LA VITA NUDA, di Luigi Pirandello - pagina 4
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N'era rivoltato.
Con gli occhi torvi, i denti serrati, parlava tra sé e gesticolava per via, come un matto.
- Ah, sí? - diceva - Ti tocco e ti lascio? No, ah, no perdio! Io non mi riduco in quello stato! Ti faccio tornare per forza, io! Mi passeggi accanto e ti diverti a vedere come mi hai conciato? a vedermi strascicare un piede? a sentirmi biascicare? Mi rubi mezzo alfabeto, mi fai dire oa e cao, e ridi? No, caa! Vieni qua! Mi tio una pistoettata, com'è veo Dio! Questo spasso io non te lo do! Mi sparo, m'ammazzo com'è vero Dio! Questo spasso non te lo do.
Tutta la sera e poi il giorno appresso e per parecchi giorni di fila non pensò ad altro, non parlò d'altro, a casa, per via, al caffè, alla fiaschetteria, quasi se ne fosse fatta una fissazione.
Domandava a tutti:
- Avete veduto Beniamino Lenzi?
E se qualcuno gli rispondeva di no:
- Colpito! Morto per metà! Rimbambito...
Come non s'ammazza? Se io fossi medico, lo ammazzerei! Per carità di prossimo...
Gli fanno fare il tornio nel cortile...
e lui crede che guarirà! Beniamino Lenzi, capite? Beniamino Lenzi che s'è battuto tre volte in duello, dopo aver fatto con me la campagna del '66, ragazzotto...
Perdio, e quando mai l'abbiamo calcolata noi, questa pellaccia? La vita ha prezzo per quello che ti dà...
Dico bene? Non ci penserei neanche due volte...
Gli amici, alla fiaschetteria, alla fine non ne poterono piú.
- M'ammazzo...
m'ammazzo...
E ammazzati una buona volta e falla finita!
Cristoforo Golisch si scosse, protese le mani:
- No; io dico, se mai...
II
Circa un mese dopo, mentre desinava con la sorella vedova e il nipote, Cristoforo Golisch improvvisamente stravolse gli occhi, storse la bocca, quasi per uno sbadiglio mancato; e il capo gli cadde sul petto e la faccia sul piatto.
Una toccatina, lieve lieve, anche lui.
Perdette lí per lí la parola e mezzo lato del corpo: il destro.
Cristoforo Golisch era nato in Italia, da genitori tedeschi; non era mai stato in Germania, e parlava romanesco, come un romano di Roma.
Da un pezzo gli amici gli avevano italianizzato anche il cognome, chiamandolo Golicci, e gl'intimi anche Golaccia, in considerazione del ventre e del formidabile appetito.
Solo con la sorella egli soleva di tanto in tanto scambiare qualche parola in tedesco, perché gli altri non intendessero.
Ebbene, riacquistato a stento, in capo a poche ore, l'uso della parola, Cristoforo Golisch offrí al medico un curioso fenomeno da studiare; non sapeva piú parlare in italiano: parlava tedesco.
Aprendo gli occhi insanguati, pieni di paura, contraendo quasi in un mezzo sorriso la sola guancia sinistra e aprendo alquanto la bocca da questo lato, dopo essersi piú volte provato a snodar la lingua inceppata, alzò la mano illesa verso il capo e balbettò, rivolto al medico:
- Ih...
ihr...
wie ein Faustschlag...
Il medico non comprese, e bisognò che la sorella, mezzo istupidita dall'improvvisa sciagura, gli facesse da interprete.
Era divenuto tedesco a un tratto, Cristoforo Golisch: cioè, un altro; perché tedesco veramente, lui, non era mai stato.
Soffiata via, come niente, dal suo cervello ogni memoria della lingua italiana, anzi tutta quanta l'italianità sua.
Il medico si provò a dare una spiegazione scientifica del fenomeno: dichiarò il male: emiplegia; prescrisse la cura.
Ma la sorella, spaventata, lo chiamò in disparte e gli riferí i propositi violenti manifestati dal fratello pochi giorni innanzi, avendo veduto un amico colpito da quello stesso male.
- Ah, signor dottore, da un mese non parlava piú d'altro; quasi se la fosse sentita pendere sul capo la condanna! S'ammazzerà...
Tiene la rivoltella lí, nel cassetto del comodino...
Ho tanta paura...
Il medico sorrise pietosamente.
- Non ne abbia, non ne abbia, signora mia! Gli daremo a intendere che è stato un semplice disturbo digestivo, e vedrà che...
- Ma che, dottore!
- Le assicuro che lo crederà.
Del resto, il colpo, per fortuna, non è stato molto grave.
Ho fiducia che tra pochi giorni riacquisterà l'uso degli arti offesi, se non bene del tutto, almeno da potersene servire pian piano...
e, col tempo, chi sa! Certo è stato per lui un terribile avviso.
Bisognerà cangiar vita e tenersi a un regime scrupolosissimo per allontanare quanto piú sarà possibile un nuovo assalto del male.
La sorella abbassò le pàlpebre per chiudere e nascondere negli occhi le lagrime.
Non fidandosi però dell'assicurazione del medico, appena questi andò via, concertò col figliuolo e con la serva il modo di portar via dal cassetto del comodino la rivoltella: lei e la serva si sarebbero accostate alla sponda del letto con la scusa di rialzare un tantino le materasse, e nel frattempo - ma, attento per carità! - il ragazzo avrebbe aperto il cassetto senza far rumore e...
- attento! - via, l'arma.
Cosí fecero.
E di questa sua precauzione la sorella si lodò molto, non parendole naturale, di lí a poco, la facilità con cui il fratello accolse la spiegazione del male, suggerita dal medico: disturbo digestivo.
- Ja...
ja...
es ist doch...
Da quattro giorni se lo sentiva ingombro lo stomaco.
- Unver...
Unverdaulichkeit...
ja...
ja...
Ma possibile, - pensava la sorella, - ch'egli non avverta la paralisi di mezzo lato del corpo? possibile c'egli, già prevenuto dal caso recente del Lenzi, creda che una semplice indigestione possa aver fatto un tale effetto?
Fin dalla prima veglia cominciò a suggerirgli amorosamente, come a un bambino, le parole della lingua dimenticata; gli domandò perché non parlasse piú italiano.
Egli la guardò imbalordito.
Non s'era accorto peranche di parlare in tedesco: tutt'a un tratto gli era venuto di parlar cosí, né credeva che potesse parlare altrimenti.
Si provò tuttavia a ripetere le parole italiane, facendo eco alla sorella.
Ma le pronunziava ora con voce cangiata e con accento straniero, proprio come un tedesco che si sforzasse di parlare italiano.
Chiamava Giovannino, il nipote, Ciofaío.
E il nipote - scimunito! - ne rideva, come se lo zio lo chiamasse cosí per ischerzo.
