con gli uomini, si sarebbe alla fine immascolinata troppo? Pregiudizio il prevedere che la casa, senza piú le cure assidue, intelligenti, amorose della donna, avrebbe perduto quella poesia intima e cara, che è la maggiore attrattiva del matrimonio per l'uomo? Pregiudizio il supporre che la donna, cooperando anch'essa col proprio guadagno al mantenimento della casa, non avrebbe piú avuto per l'uomo quella devozione e quel rispetto, di cui tanto esso si compiace? Ingiusto, questo rispetto? Ma perché allora, dal canto suo, voleva esser tanto rispettata la donna? Via! via! Se l'uomo e la donna non erano stati fatti da natura allo stesso modo, segno era che una cosa deve far l'uomo e un'altra la donna, e che pari dunque non possono essere.
Mai e poi mai Barbi e Pagliocco avrebbero sposato una donna emancipata, impiegata, padrona di sé.
Non perché volessero schiava la moglie, ma perché tenevano alla loro dignità maschile e non avrebbero saputo tollerare che questa, di fronte ai guadagni della moglie, restasse anche minimamente diminuita.
Metter sú casa, d'altra parte, con lo scarso stipendio di segretario, sarebbe stata una vera e propria pazzia, e dunque niente: non ci pensavano nemmeno.
Ben radicati in queste idee, i due amici deliberarono di resistere; ma, per timore d'offendere il loro capo, non osarono fuggire; seguitarono a frequentare i venerdí del commendator Cargiuri-Crestari.
In capo a tre mesi, il ragno nero che si faceva di tratto in tratto fin su l'orlo dell'ombrellino giapponese a spiare i due amici, intisichí, diventò come una spoglia secca, morí d'inedia, là su la vedetta.
I due amici non gli avevano dato piú materia per quella sua bava seguace; s'erano anch'essi immalinconiti profondamente; giocavano a dama svogliati; non conversavano piú tra loro.
Pareva che l'uno volesse fare avvertire all'altro il vuoto di quella loro esistenza, non mai prima avvertito.
Nessuno dei due però voleva muovere il discorso per il primo.
Una sera, finalmente, si mossero a parlare insieme, e ciascuno ripeté le parole che l'altro aveva su la punta della lingua da un pezzo, perché all'uno e all'altro eran venute da una medesima fonte: dal commendator Cargiuri-Crestari, il quale aveva stimato opportuno far loro in segreto una paternale, cosí senza parere, parlando in generale dei giovani d'oggi che ragionano troppo e sentono poco, che lasciano languire la fiamma della vita, perché han paura di scottarsi (parlava bene, poeticamente, alle volte, il commendatore), e che ci voleva un po' di coraggio, perdio: là, avanti, contro alle difficoltà dell'esistenza.
Le signorine Gandini e Montà avevano, per altro, una discreta doticina; erano poi tra loro da tanti anni amiche inseparabili, e non avrebbero perciò né sciolto, né allentato d'un punto il legame che teneva anch'essi uniti; e dunque...
E dunque, giudiziosamente, al solito, i due amici stabilirono di prendere a pigione due appartamenti contigui, per seguitare a vivere insieme, uniti e separati a un tempo.
Le nozze furono fissate per lo stesso giorno.
Ma una contrarietà piuttosto grave minacciò di rompere nel bel meglio la perfetta identità di sorte de' due amici.
La fidanzata di Guido Pagliocco, Gemma Gandini, non poteva recare in dote piú di dodici mila lire, mentre la Montà ne recava al Barbi venti.
Guido Pagliocco piantò i piedi, risolutamente.
Non tanto, veh, per il danno materiale che al suo contratto di nozze avrebbero arrecato quelle otto mila lire di meno, quanto per le conseguenze morali, che quella disparità avrebbe potuto cagionare, ponendo la propria sposa in una condizione alquanto inferiore a quella della Montà.
Pari in tutto, anche le doti dovevano esser pari.
La vedova Gandini, madre della sposa, riuscí per fortuna, con qualche sacrifizio, a metter la propria figliuola perfettamente in bilancia con la Montà; e cosí i due matrimonii furono celebrati nello stesso giorno, e le due coppie partirono per lo stesso viaggio di nozze a Napoli.
Nessuna ragione d'invidia fra le due spose.
Se Guido Pagliocco era di fattezze piú bello del Barbi, questi era però piú intelligente del Pagliocco.
Del resto, poi, eran cosí uniti idealmente quei due uomini, che quasi formavano un uomo solo, da amare insieme, senz'alcuna invidia né da una parte né dall'altra per quel tanto che a ciascuna necessariamente ne toccava, chiudendo a sera le porte de' due quartierini gemelli.
Ma che Giulia Montà, moglie di Bartolo Barbi, avesse segretamente, in fondo all'anima, una punta d'invidia non confessata neppure a se stessa, per quel tanto che del tipo ideale Barbi-Pagliocco toccava a Gemma Gandini, si vide chiaramente allorquando vennero a Roma i due fratelli degli sposi, Attilio Pagliocco e Federico Barbi, a intraprendere gli studii universitarii.
Le due amiche, che avrebbero provato orrore se anche fugacissimamente su lo specchio interiore della loro coscienza avesse fatto capolino, col viso spaventato del ladro, il desiderio d'un reciproco tradimento, sentirono subito e videro crescere in sé a un tratto e divampare una vivissima simpatia l'una per il cognato dell'altra, e non tardarono a dichiararsela apertamente, con gran sollievo dell'anima, come se ciascuna avesse acquistato di punto in bianco qualcosa che si sentiva mancare.
I due giovani, infatti, somigliavano moltissimo ai loro fratelli.
Attilio Pagliocco era forse un po' piú ottuso di mente del fratello maggiore e fors'anche men bello, ma piú tacchinotto e violento.
Federico Barbi era piú proporzionato e men dinoccolato di Bartolo, con gli occhi meno languidi e le labbra meno aride; era poi piú intelligente del fratello, faceva finanche poesie.