Tre giorni dopo, quando alla Fiaschetteria Toscana si seppe del malore improvviso del Golisch, gli amici accorsi a visitarlo poterono avere un saggio pietoso di quella sua nuova lingua.
Ma egli non aveva punto coscienza della curiosissima impressione che faceva, parlando a quel modo.
Pareva un naufrago che si arrabattasse disperatamente per tenersi a galla, dopo essere stato tuffato e sommerso per un attimo eterno nella vita oscura, a lui ignota, della sua gente.
E da quel tuffo, ecco, era balzato fuori un altro; ridivenuto bambino, a quarant'otto anni, e straniero.
E contentissimo era.
Sí, perché proprio in quel giorno aveva cominciato a poter muovere appena il braccio e la mano.
La gamba no, ancora.
Ma sentiva che forse il giorno dopo, con uno sforzo, sarebbe riuscito a muovere anche quella.
Ci si provava anche adesso, ci si provava...
e, no eh? non scorgevano alcun movimento gli amici?
- Tomai...
tomai...
- Ma sí, domani, sicuro!
A uno a uno gli amici, prima d'andar via - quantunque lo spettacolo offerto dal Golisch non desse piú luogo ad alcun timore - stimarono prudente raccomandare alla sorella la sorveglianza.
- Da un momento all'altro, non si sa mai...
Può darsi che la coscienza gli si ridesti, e...
Ciascuno pensava, ora, come già aveva pensato il Golisch, da sano: che l'unica, cioè, era di finirsi con una pistolettata per non restar cosí malvivo e sotto la minaccia terribile, inovviabile, d'un nuovo colpo da un momento all'altro.
Ma loro sí, adesso, lo pensavano: non piú il Golisch però.
L'allegrezza del Golisch, invece, quando - una ventina di giorni dopo - sorretto dalla sorella e dal nipote, poté muovere i primi passi per la camera!
Gli occhi, è vero, no, senza uno specchio non se li poteva vedere: attoniti, smarriti, come quelli di Beniamino Lenzi; ma della gamba sí, perbacco, avrebbe potuto accorgersi bene che la strascicava a stento...
Eppure, che allegrezza!
Si sentiva rinato.
Aveva di nuovo tutte le meraviglie d'un bambino, e anche le lagrime facili, come le hanno i bambini, per ogni nonnulla.
Da tutti gli oggetti della camera sentiva venirsi un conforto dolcissimo, familiare, non mai provato prima; e il pensiero ch'egli ora poteva andare co' suoi piedi fino a quegli oggetti, a carezzarli con le mani, lo inteneriva di gioja fino a piangerne.
Guardava dall'uscio gli oggetti delle altre stanze e si struggeva dal desiderio di recarsi a carezzare anche quelli.
Sí, via...
pian piano, pian piano, sorretto di qua e di là...
Poi volle fare a meno del braccio del nipote, e girò appoggiato alla sorella soltanto e col bastone nell'altra mano; poi, non piú sorretto da alcuno, col bastone soltanto; e finalmente volle dare una gran prova di forza:
- Oh...
oh...
guaddae, guaddae...
sea battoe...
E davvero, tenendo il bastone levato, mosse due o tre passi.
Ma dovettero accorrere con una seggiola per farlo subito sedere.
Gli era quasi scolata addosso tutta la carne, e pareva l'ombra di se stesso; pur non di meno, neanche il minimo dubbio in lui che il suo non fosse stato un disturbo digestivo; e, sedendo ora di nuovo a tavola con la sorella e il nipote, condannato a bere latte invece di vino, ripeteva per la millesima volta che s'era preso una bella paura:
- Una bea paua...
Se non che, la prima volta che poté uscir di casa, accompagnato dalla sorella, in gran segreto manifestò a questa il desiderio d'esser condotto alla casa del medico che curava Beniamino Lenzi.
Nel cortile di quella casa voleva esercitarsi il piede al tornio anche lui.
La sorella lo guardò, sbigottita.
Dunque egli sapeva?
- Di', vuoi andarci oggi stesso?
- Sí...
sí...
Nel cortile trovarono Beniamino Lenzi, già al tornio, puntuale.
- Beiamío! - chiamò il Golisch.
Beniamino Lenzi non mostrò affatto stupore nel riveder lí l'amico, conciato come lui: spiccicò le labbra sotto i baffi, contraendo la guancia destra; biascicò:
- Tu pue?
E seguitò a spingere la leva.
Due pertiche ora molleggiavano e brandivano, facendo girare i rocchetti con la corda.
Il giorno dopo Cristoforo Golisch, non volendo esser da meno del Lenzi che si recava al tornio da solo, rifiutò recisamente la scorta della sorella.
Questa, dapprima, ordinò al figliuolo di seguire lo zio a una certa distanza, senza farsi scorgere; poi, rassicurata, lo lasciò davvero andar solo.
E ogni giorno, adesso, alla stess'ora, i due colpiti si ritrovano per via e proseguono insieme facendo le stesse tappe: al lampione, prima; poi, piú giú, alla vetrina del bazar, a contemplare la scimmietta di porcellana sospesa all'altalena; in fine, alla ringhiera del giardinetto.
Oggi, intanto, a Cristoforo Golisch è saltata in mente un'idea curiosa; ed ecco, la confida al Lenzi.
Tutti e due, appoggiati al fido lampione, si guardano negli occhi e si provano a sorridere, contraendo l'uno la guancia destra, l'altro la sinistra.
Confabulano un pezzo, con quelle loro lingue torpide; poi il Golisch fa segno col bastone a un vetturino d'accostarsi.
Ajutati da questo, prima l'uno e poi l'altro, montano in vettura, e via, alla casa di Nadina in Piazza di Spagna.
Nel vedersi innanzi quei due fantasmi ansimanti, che non si reggono in piedi dopo l'enorme sforzo della salita, la povera Nadina resta sgomenta, a bocca aperta.
Non sa se debba piangere o ridere.
S'affretta a sostenerli, li trascina nel salotto, li pone a sedere accanto e si mette a sgridarli aspramente della pazzia commessa, come due ragazzini discoli, sfuggiti alla sorveglianza dell'ajo.
Beniamino Lenzi fa il greppo, e giú a piangere.
Il Golisch, invece, con molta serietà, accigliato, le vuole spiegare che si è inteso di farle una bella sorpresa.
- Una bea soppea...
(Bellino! Come parla adesso, il tedescaccio!)
- Ma sí, ma sí, grazie...
- dice subito Nadina.
- Bravi! Siete stati bravi davvero tutt'e due...
e m'avete fatto un gran piacere...
Io dicevo per voi...
venire fin qua, salire tutta questa scala...
Sú, sú Beniamino! Non piangere, caro...
Che cos'è? Coraggio, coraggio!