Giulia Barbi-Montà stimò come un pregio quel che di piú animalesco aveva il giovine Pagliocco a paragone del fratello, perché le parve come un compenso alla cresciuta intellettualità intorno a sé, nel suo quartierino, con l'arrivo del cognato poeta; e Gemma Pagliocco-Gandini pregiò maggiormente quel che di piú aereo, di piú poetico aveva il giovine Barbi a paragone del fratello, perché le parve come un compenso alla cresciuta bestialità intorno a sé, nel suo quartierino, con l'arrivo del giovine Attillo che le pareva un mulotto accappucciato.
Naturalmente, né Bartolo Barbi né Guido Pagliocco s'accorsero punto della simpatia delle loro mogli pei loro fratelli.
Se ne accorsero bene questi, però; e, se l'uno e l'altro da un canto ne furono lieti per sé, cominciarono dall'altro a guardarsi fra loro in cagnesco, volendo ciascuno custodir l'onore e la pace del proprio fratello.
E il giovine Federico Barbi, un giorno, andò a rinzelarsi acerbamente con Guido Pagliocco, perché...
- Zitto, per amor di Dio! - scongiurò questi, a mani giunte.
- Non dica nulla al povero Bartolo, per carità! Lasci fare a me...
E zitto, sí, si stette zitto il giovine Barbi, per prudenza; ma né lui seppe accontentarsi, né la moglie del Pagliocco volle che s'accontentasse senz'altro della fiera paternale, che Guido rivolse a quattr'occhi al fratello minore.
Venne allora la volta di questo.
Non volendo, per la pace del fratello, accusar la cognata, e d'altro canto, non potendo prendersi soddisfazione da sé, poiché si sentiva in colpa anche lui, andò a rinzelarsi non meno acerbamente con Bartolo Barbi.
E:
- Zitto, per amor di Dio! - scongiurò questi parimenti, a mani giunte.
- Non dica nulla al povero Guido, per carità! Lasci fare a me...
Pochi giorni dopo, i due amici si trovarono d'accordo - come sempre - nell'idea di allontanare da casa i fratelli, con la scusa che - giovanotti, si sa! - davano un po' d'impaccio e di soggezione, limitando la libertà delle rispettive mogli.
- È vero, Giulia? - domandò Barbi alla sua, in presenza di Pagliocco.
E Giulia, con gli occhi bassi, rispose di sí.
- È vero, Gemma? - domandò alla sua Pagliocco, in presenza di Barbi.
E Gemma, con gli occhi bassi, rispose di sí.
"Povero Pagliocco!" pensava intanto Barbi.
"Povero Barbi!" pensava Pagliocco.
L'USCITA DEL VEDOVO
I
Tante volte la signora Piovanelli, conversando dopo cena col marito, aveva fatto l'augurio che se, per disgrazia, uno dei due dovesse morire prima del tempo - ma fosse morto lui! Lui, lui, sí; anziché lei.
Per il bene dei figliuoli; non per sé, beninteso.
Con qual sorriso aveva accolto quest'augurio della moglie Teodoro Piovanelli, arrotondando su la tovaglia pallottoline di mollica!
Grosso e mite e di modi gentili, si sentiva ferire ogni volta fin nell'anima; sorrideva per dissimulare l'agro, e coi mansueti occhi pallidi e ovati che gli s'intenerivano afflitti nel biondo rossiccio delle ciglia e dei capelli, pareva chiedesse: Ma perché? Perché? Oh bella! Perché è sempre meglio per i figliuoli...
cioè, meglio no: meno peggio - sosteneva la moglie - che muoja il padre, anziché la madre.
- Ma non sarebbe meglio nessuno? - arrischiava allora con lo stesso sorrisetto lui, Piovanelli.
- Permetti? Io dico, va bene, la mamma è mamma.
Mamma ce n'è una sola.
E vale cento, che dico cento? mille volte piú del babbo per i figliuoli; va bene? Ma l'amore...
l'amore è una cosa, è il...
sí, dico...
il come si chiama, il mantenimento...
- Che c'entra il mantenimento? - scattava la moglie.
E lui, Piovanelli, subito:
- Permetti? Io dico...
dico in genere, intendiamoci! Non stiamo mica a parlar di noi, adesso, che grazie a Dio stiamo tanto bene! In genere.
Poni una famigliuola senza beni di fortuna, che viva unicamente di quel poco che guadagna il capo di casa.
Muore lui, il capo di casa, va bene? Come farà la vedova a mantenere i figliuoli?
- Oooh! - rifiatava la moglie, tirandosi indietro e protendendo le mani, come per dire che qui lo aspettava.
- Ti seguo nel tuo ragionamento.
Che potrebbe far di peggio questa vedova? Di' sú, lo lascio dire a te.
- Eh...
- faceva Piovanelli, e si stringeva nelle spalle per non dire, sicuro che anche dicendo come voleva la moglie, questa lo avrebbe sempre tirato a riconoscere che aveva torto lui.
- Riprender marito, è vero? - domandava infatti la moglie.
- Ebbene: per i figliuoli è centomila volte meno peggio che riprenda marito la madre, anziché moglie il padre, perché è sempre centomila volte meglio un padrigno che una madrigna.
E lo sanno tutti!
- Va bene, d'accordo...
ma permetti? - (e Piovanelli si storceva come un cagnolino che vuol farsi perdonare).
- Scusami, veh! Ma non ti pare che, dicendo cosí, tu venga a concludere che...
- lo noto per te, bada! perché so che tu la pensi diversamente...
- venga a concludere, dicevo, che l'uomo, in genere, è...
è meglio della donna?
- Io, cosí? - prorompeva la moglie, balzando in piedi.
- Chi te l'ha detto? Io vengo, anzi, a concludere, come ho sempre concluso, che l'uomo, o è mala carne...
- Sí, sí, scusami...
- O è un imbecille che si lascia menare per il naso dalle donne,
- In genere...
sí, sí, scusami...
- Senza genere, né numero, né caso.
Te lo provo! Una donna che ha figliuoli e che per necessità riprende marito, anche avendo altri figliuoli da questo secondo marito, non cessa mai d'amare i primi; non solo, ma riesce a farli amare anche dal padrigno.
Sfido! Li ha fatti lei, questi e quelli: suo sangue, sua carne! Un vedovo, invece, con figli, che riprenda moglie, anche se non abbia altri figliuoli dalla seconda moglie, non ama piú quelli come prima, perché la madrigna se n'adombra, la madrigna se ne ingelosisce; e se poi questa gliene dà altri, lo tira ad amare i proprii e a trascurare i poveri orfanelli; e lui, vigliacco, schifoso, mascalzone, farabutto, obbedisce!
- Non dici a me, spero...
- domandava, avvilito, Piovanelli con un fil di voce, vedendo la moglie cosí fuori di sé.
- Sai pur bene che io...
- Tu? - inveiva la moglie.
- Tu? Ma tu, il primo! Tu domani, se io morissi! Siete tutti gli stessi! Poveri figli miei! chi sa in quali mani cadrebbero! Con un tal uomo! Per questo, vedi, Dio mi deve conceder la grazia di non farmi morire prima di te! Io, scusami, sai! io, io, per il bene dei figliuoli, io prima con questi occhi devo vederti morto.
Io, io.
E piangerti anche! Oh, sta' pur sicuro che ti piango!
Teodoro Piovanelli si sentiva scoppiare il cuore.
- Ma sí...
vorrei anch'io...
me l'auguro anch'io...
E seguitando a sorridere a quel modo, si levava da tavola e si affacciava alla finestra; per un po' d'aria.
II
Nessuno meglio di lui poteva sapere quanto fosse ingiusta la moglie, dicendo cosí.
Riammogliarsi lui? Ma Dio lo doveva prima fulminare!
Non solo per il bene dei figliuoli non lo avrebbe mai fatto, ma neanche per sé.
E non già perché fosse scottato del matrimonio a causa della moglie che gli era toccata in sorte, ma anche per un tristo concetto che gli s'era profondamente radicato in corpo: di non aver fortuna, ecco; e che infelicissimo sarebbe stato sempre con qualunque donna, se tale era con questa che in fondo, via, non era cattiva: tutt'altro, anzi! saggia massaja, amante della casa e dei figliuoli...
forse un po' troppo franca nel parlare; sí, ma lieve difetto, in fin dei conti, che tante buone qualità avrebbero potuto compensare, se non fosse stato accompagnato da un brutto male, ah brutto...
brutto...
- la gelosia.
Santo Dio! Vera e propria mala sorte.
Gelosa di lui! Fedele come un cane, per natura, una donna sola anche da scapolo gli era sempre bastata.
Gli amici, in gioventú, lo burlavano per questo.
Ma che poteva farci? Non gli piaceva cambiare.
Forse...
sí, magari non sapeva.
Perché...
inutile negarlo; timido, con le donne; tanto timido da far compassione finanche a se stesso, certe volte, per le meschine figure che faceva.
E sua moglie, intanto, certe scene, certe scene che, se i suoi amici d'un tempo fossero stati dietro l'uscio a sentire, sarebbero crepati dalle risa.
Per cosí futili pretesti, poi...
Una volta, perché, distratto, s'era un po' arricciati i baffi, per via.
Un'altra volta perché, in sogno, aveva riso...
Una terza volta perché ella aveva letto nella cronaca d'un giornale che un marito aveva ingannato la moglie ed era stato scoperto...
Diventava un supplizio per lui, ogni sera, la lettura del giornale.
Sua moglie gli si metteva dietro le spalle e cercava, come un bracco, nella cronaca, i fatti scandalosi.
Appena ne trovava uno:
- Qua! Leggi qua! Hai letto? Lo vedi di che siete capaci?...
E giú una filza di male parole.
Gli altri facevano il male, e lui ne doveva pianger la pena, giacché, per la moglie, il tradimento di quei mariti era tal quale come se l'avesse commesso lui: gli toglieva la pace, l'amore di lei, tutte le gioje della famiglia, che aveva pur diritto di godere, lui, illibato com'era e con la coscienza tranquilla.
Odiava il genere umano quella donna - tanto i maschi quanto le femmine - per quella sua terribile malattia.
Il povero Piovanelli strabiliava, sentendola parlare delle donne, di che cosa erano capaci - secondo lei.
- Tu non lo sai, è vero? - gli gridava sdegnata, indispettita, nel vederlo cosí stupito.
- Qua, mordi il ditino, pezzo d'ipocrita.
Ma te lo dico io che posso parlar franca, perché nessuno può sospettare di me e non ho bisogno, io, di far l'ipocrita come tutte le altre per far piacere ai signori uomini.
Te lo dico io!
E quante gliene diceva! Si sentiva violentare, povero Piovanelli, nella sua timidità.
Ormai, lui che aveva avuto sempre il ritegno piú rispettoso per la donna, lui che non s'era mai permesso un atto un po' spinto, una parola arrischiata, lui che aveva creduto sempre difficilissima ogni conquista amorosa, si sentiva insidiato da tutte le parti, e andava per la strada a capo chino; e se qualche donna lo guardava, abbassava subito gli occhi; se qualche donna gli stringeva appena appena la mano, diventava di mille colori.
Tutte le donne della terra eran diventate per lui un incubo: tante nemiche della sua pace.
III
Con quest'animo può immaginarsi che cosa fu la morte per la signora Piovanelli, quando, colta all'improvviso da una fierissima polmonite, se la vide davanti inesorabile, a poco piú di trentasei anni.
Non potendo piú parlare, parlava con gli occhi, parlava con le mani.