E prende a carezzarlo su le guance, con le belle mani lattee e paffutelle, inanellate.
- Che cos'è: che cos'è? Guardami!...
Tu non volevi venire, è vero? Ti ha condotto lui, questo discolaccio! Ma non farò nemmeno una carezza a lui...
Tu sei il mio buon Beniamino, il mio gran giovanottone sei...
Caro! caro!...
Suvvia, asciughiamo codeste lagrimucce...
Cosí...
cosí...
Guarda qua questa bella turchese: chi me l'ha regalata? chi l'ha regalata a Nadina sua? Ma questo mio bel vecchiaccio me l'ha regalata...
Toh, caro!
E gli posa un bacio su la fronte.
Poi si alza di scatto e rapidamente con le dita si porta via le lagrime dagli occhi.
- Che posso offrirvi?
Cristoforo Golisch, rimasto mortificato e ingrugnato, non vuole accettar nulla; Beniamino Lenzi accetta un biscottino e lo mangia accostando la bocca alla mano di Nadina che lo tiene tra le dita e finge di non volerglielo dare, scattando con brevi risatine:
- No...
no...
no...
Bellini tutt'e due, adesso, come ridono, come ridono a quello scherzo...
ACQUA AMARA
Poca gente, quella mattina, nel parco attorno alle Terme.
La stagione balneare era ormai per finire.
In due sediletti vicini, in un crocicchio sotto gli alti platani, stavano un giovanotto pallido, anzi giallo, magro da far pietà dentro l'abito nuovo, chiaro, le cui pieghe, per esser troppo ampio, ancora fresche della stiratura, cascavano tutte a zig-zag, e un omaccione su la cinquantina, con un abituccio di teletta tutto raggrinzito dove la pinguedine enorme non lo stirava fino a farlo scoppiare, e un vecchio panama sformato sul testone raso.
Reggevano entrambi per il manico i bicchieri ancor pieni della tepida e greve acqua alcalina presa or ora alla fonte.
L'uomo grasso, quasi intronato ancora dagli strepitosi ronfi che aveva dovuto tirar col naso durante la notte, socchiudeva di tanto in tanto nel faccione da padre abate satollo e pago gli occhi imbambolati dal sonno.
Il giovanotto magro, all'aria frizzante della mattina, sentiva freddo e aveva perfino qualche brivido.
Né l'uno né l'altro sapevano risolversi a bere e pareva che ciascuno aspettasse dall'altro l'esempio.
Alla fine, dopo il primo sorso, si guardarono coi volti contratti dalla medesima espressione di nausea.
- Il fegato, eh? - domandò piano, a un tratto, l'uomo grasso al giovinotto, riscotendosi.
- Colichette epatiche, eh? Lei ha moglie, mi figuro...
- No, perché? - domandò a sua volta il giovinotto con un penoso raggrinzamento di tutta la faccia, che voleva esser sorriso.
- Mi pareva, cosí all'aria...
- sospirò l'altro.
- Ma se non ha moglie, stia pur tranquillo: lei guarirà!
Il giovinotto tornò a sorridere come prima.
- Lei soffre forse di fegato? - domandò poi, argutamente.
- No, no, niente piú moglie, io! - s'affrettò a rispondere con serietà l'uomo grasso.
- Soffrivo di fegato; ma grazie a Dio, mi sono liberato della moglie; son guarito.
Vengo qua, da tredici anni ormai, per atto di gratitudine.
Scusi, quand'è arrivato lei?
- Ieri sera, alle sei, - disse il giovinotto.
- Ah, per questo! - esclamò l'altro, socchiudendo gli occhi e tentennando il testone.
- Se fosse arrivato di mattina, già mi conoscerebbe.
- Io...
la conoscerei?
- Ma sí, come mi conoscono tutti, qua.
Sono famoso! Guardi, alla Piazza dell'Arena, in tutti gli Alberghi, in tutte le Pensioni, al Circolo, al Caffè da Pedoca, in farmacia, da tredici anni a questa parte, stagione per stagione, non si parla che di me.
Io lo so e ne godo e ci vengo apposta.
Dov'è sceso lei? Da Rori? Bravo.
Stia pur sicuro che oggi, a tavola da Rori, le narreranno la mia storia.
Ci prendo avanti, se permette, e gliela narro io, filo filo.
Cosí dicendo, si tirò sú faticosamente dal suo sedile e andò a quello del giovinotto, che gli fece posto, con la faccetta gialla tutta strizzata per la contentezza.
- Prima di tutto, per intenderci, qua mi chiamano Il marito della dottoressa.
Cambiè mi chiamo.
Di nome, Bernardo.
Bernardone, perché sono grosso.
Beva.
Bevo anch'io.
Bevvero.
Fecero una nuova smorfia di disgusto, che vollero cangiar subito in un sorriso, guardandosi teneramente.
E Cambiè riprese:
- Lei è giovanissimo e patituccio sul serio.
Queste confidenze sviscerate che le farò, le potranno servire piú di quest'acquaccia qua, che è amara, ma, in compenso, non giova a nulla, creda pure.
Ce la danno a bere, in tutti i sensi, e noi la beviamo perché è cattiva.
Se fosse buona...
Ma no, basta: perché lei fa la cura e le conviene aver fiducia.
Deve sapere che sentivo dire matrimonio e, con rispetto parlando, mi si rompeva lo stomaco, proprio mi...
mi veniva di...
sissignore.
Vedevo un corteo nuziale? sapevo che un amico andava a nozze? Lo stesso effetto.
Ma che vuole da noi, sciagurati mortali? Spunta una macchiolina nel sole? un subisso di cataclismi.
Un re si alza con la lingua sporca? guerre e sterminii senza fine.
Un vulcano ci ha il singhiozzo? terremoti, catastrofi, un'ecatombe...
A Napoli, al tempo mio, ci scoppiò il colera: quel gran colera di circa vent'anni fa, di cui lei, se non si ricorda, avrà certo sentito parlare.
Mio padre, povero impiegato, con la bella fortuna che lo perseguitava, naturalmente si trovò a Napoli, l'anno del colera.
Io, che avevo già trent'anni e vi avevo trovato un buon collocamento, avevo preso a pigione un quartierino da scapolo, non molto lontano da casa mia.
Stavo in famiglia, e lí tenevo una ragazza che m'era piovuta come dal cielo.
Carlotta.
Si chiamava cosí.
Ed era figlia d'un...
non c'è niente di male, sa! professioni, - figlia d'uno strozzino.
Prete spogliato.
Era scappata di casa per certi litigi con la madraccia e un fratellino farabutto, che non starò a raccontarle.
Pareva bonina, lei; ed era forse, allora; ma capirà: amante, poco ci sofisticavo.
Scusi, è religioso lei? Cosí cosí.
Forse piú non che sí.
Come me.
Mia madre, invece, caro signore, religiosissima.