Certi gesti! E gli occhi da bestia arrabbiata.
Il povero Piovanelli, quantunque straziato, ne ebbe paura: temette davvero che lo volesse strozzare, quando gli buttò le braccia al collo e glielo strinse, glielo strinse, per la Madonna santissima, con tutta la forza che le restava, quasi se lo volesse trascinare giú nella fossa, con sé.
Ma volentieri lui, sí, volentieri giú con lei.
- Sí, sí, te lo giuro, stai tranquilla! - le ripeteva in un torrente di lagrime, rispondendo al gesto di quelle mani e per placare la ferocia di quegli occhi.
Invano! La disperazione atroce in cui quella donna moriva per non volere, con ostinata ingiustizia, neppure in quel momento supremo fidarsi di lui, accordargli la stima che si meritava, riconoscere la verità del suo cordoglio, di quelle sue lagrime sincere, esasperò talmente Piovanelli, che a un certo punto si mise a urlare come un pazzo, si strappò i capelli, si percosse le guance, se le graffiò; poi, buttandosi ginocchioni innanzi al letto, con le braccia levate:
- Vuoi giurato, di', vuoi giurato che non avvicinerò mai piú una donna, finché campo, perché le odio tutte? Te lo giuro! Non vivrò che per i nostri piccini! O vuoi che mi uccida qua, davanti a te? Pronto! Ma pensa ai nostri piccini, e non ti dannare per me! Oh Dio, che cosa! ah, che cosa...
Dio! Dio!
Incanutí su le tempie in pochi giorni Teodoro Piovanelli, dopo il funerale.
Per nove interi anni non aveva vissuto che per quella donna, assorto continuamente nel pensiero di lei, unico e tormentoso: che non avesse mai cagione di lamentarsi, di diffidar minimamente di lui; in assidua, scrupolosa, timorosa vigilanza di sé.
Quasi con gli occhi chiusi, con le orecchie turate aveva vissuto nove anni; quasi fuori del mondo, come se il mondo non fosse piú esistito.
Si sentí a un tratto come balzato nel vuoto; annichilito.
Il mondo seguitava a vivere intorno a lui; col tramenío incessante, con le mille cure, le brighe giornaliere, svariate: lui n'era rimasto fuori, là serrato in quel cerchio di diffidente clausura, in quella casa vuota, ma pur tutta piena, come l'anima sua, degl'irti sospetti della moglie.
Da questi sospetti, dallo spirito ostile e alacre, dall'energia spesso aggressiva della moglie, egli - vivendo di lei e per lei unicamente - s'era sentito sostenere.
Ora gli pareva d'esser rimasto come un sacco vuoto.
A chi affidarsi? a chi affidare la casa? a chi affidare i figliuoli?
Tutto il suo mondo era lí, in quella casa.
Ma che cos'era piú, ormai, quella casa senza colei che la animava tutta? Egli non vi si sapeva piú neanche rigirare.
Come curare i piccini? come attendere ad essi? Non sapeva da che parte rifarsi.
Tra pochi giorni gli sarebbe toccato ritornare all'ufficio; e quei piccini?
Nessuna serva era mai durata in casa piú di sei mesi.
Quest'ultima c'era da pochi giorni; si era mostrata premurosa nella sventura; pareva una buona vecchina; ma poteva fidarsene?
No.
La moglie, dentro, gli diceva no.
Non per quella serva soltanto; per tutte le serve del mondo.
No.
Se non che, per vivere com'ella voleva, com'egli le aveva giurato, avrebbe dovuto lasciar l'ufficio e tapparsi in casa dalla mattina alla sera.
Era possibile? Doveva lavorare.
Non poteva far le parti anche della moglie, che in fondo faceva tutto in casa.
La sventura non lo aveva colpito per nulla.
Bisognava pure che quella serva facesse qualche cosa invece della moglie.
Ai figliuoli, no, ai figliuoli voleva badar lui: lui vestirli la mattina; preparar loro la colazione; poi condurre a scuola il maggiore; lui servirli a tavola, e poi la sera a cena, e far loro recitare le orazioni e svestirli per metterli a letto, nella loro cameretta vigilata da un ritratto fotografico ingrandito della mamma che non c'era piú.
Quanti baci dava loro tra le lagrime!
Che orrore, poi, quella casa muta, quando i piccini erano a letto!
Tornava a sedere innanzi alla tavola non ancora sparecchiata e si metteva ad arrotondare al solito pallottoline di mollica, rimeditando, angosciato, la sua orrenda sciagura.
Un cupo rammarico lo coceva per la crudele ingiustizia della sua sorte.
Aveva sofferto prima, immeritatamente; soffriva tanto adesso! E nessuno lo poteva consolare.
La moglie non aveva saputo né voluto leggergli dentro, nell'anima; e lo aveva torturato senza ragione; ora ella non poteva vedere com'egli vivesse senza di lei in quella casa, come avesse mantenuto il giuramento fatto; e forse, se di là poteva pensare, immaginava ancora, testarda e cieca, che egli ora godesse, libero...
Che irrisione!
Vedendolo cosí vinto e sprofondato nel cordoglio, la vecchia serva, una di quelle sere, si fece animo e gli suggerí d'andare un po' fuori a fare una giratina per sollievo.
Si voltò a guardarla, torvo; alzò le spalle; non volle neanche risponderle.
- Prenderà un po' d'aria...
- insistette quella, timidamente.
- Starò attenta io ai bambini, non dubiti...
Del resto, non si svegliano mai...
Lei dovrebbe farlo anche per loro, mi perdoni.
Cosí si ammalerà.
Teodoro Piovanelli scosse il capo lentamente, con le ciglia aggrottate e gli occhi chiusi.
Sotto la borsa delle palpebre gonfie gli fervevano le lagrime.
Si levò da tavola, s'appressò alla finestra e si mise a guardar fuori dietro ai vetri.
Eh già...
Egli poteva uscire, ormai, volendo.
Nessuno piú gliel'impediva.
Ma dove andare? e perché? Che funebre squallore nel bujo delle vie deserte, vegliate dai radi lampioni! Rivide col pensiero, come in sogno, altre vie meglio illuminate; immaginò la gente che vi passava, assorta nelle proprie cure, con affetti vivi in cuore, con desiderii vivi nell'anima, o guidata da una abitudine ch'egli non aveva piú; immaginò i caffè luccicanti di specchi...
D'un subito si voltò a guardar la camera, come a un richiamo imperioso, minaccioso dello spettro della moglie.
Cominciava già a venir meno al giuramento? No, no! E si recò nella camera dei bambini; si chinò sui lettucci per contemplarli nel dolce sonno; rattenne la mano tratta irresistibilmente a carezzar le loro testoline: poi si volse, soffocato dall'angoscia, a guardare il ritratto della moglie.
Oh con quale ardore la desiderò in quel momento! Sí, sí, nonostante tutto il martirio che ella gli aveva inflitto per nove anni.
Sí, egli la voleva, la voleva! aveva bisogno di lei! Senza di lei non poteva piú vivere.
Oh, anche a costo di soffrire da lei le pene piú ingiuste e piú crudeli...
Non poteva rassegnarsi a vedere cosí spezzata per sempre la sua esistenza!
Aveva appena quarant'anni!
IV
Man mano che i giorni passavano, e i mesi ormai (eran già quattro mesi!), quel posto vuoto, lí, nel letto matrimoniale, gli suscitava ogni notte, nel cocente ricordo, smanie vieppiú disperate.
Col volto nascosto, affondato nel guanciale che si bagnava di lagrime, bisbigliava nell'ambascia della passione il nome di lei:
- Cesira...
Cesira...
E il cuore gli si schiantava.
- Sempre cosí...
sempre cosí - mormorava poi, piú calmo, con gli occhi sbarrati nel bujo.
Ah come s'era ingannata la moglie sul conto di lui! Ecco: questo pensiero lo struggeva piú d'ogni altro, e di continuo vi ritornava sú.
Se n'era fatto una lima.
Che il mondo fosse tristo, tristi gli uomini, triste le donne, cosí come la moglie aveva creduto, egli poteva ammettere; ammetteva.
Ma lui? tristo anche lui?
Certo, chi sa quanti uomini, rimasti vedovi all'età sua, dopo tre o quattro mesi, cedendo al bisogno stesso della natura...
pur non volendo, pur serbando in cuore viva sempre l'immagine della moglie morta e la pena d'averla perduta, cominciavano a uscire di sera e...
sí, a uscire per lo meno.
Aveva ragione la moglie: "Facilissime, le donne! Se ne incontrano tante per via...".
Ma a quarant'anni...
eh, a quarant'anni, senza piú l'abitudine, non doveva esser mica piacevole rimettersi a far la vita del giovanottino scapolo.
Chi sa quale avvilimento di vergogna!
D'altra parte, però a mettersi con altre donne...
Prima di tutto, perdita di tempo; poi, chi sa quanti impicci e anche...
anche una certa difficoltà...
Per esempio, quella guantaja dalla quale egli andava prima a comperare i guanti per la sua Cesira, 6 e 1/4 (vi era andato dopo la disgrazia a comperarne un pajo anche per sé, neri, per il funerale) - quella guantaja, ecco...
una signora, una vera signora! Come si moveva nella bella bottega lucida, tepida e profumata! Il corpo leggermente proteso...
E mica si sentiva il rumore dei passi; si sentiva il fruscío discreto della sottana di seta...
Nessun imbarazzo, come nessuna sfrontatezza.
Voce dolce, modulata; meravigliosa prontezza a comprendere...
E non già soltanto per attirar la gente.
Era cosí.
O almeno, pareva cosí; naturalmente.
Che nettezza e che precisione! Ebbene, a mettersi con quella...
Dio liberi! E le conseguenze? I proprii piccini...
Ah!
A questo pensiero, retrocedeva d'improvviso, quasi inorridito d'essersi indugiato a fantasticare su tale argomento.
Ma, via! troppo bene sapeva che tali cose non potevano e non dovevano piú sussistere per lui.
Si forzava a dormire.
Ma pur con gli occhi chiusi, poco dopo, ecco qualche altra visione tentatrice...
Fingeva di non avvertirla, come se gli fosse apparsa non provocata da lui.
La lasciava fare...
A poco a poco s'addormentava.
Ma la sera dopo, il supplizio ricominciava.
E la vecchia serva a insistere, a insistere, che via! uscisse di casa per una mezz'oretta sola, almeno, a prendere un po' d'aria...
Batti e batti, alla fine Teodoro Piovanelli si lasciò indurre.
Ma quanto tempo mise a vestirsi! e volle prima recarsi a vedere i bambini che dormivano, e rassettò ben bene le coperte sui loro lettini, e poi quante raccomandazioni alla serva, che stesse bene attenta, per carità! Tuttavia, non ardí alzare gli occhi al ritratto della moglie.
E uscí.
V
Appena su la via, si vide come sperduto.
Da anni e anni non andava piú fuori, la sera.
Il buio, il silenzio gli fecero un'impressione quasi lugubre...
e quel riverbero là, vacillante, del gas sul lastricato...
e piú là, in fondo, nella piazza deserta, quelle lanterne vaghe delle vetture...
Dove si sarebbe diretto?
Scese verso Piazza delle Terme, tutta sonora dell'acqua luminosa della fontana delle Najadi.
Ricordò che la moglie non voleva ch'egli si fermasse a guardar quelle Najadi sguajate.
E non si fermò.
Povera Cesira! Com'era sdegnata che il corpo della donna fosse esposto in atteggiamenti cosí procaci agli sguardi maligni e indiscreti degli uomini! Ci vedeva come un'irrisione, una mancanza di rispetto per il suo sesso, e voleva sapere perché nelle fontane i signori scultori non esponevano invece uomini nudi.