Povera donna, soffriva molto di quella mia relazione per lei peccaminosa.
Sapeva che quella ragazza, prima che mia, non era stata d'altri.
Scoppiato il colera, atterrita dalla grande moría e convinta fermamente che dovessimo tutti morire, io sopra tutti, ch'ero, secondo lei, in peccato mortale, per placare l'ira divina, pretese da me il sacrifizio che sposassi, almeno in chiesa solamente, quella ragazza.
Creda pure che non l'avrei mai fatto, se Carlotta non fosse stata colpita dal male.
Dovevo salvarle l'anima, almeno: l'avevo promesso a mia madre.
Corsi a chiamare un prete e la sposai.
Ma che fu? mano santa? miracolo? Pareva morta, guarí!
Mia madre, per spirito di carità, anzi di sacrifizio, non ostante la tremarella, aveva voluto assistere alla cerimonia, e poi rimanere lí presso al letto della colpita.
Sembrava che il colera fosse venuto a Napoli per me, per castigar me dal peccato mortale, e che dovesse passare con la guarigione di Carlotta, tanto impegno, tanto zelo mise mia madre a curarla.
Appena l'ebbe salvata, vedendo che lí, in quel quartierino, mancavano per la convalescente tutti i comodi, volle anche portarsela a casa, non ostante la mia opposizione.
Capirà bene che, entrata, Carlotta non ne uscí se non mia sposa legittima di lí a poco, appena cessata la moría.
E ribeviamo, caro signore!
Per fortuna, a Carlotta durante l'epidemia erano morti padre, madre e fratelli.
Fortuna e disgrazia, perché, unica superstite della famiglia, ereditò trentotto o quarantamila lire, frutto della nobile professione paterna.
Moglie e con la dote, che vide, signor mio? cambiò da un giorno all'altro, da cosí a cosí.
Ora senta.
Sarà che io mi trovo in corpo un certo spiritaccio...
come dire? fi...
filosofesco, che magari a lei potrà sembrare strambo; ma mi lasci dire.
Crede lei che ci siano due soli generi, il maschile e il femminile?
Nossignore.
La moglie è un genere a parte; come il marito, un genere a parte.
E, quanto ai generi, la donna, col matrimonio, ci guadagna sempre.
Avanza! Entra cioè a partecipar di tanto del genere mascolino, di quanto l'uomo, necessariamente, ne scapita molto, creda a me.
Se mi venisse la malinconia di comporre una grammatichetta ragionata come dico io, vorrei mettere per regola che si debba dire: il moglie; e, per conseguenza, la marito.
Lei ride? Ma per la moglie, caro signore, il marito non è piú un uomo.
Tanto vero, che non si cura piú di piacergli.
"Con te non c'è piú sugo, -pensa la moglie.
- Tu già mi conosci."
Ma pure, se il marito è cosí dabbenaccio da rinzelarsi, vedendola per esempio a letto come una diavola, coi capelli incartocciati, col viso impiastricciato, e via dicendo:
- Ma io lo faccio per te! - è capace di rispondergli lei.
- Per me?
- Sicuro.
Per non farti sfigurare.
Ti piacerebbe che la gente, vedendoci per via, dicesse: "Oh guarda un po' che moglie è andata a scegliersi quel pover'uomo"?
E il marito, che - gliel'assicuro - non è piú uomo, si sta zitto; quand'invece dovrebbe gridare:
- Ma me lo dico io da me, cara, che moglie sono andato a scegliermi, nel vederti cosí, adesso, accanto a me! Ah, tu mi ti mostri brutta per casa e a letto, perché gli altri poi, per via, possano esclamare: "Oh guarda che bella moglie ha quel pover'uomo"? E mi debbono invidiare per giunta? Ma grazie, grazie cara, di quest'invidia per me, che si traduce, naturalmente, in un desiderio di te.
Tu vuoi esser desiderata perché io sia invidiato? Quanto sei buona! Ma piú buono sono io che t'ho sposata.
E il dialogo potrebbe seguitare.
Perché c'è il caso, sa? che la moglie abbia anche l'impudenza incosciente di domandare al marito se, acconciata adesso e parata per uscire a passeggio, gli pare che stia bene.
Il marito dovrebbe risponderle:
- Ma sai, cara? i gusti son tanti.
A me, come a me, già te l'ho detto, codesti capelli pettinati cosí non mi garbano.
A chi vuoi piacere? Bisognerebbe che tu me lo dicessi, per saperti rispondere.
A nessuno? proprio a nessuno? Ma allora, benedetta te, nessuno per nessuno, cerca di piacere a tuo marito, che almeno è uno!
Caro signore, a una tale risposta la moglie guarderebbe il marito quasi per compassione, poi farebbe una spallucciata, come a dire:
- Ma tu che c'entri?
E avrebbe ragione.
Le donne non possono farne a meno: per istinto, vogliono piacere.
Han bisogno d'esser desiderate, le donne.
Ora, capirà, un marito non può piú desiderar la moglie che ha giorno e notte con sé.
Non può desiderarla, intendo com'ella vorrebbe essere desiderata.
Già, come la moglie nel marito non vede piú l'uomo, cosí l'uomo nella moglie, a lungo andare, non vede piú la donna.
L'uomo, piú filosofo per natura, ci passa sopra; la donna, invece, se ne offende; e perciò il marito le diventa presto increscioso e spesso insopportabile.
Essa deve fare il comodo suo, il marito no.
Ma qualunque cosa egli facesse, creda pure, non andrebbe mai bene per lei, perché l'amore, quel tale amore di cui ella ha bisogno, il marito, solamente perché marito, non può piú darglielo.
Piú che amore è una cert'aura di ammirazione di cui ella vuol sentirsi avviluppata.
Ora vada lei ad ammirarla per la casa coi diavoletti in capo, senza busto, in ciabatte, e oggi, poniamo, col mal di pancia e domani col mal di denti.
Quella cert'aura può spirar fuori, dagli occhi degli uomini che non sanno, e dei quali essa, senza parere, con arte sopraffina, ha voluto e saputo attirare e fermare gli sguardi per inebriarsene deliziosamente.
Se è una moglie onesta, questo le basta.
Le parlo adesso delle mogli oneste, io, intendiamoci, anzi delle intemerate addirittura.
Delle altre non c'è piú sugo a parlarne.
Mi consenta un'altra piccola riflessione.
Noi uomini abbiamo preso il vezzo di dire che la donna è un essere incomprensibile.
Signor mio, la donna, invece, è tal quale come noi, ma non può né mostrarlo, né dirlo, perché sa, prima di tutto, che la società non glielo consente, recando a colpa a lei quel che invece reputa naturale per l'uomo; e poi perché sa che non farebbe piacere agli uomini, se lo mostrasse e lo dicesse.
Ecco spiegato l'enigma.