Ma in Piazza Navona, veramente...
la fontana del Moro...
E poi, gli uomini nudi...
in atteggiamenti procaci...
via, forse sarebbero stati un pochino piú scandalosi...
Teodoro Piovanelli, cosí pensando, ebbe un barlume di sorriso su le labbra amare; e imboccò Via Nazionale.
A mano a mano che andava, sopite immagini, impressioni rimaste nella sua coscienza d'altri tempi, non cancellate, sí svanite a lui per il sovrapporsi d'altri stati di coscienza opprimenti, gli si ridestavano, sommovendo e disgregando a poco a poco, con un senso di dolce pena, la triste compagine della coscienza presente.
E ascoltò dentro di sé la voce lontana lontana di lui stesso, qual era in gioventú; la voce delle memorie sepolte, che risorgevano al respiro di quell'aria notturna, al suono de' suoi passi nel silenzio della via.
Arrivato all'imboccatura di Via del Boschetto, s'arrestò, come se qualcuno a un tratto lo avesse trattenuto.
Si guardò attorno; poi, perplesso, con infinita tristezza, guardò giú per quella via, e scosse mestamente il capo.
Tutti i ricordi, le immagini, le impressioni del suo vagabondare notturno d'altri tempi, del tempo in cui era scapolo, si associavano al pensiero di una donna, di quell'unica ch'egli aveva conosciuta prima delle nozze, donna non sua solamente, ma a cui egli, per abitudine, per timidezza, era pure stato sempre fedele, come poi alla moglie.
Quella donna stava lí, allora, in Via del Boschetto.
Si chiamava Annetta; lavorava d'astucci e di sopraffondi; ma le piaceva vestir bene e gli ori le piacevano e i giojelli, anche falsi...
Finché aveva avuta la madre, s'era mantenuta onesta; poi la madre le era morta, e lei non aveva piú saputo veder la ragione di sacrificarsi a vivere in quel modo, senza il compenso di qualche godimento...
Cosí era caduta.
Ogni volta, come per rialzarsi innanzi a se stessa, per non sentir l'avvilimento di ciò che stava per fare, affliggeva quei pochi fidati che andavano a trovarla narrando quanto aveva fatto durante la lunga malattia della madre, tutte le cure che le aveva prodigate, i medicinali costosi che le aveva comperati, quasi per assicurare se stessa che, almeno per questo, non doveva aver rimorsi.
Ebbene, Teodoro Piovanelli, abbandonato in quella sua prima uscita ai ricordi d'allora, guidato naturalmente dall'istintiva esemplare fedeltà cosí crudelmente misconosciuta e negata dalla moglie, ecco, s'era proprio arrestato là, all'imboccatura di Via del Boschetto.
Si vietò d'assumer coscienza del pensiero sortogli d'improvviso, che non sarebbe stato un tradimento alla memoria della moglie, un venir meno al giuramento che le aveva fatto di non avvicinare mai piú altra donna, se fosse ritornato a quella, che già la moglie sapeva per sua stessa confessione.
Quella non sarebbe stata un'altra; quella era già stata sua; ed egli non avrebbe smentito, con quella, la sua fedeltà.
La avrebbe anzi confermata.
No: non se lo volle dire; non se lo volle fare questo ragionamento.
Scese per Via del Boschetto soltanto per curiosità, ecco; per la voluttà amara di seguir la traccia del tempo lontano: senza alcun altro scopo.
Del resto, non sapeva piú neppure se colei stesse ancora lí.
Era molto difficile, dopo nove anni...
L'aveva riveduta tre o quattro volte per via, vestita poveramente, invecchiata, imbruttita, certo caduta piú in basso; ma, naturalmente, aveva fatto finta non solo di non riconoscerla, ma di non averla mai conosciuta.
Quando, di pochi passi lontano dal portoncino ben noto, a destra, scorse la finestretta quadra del mezzanino, sulla porta, con le persiane accostate, che dalle stecche e da sotto lasciavano intravedere il lume della cameretta, Teodoro Piovanelli si turbò profondamente, assalito dall'imagine precisa, là, vivente, del ricordo lontano...
Tutto, tal quale, come allora! Ma ci stava proprio lei, là, ancora? S'accostò al muro, cauto, trepidante, e passò rasente, sotto la finestra; alzò il capo; scorse dietro alle persiane un'ombra, una donna...
- lei? - Passò oltre, tutto sconvolto, insaccato nelle spalle, col sangue che gli frizzava per le vene, come sotto l'imminenza di qualche cosa che dovesse cadergli addosso.
Violentemente gli si ricompose la coscienza tetra e dura del suo stato presente; rivide in un baleno col pensiero la camera dei bambini e quel ritratto, là, vigilante, terribile, della moglie; e s'arrestò affannato nella corsa che aveva preso.
A casa! a casa!
Se non che, davanti al portoncino...
ma sí, lei...
lei ch'era scesa...
Annetta, sí.
Egli la riconobbe subito.
E anche lei lo riconobbe:
- Doro...
tu?
E stese una mano.
Egli si schermí.
- Lasciami...
No, ti prego...
Non posso...
Lasciami...
- Come! - fece lei, ridendo e trattenendolo.
- Se sei venuto a cercarmi...
T'ho visto, sai? Caro...
caro...
sei tornato!...
Sú, via! Perché no? Se sei tornato a me...
Sú, sú...
E lo trasse per forza dentro il portoncino, e poi su per la scala, tenendolo per il braccio.
Egli ansava, col cuore in tumulto, la mente scombujata.
Voleva svincolarsi e non sapeva, non sapeva.
Rivide la cameretta, tal quale anch'essa, dal tetto basso...
il letto, il cassettone, il divanuccio...
le oleografie alle pareti...