Chi ha avuto come me la disgrazia d'intoppare in una moglie senza peli sulla lingua, lo sa bene.
E diamo ancora una bevutina.
Coraggio!
Non era cosí dapprima Carlotta.
Diventò cosí subito dopo il matrimonio, appena cioè si sentí a posto e s'accorse ch'io cominciai naturalmente a vedere in lei non soltanto il piacere, ma anche quella bruttissima cosa che è il dovere.
Io dovevo rispettarla, adesso, no? Era mia moglie! Ebbene, forse lei non voleva essere rispettata.
Chi sa perché, il vedermi diventare di punto in bianco un marito esemplare, le diede terribilmente ai nervi.
Cominciò per noi una vita d'inferno.
Lei, sempre ingrugnata, spinosa, irrequieta; io, paziente, un po' per paura, un po' per la coscienza d'aver commesso la piú grossa delle bestialità e di doverne piangere le conseguenze.
Le andavo appresso come un cagnolino.
E facevo peggio! Per quanto mi ci scapassi, non riuscivo però a indovinare, che diamine volesse mia moglie.
Ma avrei sfidato chiunque a indovinarlo! Sa che voleva? Voleva esser nata uomo, mia moglie.
E se la pigliava con me perché era nata femmina.
"Uomo, - diceva, - e magari cieco d'un occhio!"
Un giorno le domandai:
- Ma sentiamo un po', che avresti fatto, se fossi nata uomo?
Mi rispose, sbarrando tanto d'occhi:
- Il mascalzone!
- Brava!
- E moglie, niente, sai! Non l'avrei presa.
- Grazie, cara.
- Oh, puoi esserne piú che sicuro!
- E ti saresti spassato? Dunque tu credi che con le donne ci si possa spassare?
Mia moglie mi guardò nel fondo degli occhi.
- Lo domandi a me? - mi disse.
- Tu forse non lo sai? Io non avrei preso moglie anche per non far prigioniera una povera donna.
- Ah, - esclamai.
- Prigioniera ti senti?
E lei:
- Mi sento? E che sono? che sono stata sempre, da che vivo? Io non conosco che te.
Quando mai ho goduto io?
- Avresti voluto conoscer altri?
- Ma certo! ma precisamente come te, che ne hai conosciute tante prima e chi sa quante dopo!
Dunque, signor mio, tenga bene a mente questo: che una donna desidera proprio tal quale come noi.
Lei, per modo d'esempio, vede una bella donna, la segue con gli occhi, se la immagina tutta, e col pensiero la abbraccia, senza dirne nulla, naturalmente, a sua moglie che le cammina accanto? Nel frattempo, sua moglie vede un bell'uomo, lo segue con gli occhi, se lo immagina tutto, e col pensiero lo abbraccia, senza dirne nulla a lei, naturalmente.
Niente di straordinario in questo; ma creda pure che non fa punto piacere il supporre questa cosa ovvia e comunissima nella propria moglie, prigioniera col corpo, non con l'anima.
E il corpo stesso! Dica un po': non abbiamo noi uomini la coscienza che, avendo un'opportunità, non sapremmo affatto resistere? Ebbene, s'immagini che è proprio lo stesso per la donna.
Cascano, cascano che è un piacere, con la stessa facilità, se loro vien fatto, se trovano cioè un uomo risoluto, di cui si possan fidare.
Me l'ha lasciato intender bene mia moglie, parlando - s'intende - delle altre.
E vengo al caso mio.
Naturalmente, dopo un anno di matrimonio, m'ammalai di fegato.
Per sei anni di fila, cure inutili, che fecero strazio del mio povero corpo, ridotto in uno stato da far pietà finanche agli altri ammalati del mio stesso male.
Il rimedio dovevo trovarlo qua.
Ci venni con mia moglie e, nei primi giorni, alloggiai da Rori, dove ora è lei.
Ordinai, appena arrivato, che mi si chiamasse un medico per farmi visitare e prescrivere quanti bicchieri al giorno avrei dovuto bere, o se mi sarebbero convenute piú le docce o i bagni d'acqua sulfurea.
Mi si presentò un bel giovane, bruno, alto, aitante della persona, dall'aria marziale, tutto vestito di nero.
Seppi poco dopo che era stato, difatti, nell'esercito, medico militare, tenente medico; che a Rovigo aveva contratto una relazione con la figlia d'un tipografo; che ne aveva avuto una bambina, e che, costretto a sposare, s'era dimesso ed era venuto qua in condotta.
Otto mesi dopo questo suo grande sacrifizio, gli erano morte quasi contemporaneamente moglie e figliuola.
Erano già passati circa tre anni dalla doppia sciagura, ed egli vestiva ancora di nero, come un bellissimo corvo.
Faceva furore, capirà, con quel sacrifizio delle dimissioni per amore, cosí mal ricompensato dalla sorte; con quelle due disgrazie che gli si leggevano ancora scolpite in tutta la persona, impostata che neanche Carlomagno.
Tutte le donne, a lasciarle fare, avrebbero voluto consolarlo.
Egli lo sapeva e si mostrava sdegnoso.
Dunque venne da me; mi visitò ben bene, palpandomi tutto; mi ripeté press'a poco quel che già tant'altri medici mi avevano detto, e infine mi prescrisse la cura: tre mezzi bicchieri, di questi mezzani, pei primi giorni, poi tre interi, e un giorno bagno, un giorno doccia.
Stava per andarsene, quando finse d'accorgersi della presenza di mia moglie.
- Anche la signora? - domandò, guardandola freddamente.
- No, no, - negò subito mia moglie con viso lungo lungo e le sopracciglia sbalzate fino all'attaccatura dei capelli.
- Eppure, permette? - fece lui.
Le si accostò, le sollevò con delicatezza il mento con una mano, e con l'indice dell'altra le rovesciò appena una palpebra.
- Un po' anemica, - disse.
Mia moglie mi guardò, pallidissima, cose se quella diagnosi a bruciapelo la avesse lí per lí anemizzata.
E con un risolino nervoso su le labbra, alzò le spalle, disse:
- Ma io non mi sento nulla...
Il medico s'inchinò, serio:
- Meglio cosí.
E andò via con molta dignità.
Fosse l'acqua o il bagno o la doccia, o piuttosto, com'io credo, la bella aria che si gode qua e la dolcezza della campagna toscana, il fatto è che mi sentii subito meglio; tanto che decisi di fermarmi per un mese o due; e, per stare con maggior libertà, presi a pigione un appartamentino presso la Pensione, un po' piú giú, da Coli, che ha un bel poggiolo donde si scopre tutta la vallata coi due laghetti di Chiusi e di Montepulciano.
Ma - non so se lei lo ha già supposto - cominciò a sentirsi male mia moglie.