Ma quando ella, tra tante parole affollate di cui egli non udiva altro che il suono, gli tolse il cappello e il bastone e poi i guanti, e fece per abbracciarlo, Teodoro Piovanelli, che già tremava tutto, la respinse, si portò le mani al volto, vacillò, come per una vertigine.
- Che hai? - domandò ella sorpresa, un po' costernata: e lo trasse a sedere sul divanuccio.
Un impeto di pianto scosse le spalle di lui.
Ella si provò a staccargli le mani dal volto; ma egli squassò il capo rabbiosamente.
- No! no!
- Tu piangi? - domandò la donna; poi, dopo aver guardato il cappello fasciato di lutto: - Forse...
forse t'è morta?...
Egli accennò di sí col capo.
- Ah, poveretto...
- sospirò lei, pietosamente.
Teodoro Piovanelli scattò in piedi, convulso; prese i guanti, il bastone, si buttò in capo il cappello; balbettò, soffocato:
- Impossibile...
impossibile...
lasciami andare...
Ella non si provò piú a trattenerlo; lo accompagnò, dolente, fino alla porta.
Poi lí, sicurissima ormai che sarebbe ritornato, gli domandò, con voce mesta e con un mesto sorriso:
- T'aspetto, eh, Doro?...
Presto...
Ma egli s'era messo sulla bocca il fazzoletto listato di nero, e non le rispose.
DISTRAZIONE
Nero tra il baglior polverulento d'un sole d'agosto che non dava respiro, un carro funebre di terza classe si fermò davanti al portone accostato d'una casa nuova d'una delle tante vie nuove di Roma, nel quartiere dei Prati di Castello.
Potevano esser le tre del pomeriggio.
Tutte quelle case nuove, per la maggior parte non ancora abitate, pareva guardassero coi vani delle finestre sguarnite quel carro nero.
Fatte da cosí poco apposta per accogliere la vita, invece della vita - ecco qua - la morte vedevano, che veniva a far preda giusto lí.
Prima della vita, la morte.
E se n'era venuto lentamente, a passo, quel carro.
Il cocchiere, che cascava a pezzi dal sonno, con la tuba spelacchiata, buttata a sghembo sul naso, e un piede sul parafango davanti, al primo portone che gli era parso accostato in segno di lutto, aveva dato una stratta alle briglie, l'arresto al manubrio della martinicca, e s'era sdrajato a dormire piú comodamente su la cassetta.
Dalla porta dell'unica bottega della via s'affacciò, scostando la tenda di traliccio, unta e sgualcita, un omaccio spettorato, sudato, sanguigno, con le maniche della camicia rimboccate su le braccia pelose.
- Ps! - chiamò, rivolto al cocchiere.
- Ahò! Piú là...
Il cocchiere reclinò il capo per guardar di sotto la falda della tuba posata sul naso; allentò il freno; scosse le briglie sul dorso dei cavalli e passò avanti alla drogheria, senza dir nulla.
Qua o là, per lui, era lo stesso.
E davanti al portone, anch'esso accostato della casa piú in là, si fermò e riprese a dormire.
- Somaro! - borbottò il droghiere, scrollando le spalle.
- Non s'accorge che tutti i portoni a quest'ora sono accostati.
Dev'essere nuovo del mestiere.
Cosí era veramente.
E non gli piaceva per nientissimo affatto, quel mestiere, a Scalabrino.
Ma aveva fatto il portinajo, e aveva litigato prima con tutti gl'inquilini e poi col padron di casa; il sagrestano a San Rocco, e aveva litigato col parroco; s'era messo per vetturino di piazza e aveva litigato con tutti i padroni di rimessa, fino a tre giorni fa.
Ora, non trovando di meglio in quella stagionaccia morta, s'era allogato in una Impresa di pompe funebri.
Avrebbe litigato pure con questa - lo sapeva sicuro - perché le cose storte, lui, non le poteva soffrire.
E poi era disgraziato, ecco.
Bastava vederlo.
Le spalle in capo; gli occhi a sportello; la faccia gialla, come di cera, e il naso rosso.
Perché rosso, il naso? Perché tutti lo prendessero per ubriacone; quando lui neppure lo sapeva che sapore avesse il vino.
- Puh!
Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca.
E un giorno o l'altro, l'ultima litigata per bene l'avrebbe fatta con l'acqua del fiume, e buona notte.
Per ora là, mangiato dalle mosche e dalla noja, sotto la vampa cocente del sole, ad aspettar quel primo carico.
Il morto.
O non gli sbucò, dopo una buona mezz'ora, da un altro portone in fondo, dall'altro lato della via?
- Te possino...
(al morto) - esclamò tra i denti, accorrendo col carro, mentre i becchini, ansimanti sotto il peso d'una misera bara vestita di mussolo nero, filettata agli orli di fettuccia bianca, sacravano e protestavano:
- Te possino...
(a lui) - Te pij n'accidente - E che er nummero der portone non te l'aveveno dato?
Scalabrino fece la voltata senza fiatare; aspettò che quelli aprissero lo sportello e introducessero il carico nel carro.
- Tira via!
E si mosse, lentamente, a passo, com'era venuto: ancora col piede alzato sul parafango davanti e la tuba sul naso.
Il carro, nudo.
Non un nastro, non un fiore.
Dietro, una sola accompagnatrice.
Andava costei con un velo nero trapunto, da messa, calato sul volto; indossava una veste scura, di mussolo rasato, a fiorellini gialli, e un ombrellino chiaro aveva, sgargiante sotto il sole, aperto e appoggiato su la spalla.
Accompagnava il morto, ma si riparava dal sole con l'ombrellino.
E teneva il capo basso, quasi piú per vergogna che per afflizione.
- Buon passeggio, ah Rosi'! - le gridò dietro il droghiere scamiciato, che s'era fatto di nuovo alla porta della bottega.
E accompagnò il saluto con un riso sguajato, scrollando il capo.