Non diceva anemia, perché lo aveva detto il medico; diceva che si sentiva una certa stanchezza al cuore e come un peso sul petto che le tratteneva il respiro.
E allora io, con l'aria piú ingenua che potei:
- Vuoi farti visitare anche tu, cara?
Si stizzí fieramente, com'io prevedevo, e rifiutò.
Il male, si capisce, crebbe di giorno in giorno, crebbe quanto piú lei s'ostinò nel rifiuto.
Io, duro, non le dissi piú nulla.
Finché lei stessa, un giorno, non potendone piú, mi disse che voleva la visita, ma non di quel medico, no, recisamente no; dell'altro medico condotto (ce n'erano due, allora): dal dottor Berri voleva farsi visitare, ch'era un vecchiotto ispido, asmatico, quasi cieco, già mezzo giubilato, ora giubilato del tutto, all'altro mondo.
- Ma via! - esclamai.
- Chi chiama piú il dottor Berri? E sarebbe poi uno sgarbo immeritato al dottor Loero, che s'è dimostrato sempre cosí premuroso e cortese con noi.
Di fatti, ogni giorno, qua alle Terme, vedendomi scendere dalla vettura con mia moglie, il dottor Loero ci si faceva innanzi con quella impostatura altera e compunta; si congratulava con me della rapida miglioría; m'accompagnava alla fonte e poi sú e giú per i vialetti del parco, non mancando ai debiti riguardi verso mia moglie, ma curandosi pochissimo, nei primi giorni, di lei, che ne gonfiava, s'intende, in silenzio.
Da una settimana, però, avevano preso a battagliar fra loro su l'eterna questione degli uomini e delle donne, dell'uomo che è prepotente, della donna che è vittima, della società che è ingiusta, ecc.
ecc.
Creda, signor mio, non posso piú sentirne parlare, di queste baggianate.
In sette anni di matrimonio, fra me e mia moglie non si parlò mai d'altro.
Le confesso tuttavia che in quella settimana gongolai nel sentir ripetere al dottor Loero con molta compostezza le mie stesse argomentazioni, e col pepe e col sale dell'autorità scientifica.
Mia moglie, a me, mi caricava d'insulti; col dottor Loero, invece, doveva rodere il freno della convenienza; ma della bile che non poteva sputare, insaporava ben bene le parole.
Speravo, con questo, che il mal di cuore le passasse.
Ma che! Come le ho detto, le crebbe di giorno in giorno.
Segno, non le pare? ch'ella voleva convincere con altri argomenti l'avversario.
E guardi un po' che razza di parte tocca talvolta di rappresentare a un povero marito! Sapevo benissimo ch'ella voleva esser visitata dal dottor Loero e ch'era tutta una commedia l'antipatia che questi le faceva, una commedia la pretesa d'esser visitata invece da quel vecchio asmatico e rimbecillito, come una commedia era quel suo mal di cuore.
Eppure dovetti fingere di credere sul serio a tutt'e tre le cose e sudare una camicia per indurla a far quello che lei, in fondo, desiderava.
Caro signore, quando mia moglie, senza busto - s'intende - si stese sul letto e lui, il dottore, la guardò negli occhi nel chinarsi per posarle l'occhio sulla mammella, io la vidi quasi mancare, quasi disfarsi; le vidi negli occhi e nel volto quel tale turbamento...
quel tale tremore, che...
- lei m'intende bene.
La conoscevo e non potevo sbagliare.
Poteva bastare, no? Una moglie rimane onestissima, illibata, inammendabile, dopo una visita come quella; visita medica, c'è poco da dire, sotto gli occhi del marito.
E va bene! Che bisogno c'era, domando io, di venirmi a cantar sul muso quel che già sapevo dentro di me e avevo visto con gli occhi miei e quasi toccato con mano?
Sú, sú.
Coraggio.
Ribeviamo.
Ribeviamo.
Me ne stavo una sera sul poggiolo a contemplare il magnifico spettacolo dell'ampia vallata sotto la luna.
Mia moglie s'era già messa a letto.
Lei mi vede cosí grasso e forse non mi suppone capace di commuovermi a uno spettacolo di natura.
Ma creda che ho un'anima piuttosto mingherlina.
Un'animuccia coi capelli biondi ho, e col visino dolce dolce, diafano e affilato e gli occhi color di cielo.
Un'animuccia insomma che pare un'inglesina, quando, nel silenzio, nella solitudine, s'affaccia alle finestre di questi miei occhiacci di bue, e s'intenerisce alla vista della luna e allo scampanellío che fanno i grilli sparsi per la campagna.
Gli uomini, di giorno, nelle città, e i grilli non si danno requie la notte nelle campagne.
Bella professione, quella del grillo!
- Che fai?
- Canto.
- E perché canti?
Non lo sa nemmeno lui.
Canta.
E tutte le stelle tremano nel cielo.
Lei le guarda.
Bella professione, anche quella delle stelle! Che stanno a farci lassú? Niente.
Guardano anche loro nel vuoto e par che n'abbiano un brivido continuo.
E sapesse quanto mi piace il gufo che, in mezzo a tanta dolcezza, si mette a singhiozzare da lontano, angosciato.
Ci piange lui, dalla dolcezza.
Basta.
Guardavo commosso, come le ho detto, quello spettacolo, ma già sentivo un po' di fresco (eran passate le undici) e stavo per ritirarmi: quando udii picchiar forte e a lungo all'uscio di strada.
Chi poteva essere a quell'ora?
Il dottor Loero.
In uno stato, signor mio, da far compassione finanche alle pietre.
Ubriaco fradicio.
Erano venuti da Firenze, da Perugia e da Roma cinque o sei medici, per la cura dell'acqua, ed egli, col farmacista, aveva pensato bene di dare una cena ai colleghi, nell'Ospedaletto della Croce Verde, dietro la Collegiata, lí vicino a Rori.
Allegra, come lei può immaginare, una cenetta all'ospedale! E altro che cura d'acqua! s'erano ubriacati tutti come tanti...
non diciamo majali, perché i majali, poveracci, non hanno veramente quest'abitudine.
Che idea gli era balenata, nel vino, di venire a inquietar me, ch'ero quella sera, come le ho detto, tutto chiaro di luna?
Barcollava, e dovetti sorreggerlo fino al poggiolo.
Lí m'abbracciò stretto stretto e mi disse che mi voleva bene, un bene da fratello, e che tutta la sera aveva parlato di me coi colleghi, del mio fegato e del mio stomaco rovinati, che gli stavano a cuore, tanto a cuore che, passando innanzi alla mia porta, non aveva voluto trascurare di farmi una visitina, temendo che il giorno appresso non sarebbe potuto andare alle Terme, perché - non si sarebbe detto, veh! - ma aveva proprio bevuto un pochino.
Io a ringraziarlo, si figuri, e a esortarlo ad andarsene a casa, ché era già tardi...
Niente! Volle una seggiola per mettersi a sedere sul poggiolo, e cominciò a parlarmi di mia moglie, che gli piaceva tanto, e voleva che andassi a destarla, perché con lui ci stava, la signora Carlottina, oh se ci stava! e come! Bella puledra ombrosa, che sparava calci per amore, per farsi carezzare...
E via di questo passo, sghignazzando e tentando con gli occhi, che gli si chiudevano soli, certi furbeschi ammiccamenti.
Mi dica lei che potevo fargli in quello stato.
Schiaffeggiare un ubriaco che non si reggeva in piedi? Mia moglie, che s'era svegliata, me lo gridò rabbiosamente tre o quattro volte dal letto.
Anche a me la volontà di schiaffeggiarlo era scesa alle mani: ma chi sa che impressione avrebbe fatto uno schiaffo a quel povero giovine che, nella beata incoscienza del vino, aveva perduto ogni nozione sociale e civile e gridava in faccia la verità allegramente.
Lo afferrai e lo tirai sú dalla seggiola: una certa scrollatina non potei far a meno di dargliela, ma fu lí lí per cascare e dovetti aver cura del suo stato fino alla porta; là...
sí, gli diedi un piccolo spintone e lo mandai a ruzzolare per la strada.
Quando entrai in camera da letto, trovai mia moglie con un diavolo per capello: frenetica addirittura.
S'era levata da letto.
Mi assaltò con ingiurie sanguinose; mi disse che se fossi stato un altro uomo, avrei dovuto pestarmi sotto i piedi quel mascalzone e poi buttarlo dal poggiolo; che ero un uomo di cartapesta, senza sangue nelle vene, senza rossore in faccia, incapace di difendere la rispettabilità della moglie, e capacissimo invece di far tanto di cappello al primo venuto che...
Non la lasciai finire; levai una mano; le gridai che badasse bene: lo schiaffo che avrei dovuto dare a colui, se non fosse stato ubriaco, l'avrei appioppato a lei, se non taceva.
Non tacque, si figuri! Dal furore passò al dileggio.
Ma sicuro che m'era facilissimo fare il gradasso con lei, schiaffeggiare una donna, dopo aver accolto e accompagnato coi debiti riguardi fino alla porta uno che era venuto a insultarmi fino a casa.
Ma perché, perché non ero andata a destarla subito? Anzi perché non glielo avevo introdotto in camera e pregato di mettersi a letto con lei?
- Tu lo sfiderai! - mi gridò in fine, fuori di sé.
- Tu lo sfiderai domani, e guaj a te se non lo fai!
A sentirsi dire certe cose da una donna, qualunque uomo si ribella.
M'ero già spogliato e messo a letto.
Le dissi che la smettesse una buona volta e mi lasciasse dormire in pace: non avrei sfidato nessuno, anche per non dare a lei questa soddisfazione.
Ma durante la notte, tra me e me, ci pensai molto.
Non sapevo e non so di cavalleria, se un gentiluomo debba raccoglier l'insulto e la provocazione di un ubriaco che non sa quel che si dica.
La mattina dopo, ero sul punto di recarmi a prender consiglio da un maggiore in ritiro che avevo conosciuto alle Terme, quando questo stesso maggiore, in compagnia di un altro signore del paese, venne a chiedermi lui soddisfazione a nome del dottor Loero.
Già! per il modo come lo avevo messo alla porta la sera precedente.
Pare che, al mio spintone, cadendo, si fosse ferito al naso.
- Ma se era ubriaco! - gridai a quei signori.
Tanto peggio per me.
Dovevo usargli un certo riguardo.
Io, capisce? E per miracolo mia moglie non mi aveva mangiato, perché non lo avevo buttato giú dal poggiolo!
Basta.
Voglio andar per le leste.
Accettai la sfida; ma mia moglie mi sghignò sul muso e, senza por tempo di mezzo, cominciò a preparar le sue robe.
Voleva partir subito; andarsene, senza aspettar l'esito del duello, che pure sapeva a condizioni gravissime.
Da che ero in ballo, volevo ballare.
Le impose lui, le condizioni: alla pistola.
Benissimo! Ma io pretesi allora, che si facesse a quindici passi.
E scrissi una lettera, alla vigilia, che mi fa crepar dalle risa ogni qual volta la rileggo.
Lei non può figurarsi che sorta di scempiaggini vengano in mente a un pover'uomo in siffatti frangenti.
Non avevo mai maneggiato armi.
Le giuro che, istintivamente, chiudevo gli occhi, sparando.
Il duello si fece su alla Faggeta.
I due primi colpi andarono a vuoto; al terzo...
no, il terzo andò pure a vuoto; fu il quarto; al quarto colpo - veda un po' che testa dura, quella del dottore! - la palla ci vide per me e andò a bollarlo in fronte, ma non gl'intaccò l'osso, gli strisciò sotto la cute capelluta e gli riuscí di dietro, dalla nuca.
Lí per lí parve morto.
Accorremmo tutti; anch'io; ma uno dei miei padrini mi consigliò d'allontanarmi, di salire in vettura e scappare per la via di Chiusi.
Scappai.
Il giorno dopo venni a sapere di che si trattava; e un'altra cosa venni a sapere, che mi riempí di gioja e di rammarico a un tempo: di gioja per me, di rammarico per il mio avversario, il quale, dopo una palla in fronte, pover'uomo, non se la meritava davvero.
Riaprendo gli occhi, nell'Ospedaletto della Croce Verde, il dottor Loero si vide innanzi un bellissimo spettacolo: mia moglie, accorsa al suo capezzale per assisterlo!
Della ferita guarí in una quindicina di giorni: di mia moglie, caro signore, non è piú guarito.
Vogliamo andare per il secondo bicchiere?
PALLINO E MIMÌ
Si chiamò prima Pallino perché, quando nacque, pareva una palla.
Di tutta la figliata, che fu di sei, si salvò lui solo, grazie alle preghiere insistenti e alla tenera protezione dei ragazzi.
Babbo Colombo, come non poteva andare a caccia, ch'era stata la sua passione, non voleva piú neanche cani per casa, e tutti, tutti morti li voleva quei cuccioli là.
Cosí pure fosse morta la Vespina loro madre, che gli ricordava le belle cacciate degli altri anni, quand'egli non soffriva ancora dei maledetti reumi, dell'artritide, che - eccolo là - lo avevano torto come un uncino!
A Chianciano, già il vento ci dava anche nei mesi caldi: certe libecciate che investivano e scotevan le case da schiantarle e portarsele via.
Figurarsi d'inverno! E dunque tutti in cucina, stretti accovacciati da mane a sera nel canto del foco, sotto la cappa, senza cacciar fuori la punta del naso, neanche per andare a messa la domenica.
Giusto, la Collegiata era lí dirimpetto a due passi.