L'accompagnatrice si voltò a guardarlo attraverso il velo; alzò la mano col mezzo guanto di filo per fargli un cenno di saluto, poi l'abbassò per riprendersi di dietro la veste, e mostrò le scarpe scalcagnate.
Aveva però i mezzi guanti di filo e l'ombrellino, lei.
- Povero sor Bernardo, come un cane, - disse forte qualcuno dalla finestra d'una casa.
Il droghiere guardò in sú, seguitando a scrollare il capo.
- Un professore, con la sola servaccia dietro...
- gridò un'altra voce, di vecchia, da un'altra finestra.
Nel sole, quelle voci dall'alto sonavano nel silenzio della strada deserta, strane.
Prima di svoltare, Scalabrino pensò di proporre all'accompagnatrice di pigliare a nolo una vettura per far piú presto, già che nessun cane era venuto a far coda a quel mortorio.
- Con questo sole...
a quest'ora...
Rosina scosse il capo sotto il velo.
Aveva fatto giuramento, lei, che avrebbe accompagnato a piedi il padrone fino all'imboccatura di via San Lorenzo.
- Ma che ti vede il padrone?
Niente! Giuramento.
La vettura, se mai, l'avrebbe presa, lassú, fino a Campoverano.
- E se te la pago io? - insistette Scalabrino.
Niente.
Giuramento.
Scalabrino masticò sotto la tuba un'altra imprecazione e seguitò a passo, prima per il ponte Cavour, poi per Via Tomacelli e per Via Condotti e per Piazza di Spagna e Via Due Macelli e Capo le Case e Via Sistina.
Fin qui, tanto o quanto, si tenne sú, sveglio, per scansare le altre vetture, i tram elettrici e le automobili, considerando che a quel mortorio lí nessuno avrebbe fatto largo e portato rispetto.
Ma quando, attraversata sempre a passo Piazza Barberini, imboccò l'erta via di San Niccolò da Tolentino, rialzò il piede sul parafango, si calò di nuovo la tuba sul naso e si riaccomodò a dormire.
I cavalli, tanto, sapevano la via.
I rari passanti si fermavano e si voltavano a mirare, tra stupiti e indignati.
Il sonno del cocchiere su la cassetta e il sonno del morto dentro il carro: freddo e nel bujo, quello del morto; caldo e nel sole, quello del cocchiere; e poi quell'unica accompagnatrice con l'ombrellino chiaro e il velo nero abbassato sul volto: tutto l'insieme di quel mortorio, insomma, cosí zitto zitto e solo solo, a quell'ora, bruciata, faceva proprio cader le braccia.
Non era il modo, quello, d'andarsene all'altro mondo! Scelti male il giorno, l'ora, la stagione.
Pareva che quel morto lí avesse sdegnato di dare alla morte una conveniente serietà.
Irritava.
Quasi quasi aveva ragione il cocchiere che se la dormiva.
E cosí avesse seguitato a dormire Scalabrino fino al principio di Via San Lorenzo! Ma i cavalli, appena superata l'erta, svoltando per Via Volturno, pensarono bene d'avanzare un po' il passo; e Scalabrino si destò.
Ora, destarsi, veder fermo sul marciapiedi a sinistra un signore allampanato, barbuto, con grossi occhiali neri, stremenzito in un abito grigio, sorcigno, e sentirsi arrivare in faccia, su la tuba, un grosso involto, fu tutt'uno!
Prima che Scalabrino avesse tempo di riaversi, quel signore s'era buttato innanzi ai cavalli, li aveva fermati e, avventando gesti minacciosi, quasi volesse scagliar le mani, non avendo piú altro da scagliare, urlava, sbraitava:
- A me? a me? mascalzone! canaglia! manigoldo! a un padre di famiglia? a un padre di otto figliuoli? manigoldo! farabutto!
Tutta la gente che si trovava a passare per via e tutti i bottegai e gli avventori s'affollarono di corsa attorno al carro e tutti gl'inquilini delle case vicine s'affacciarono alle finestre, e altri curiosi accorsero, al clamore, dalle prossime vie, i quali, non riuscendo a sapere che cosa fosse accaduto, smaniavano, accostandosi a questo e a quello, e si drizzavano su la punta dei piedi.
- Ma che è stato?
- Uhm...
pare che...
dice che...
non so!
- Ma c'è il morto?
- Dove?
- Nel carro, c'è?
- Uhm!...
Chi è morto?
- Gli pigliano la contravvenzione!
- Al morto?
- Al cocchiere...
- E perché?
- Mah!...
pare che...
dice che...
Il signore grigio allampanato seguitava intanto a sbraitare presso la vetrata d'un caffè, dove lo avevano trascinato; reclamava l'involto scagliato contro il cocchiere; ma non s'arrivava ancora a comprendere perché glielo avesse scagliato.
Sul carro, il cocchiere cadaverico, con gli occhi miopi strizzati, si rimetteva in sesto la tuba e rispondeva alla guardia di città che, tra la calca e lo schiamazzo, prendeva appunti su un taccuino.
Alla fine il carro si mosse tra la folla che gli fece largo, vociando; ma, come apparve di nuovo, sotto l'ombrellino chiaro, col velo nero abbassato sul volto, quell'unica accompagnatrice - silenzio.
Solo qualche monellaccio fischiò.
Che era insomma accaduto?
Niente.
Una piccola distrazione.
Vetturino di piazza fino a tre giorni fa, Scalabrino, stordito dal sole, svegliato di soprassalto, s'era scordato di trovarsi su un carro funebre: gli era parso d'essere ancora su la cassetta d'una botticella e, avvezzo com'era ormai da tanti anni a invitar la gente per via a servirsi del suo legno, vedendosi guardato da quel signore sorcigno fermo lí sul marciapiede, gli aveva fatto segno col dito, se voleva montare.
E quel signore, per un piccolo segno, tutto quel baccano...
...
[Pagina successiva]