Quasi quasi la messa si poteva vederla dai vetri della finestra di cucina.
Nelle altre camere della casa non ci s'andava se non per ficcarsi a letto, la sera di buon'ora.
Ma babbo Colombo ci faceva anche di giorno una capatina di tanto in tanto, curvo, con le gambe fasciate, spasimando a ogni passo, per andar a vedere dal balcone della sala da pranzo tutta la Val di Chiana che si scopriva di là e il suo bel podere di Caggiolo.
E Vespina, a farglielo apposta, gravida, cosí che poteva appena spiccicar le piote da terra, lo seguiva lemme lemme, per accrescergli il rimpianto della campagna lontana, il dispetto di vedersi ridotto in quello stato.
Maledetta! E ora gli faceva i figliuoli, per giunta.
Ma glieli avrebbe accomodati lui! Oh, senza farli penare, beninteso.
Li avrebbe presi per la coda e là, avrebbe loro sbatacchiata la testa in una pietra.
I ragazzi, la Delmina, Ezio, Igino, la Norina, nel vedergli far l'atto, gridavano:
- No, babbo! piccinini!
Sicché, quando i cuccioli vennero alla luce, ne vollero salvare almeno uno, quello che sembrò loro il piú carino, sottraendolo e nascondendolo.
Ottenuta la grazia, andarono per veder Pallino, e sissignori, gli mancava la coda! Parve loro un tradimento, e si guardarono tutt'e quattro negli occhi:
- Madonna! Senza coda! E come si fa?
Appiccicargliene una finta non si poteva, né fare che il babbo non se n'accorgesse.
Ma ormai la grazia era concessa, e Pallino fu tenuto in casa, per quanto già la tenerezza dei padroncini, a causa di quel ridicolo difetto, fosse venuta a mancare.
Per giunta anche si fece di giorno in giorno piú brutto.
Ma non ne sapeva nulla lui, bestiolino! Senza coda era nato, e pareva ne facesse a meno volentieri; pareva anzi non sospettasse minimamente che gli mancava qualche cosa.
E voleva ruzzare.
Ora, farà pena un bimbo nato male, zoppetto o gobbino, a vederlo ridere e scherzare, ignaro della sua disgrazia; ma una brutta bestiola non ne fa, e se ruzza e disturba, non si ha sofferenza per lei; le si dà un calcio, là e addio.
Pallino, distratto dai suoi giuochi furibondi con un gomitolo o con qualche pantofola da una pedata che lo mandava a ruzzolare da un capo all'altro della cucina, si levava lesto lesto su le due zampette davanti, le orecchie dritte, la testa da un lato, e stava un pezzo a guardare.
Non guaiva né protestava.
Pareva che a poco a poco si capacitasse che i cani debbano esser trattati cosí, che questa fosse una condizione inerente alla sua esistenza canina e che non ci fosse perciò da aversene a male.
Gli ci vollero però circa tre mesi per capire ben bene che al padrone non piaceva che le pantofole gli fossero rosicchiate.
Allora imparò anche a cansar le pedate: appena babbo Colombo alzava il piede, lasciava la preda e andava a cacciarsi sotto il letto.
Lí riparato, imparò un'altra cosa: quanto, cioè, gli uomini siano cattivi.
Si sentí chiamare amorevolmente, invitare a venir fuori col frullo delle dita:
- Qua, Pallino! Caro! caro! qua, piccinino!
S'aspettava carezze, s'aspettava il perdono, ma, appena ghermito per la cuticagna, botte da levare il pelo.
Ah sí? E allora, anche lui si buttò alle cattive: rubò, stracciò, insudiciò, arrivò finanche a morsicare.
Ma ci guadagnò questo, che fu messo alla porta; e, siccome nessuno intercedette per lui, andò randagio e mendico per il paese.
Finché non se lo tolse in bottega Fanfulla Mochi, macellajo, a cui era morto in quei giorni il cagnolino.
Fanfulla Mochi era un bel tipo.
Amava le bestie, e gli toccava ammazzarle; non poteva soffrire gli uomini e gli toccava servirli e rispettarli.
Avrebbe tenuto in cuor suo dalla parte dei poveri; ma, da macellajo, non poteva, perché la carne ai poveri, si sa, riesce indigesta.
Doveva servire i signori che non avevano voluto averlo dalla loro.
Sicuro! Perché era nato signore, lui, almeno per metà! Lo desumeva dal fatto che, uscito a sedici anni da un nobile ospizio in cui era stato accolto fin dalla nascita, gli eran venuti, non sapeva né donde, né come, né perché, sei mila lire, residuo d'un rimborso liquidato in contanti.
Lo avevan messo garzone in una macelleria; e da che c'era, con quella sommetta, aveva seguitato a fare il macellajo per conto suo.
Ma il sanguaccio del gran signore se lo sentiva nelle vene torpide, nelle piote gottose, e un cotal fluido pazzesco gli circolava per il corpo, che ora gli dava una noja cupa e amara, ora lo spingeva a certi atti...
Per esempio: tre anni fa, radendosi la barba e vedendosi allo specchio piú brutto del solito, già invecchiato, infermiccio, s'era lasciata andare una bella rasojata alla gola, tirata coscienziosamente a regola d'arte.
Condotto mezzo morto all'ospedaletto, aveva rassicurato la gente che gli correva dietro spaventata:
- Non è niente, non è niente: un'incicciatina!
Per prima cosa, Fanfulla Mochi ribattezzò Pallino: gli impose il nome di Bistecchino; poi lo portò alla finestra e gli disse:
- Vedi là, Bistecchino, il mio bel Monte Amiata! Grosse le scarpe, ma tu sapessi che cervelli fini ci si fa! Bastardi, ma fini.
Se tu vuoi stare con me, dev'essere un patto che tu diventi un canino saggio e per bene.
T'adotterò io, non temere: acculati qua! Se fossi porco, Bistecchino, mangeresti tu? Io no.
Il porco crede di mangiare per sé e ingrassa per gli altri.
Non è punto bella la sorte del porco.
Ah - io direi - m'allevate per questo? Ringrazio, signori.
Mangiatemi magro.
Pallino a questo punto sternutí due o tre volte, come in segno d'approvazione.
Fanfulla ne fu molto contento, e seguitò a conversare a lungo con lui, ogni giorno; e quello ad ascoltare serio serio, finché, prima una zampa ad annaspare, poi levava la testa e spalancava la bocca a uno sbadiglio seguíto da un variato mugolío, per far intendere al padrone che bastava.
Fosse per la triste esperienza fatta in casa di babbo Colombo, per via della coda che gli mancava, fosse per gli ammaestramenti di Fanfulla, fatto sta ed è che Pallino divenne un cane di carattere, un cane che si faceva notare, non solamente perché scodato, ma anche per il suo particolar modo di condurs
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